LIBRI E RIVISTE D’ITALIA (nr.527-530)
Gennaio-Aprile 1994
Salvatore LUPO. Storia
della mafia dalle origini ai giorni nostri. Roma, Donzelli Editore, 1993,
pp. X-244, L. 28.000.
Paolo PEZZINO. La
congiura dei pugnalatori. Un caso politico-giudiziario alle origini della mafia.
Venezia, Marsilio, 1992, pp. X-308, L. 40.000.
Segnaliamo insieme questi due
lavori sulla storia del fenomeno mafioso non tanto per l’identità
dell’argomento trattato —ché in realtà i due volumi si differenziano per
l’impostazione, essendo il primo una sintetica esposizione della storia della
mafia dal 1860 in poi e il secondo la ricostruzione di un oscuro episodio di
sangue avvenuto a Palermo nel 1862—, quanto perché in entrambi emerge la
connessione tra lo sviluppo dell’organizzazione mafiosa e quello dello Stato
unitario. Se, come appare dalla esposizione di Salvatore Lupo, la mafia si
modella sullo Stato, mutuandone struttura e compiti, dal monopolio della
violenza al controllo sul territorio, per svolgere quella funzione vicaria, che
le consente di prosperare, ne consegue che la relazione mafia-Stato si configura
ad un tempo come un rapporto di connivenza e di concorrenza. La ricerca di Paolo
Pezzino illumina uno dei primi momenti di questa concorrenzialità, ricostruendo
il caso dell’uccisione di tredici cittadini palermitani avvenuta, senza motivi
apparenti, la sera del 1° ottobre 1862. L’episodio, con le indagini e i
clamorosi sviluppi cui diede luogo, era stato già segnalato da Sciascia come
emblematico esempio dell’ostilità nutrita dalla vecchia nobiltà borbonica
verso il nuovo Stato unitario: ed in effetti i protagonisti di questa torbida
storia sono da un lato i rappresentanti del nuovo ceto dirigente liberale calato
a Palermo in rappresentanza dell’establishment
subalpino, e dall’altro i personaggi dell’ambiguo milieu locale, che vedeva accomunati nel risentimento isolano verso
le istituzioni liberali ricchi aristocratici e popolani analfabeti, esponenti
politici e giornalisti, preti e questurini. Uno spaccato sociale e uno sfondo
culturale da cui trasse linfa vitale l’occulto contropotere mafioso,
ricostruito anche nel volume di Lupo attraverso l’indagine della secolare
vicenda delle «signorie territoriali», dei gruppi familiari e criminali,
concentrati proprio tra la città e la provincia palermitana che divenne fulcro
dell’attività mafiosa. Di fronte a questo storico intreccio tra realtà
sociale siciliana e criminalità organizzata, appare giusto l’avvertimento di
Lupo a non identificare un’intera società con la mafia, scadendo magari nelle
corrive spiegazioni che tutto attribuiscono alla «mentalità» e al «costume»;
così come corretta è la scelta di iniziare la storia della mafia dal momento
in cui essa diviene un fenomeno percepibile e documentabile, ossia appunto
dall’Italia postunitaria, senza dover necessariamente risalire alle più
lontane vicende del viceregno spagnolo (in cui pure la storia mafiosa si radica;
e prima o poi sarà argomento da dover affrontare con completezza). Muovendo
entrambe da una accurata investigazione archivistica — che le distanzia da
tanta corrente pubblicistica mafiologica — le due ricerche trattano insomma la
mafia come un serio problema storico, innervato entro i tempi lunghi della realtà
culturale, economica e politica siciliana. E viene in mente, a proposito del
versante culturale su cui si radica la storia mafiosa, un’altra, piccola ma
emblematica ricerca apparsa di recente (1993) per i tipi della Sellerio, quella
sulla Bolla di componenda di Andrea Camilleri. Grazie alla scoperta
dell’emanazione, nella Sicilia ottocentesca, di bolle vescovili che, dietro
versamento di una congrua somma, assolvevano dal peccato i colpevoli di furti,
rapine, truffe e di altri reati (tutti — tranne l’omicidio —
puntigliosamente elencati nelle bolle stesse), Camilleri mostra come anche una
parte della Chiesa abbia contribuito alla formazione di quell’ambigua e
permissiva morale dell’illegalità che divenne fertilissimo humus
per il fiorire della mafia. Per gli storici delle istituzioni ecclesiastiche
e curiali la vicenda risulta meno stupefacente di quanto possa apparire, giacché
da secoli appositi tribunali provvedevano in curia a «comporre», in cambio di
denaro, abusi d’ogni tipo, dall’abbandono dell’abito talare, al
concubinaggio, all’usura, ecc. Ma una simile prassi assume un valore del tutto
peculiare nella Sicilia mafiosa: non per caso Camilleri, che ha raccolto varie
testimonianze circa l’incontrovertibile esistenza di queste bolle «di
componenda», non ha potuto rintracciarne nessun originale, come Sciascia gli
aveva acutamente predetto. Sempre in questi casi, infatti, un’accorta ed
esercitata censura, facendo sparire il documento, cerca di cancellare con esso
anche il fatto, in maniera tale che non ne rimangano scomode tracce nella
memoria storica.
(A.A.)