La Repubblica 22.11.1997 

"Ma il suo siciliano e' una scelta colta"

La donna di servizio e' una cammarera, la voglia di fare qualcosa e' gana, il racconto e' un cunto, l'affarmazione convinta e' sissi. Squarci della sicilianità linguistica di Andrea Camilleri, briciole di quella spina dorsale narrativa che da sempre, dal Birraio di Preston al Ladro di merendine, connota i suoi romanzi con infioriture dialettali e guizzi di colloquietà paesana. Pane per i denti di un linguista come Franco lo Piparo, docente di filosofia del linguaggio alla facolta' di Lettere di Palermo, che nel '81, quando la fortuna editoriale di Camilleri era tutta da venire, presento al pubblico "Un filo di fumo". Un romanzo che in quella prima edizione, pubblicata da Garzanti, fu accompagnato da un glossario sui termini dialettali. E di cui come racconta Lo Piparo, lo stesso Camilleri non senti' piu' il bisogno per la successiva edizione pubblicata da Sellerio. Quasi un passaporto nazionale, insomma, per quel siciliano letterario che apre la porta ad alcune riflessioni sulla questione linguistica della narrativa isolana. "Da Pirandello a Sciascia tutti gli scrittori siciliani si sono posti il problema di come fare parlare i loro personaggi - dice Lo Piparo - Nell'800, che poi e' il secolo prediletto da Camilleri in alcuni suoi romanzi, la lingua di comunicazione era il dialetto, non certo l'italiano. Gli idiomi regionali non distinguevano il contadino dall'aristocratico, non caratterizzava una classe sociale, perche' parlvano tutti la stessa lingua: l'italia pre-unitaria era un insieme di regioni e quindi di dialetti. Anche Verga parlava il siciliano col suo amico Capuana. Al momento di scrivere un libro, pero', e' questione di scelte: uno puo' anche fregarsene e fare parlare tutti i personaggi del romanzo in un buon italiano, come ha fatto Manzoni. oppure c'e' la scelta di Verga di una lingua inventata: la lingua dei "Malavoglia" - continua Lo Piparo - non e' quella che avrebbe parlato nella realta' un padron 'Ntoni o un Bastianazzo, non e', insomma, la vera lingua dei pescatori e dei contadini. E' una lingua molto colloquiale nella quale si riesce a sentire chiaramente la diversita' regionale. Verga, a differenza di altri scrittori marcatamente siciliani, non si limita a infilare qualche parola dialettale ogni tanto ma inventa una sintassi. Camilleri, invece, compie un'operazione di tipo lessicale, non di sintassi. Nei suoi romanzi ci sono dei termini dialettali ma l'impianto resta italiano. Diciamo che Camilleri parte dall'italiano per arrivare al siciliano. E' una scelta sicuramente importante ma diversa da quella di Verga, che in definitiva attuo' la sua fortunata formula solo per i "Malavoglia". Considerazioni, quelle di Lo Pipero, che premiano comunque la scelta linguistica di Camilleri e la sua maniera di sicilianizzare le sue storie. "Non c'e' dubbio che i meriti letterari di Camilleri restano alti - conclude il docente - Anche perche' il siciliano ormai e' diventata una scelta colta: sono le persone colte che oggi parlano il siciliano, gli incolti, invece, parlano un brutto italiano".
Mario Di Caro