La grotta della vipera

rivista trimestrale di cultura

Anno XXIII – Numero 79-80 – Autunno –Inverno 1997

CUEC editrice – Cagliari

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In attesa della mosca:

la scrittura di Andrea Camilleri

 

                  “Per scrivere bisogna amare; e per amare bisogna capire”

  John Fante, A ovest di Roma

   

 

Premessa.

 È da salutare con vera soddisfazione l’esplosione recente del cosiddetto “fenomeno Andrea Camilleri”, come è stato definito dalle pagine culturali dei giornali che se ne sono occupati. Rare volte, infatti, deve essere capitato di imbattersi in un autore che, in pochi anni, e per di più ad una età ritenuta solitamente ‘alta’ per uno scrittore agli esordi, riesce a produrre una notevole quantità di libri e ristampe e ad ottenere una qualità sempre crescente, come testimonia il consenso convinto di pubblico e di critica. Nella storia vicina delle nostre lettere un caso simile si potrebbe paragonare, tenendo presenti le diverse specificità, solo a quello di Gesualdo Bufalino. Non a caso, come Camilleri, pure lui siciliano; non a caso, pure lui, lanciato dall’intelligente editore Sellerio.

Il successo di Camilleri risulta ulteriormente confermato dal fatto che egli è uno scrittore riuscito ad imporsi per via di quel sottile e tacito patto tra ‘lettori attenti’ noto come passaparola o tam-tam: indice di gradimento senza dubbio più veritiero delle solite classifiche di vendita sbandierate così tanto spesso dalle case editrici per legittimare operazioni editoriali talvolta ‘ardite’. Non vogliamo minimamente asserire che il successo di pubblico e vendite sia disprezzabile : tutt’altro; e, dopotutto, costituisce l’unico motivo (uno dei pochi, a voler essere buoni) per cui esistono e resistono gli editori.

Ma poiché quasi sempre il battage pubblicitario dei grandi editori riesce, presso il pubblico dei lettori occasionali, ad imporre all’attenzione libri e scrittori di nulle o minime capacità, doppiamente soddisfa e c’è di che rallegrarsi quando si riesce a vedere conciliati la qualità letteraria dei libri con il loro successo in termini numerici.

Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925) è stato essenzialmente, prima di approdare alla letteratura, uomo di teatro; per scelta e vocazione, aiutata, forse, dall’intrinseco “sentimento del teatro” (come ha scritto Bufalino) proprio dei siciliani. Sceneggiatore e regista, insegna all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” e nella sua lunga carriera ha avuto, tra l’altro,  il merito di portare per primo in Italia il teatro esistenziale di Samuel Beckett ; come per primo (e unico al mondo) ha avuto dal Nobel irlandese, notoriamente e legittimamente geloso della propria opera, l’autorizzazione scritta per la riduzione televisiva dei suoi drammi maggiori : Aspettando Godot e Finale di Partita. I trascorsi televisivi di Camilleri hanno fatto sì che la sua prima opera letteraria, Il corso delle cose (1978), venisse adattata per uno sceneggiato TV dal titolo La mano sugli occhi.

Al 1980 risale il primo romanzo, Un filo di fumo, pubblicato da Garzanti che lo volle corredato di un glossario, compilato dallo stesso autore, per venire incontro al pubblico che poteva rimanere sconcertato da quell’insolito e nuovissimo impasto di italiano e siciliano, vera e principale caratteristica della scrittura di Camilleri. Questo romanzo, insieme con La strage dimenticata, pubblicato da Sellerio nel 1984, costituiscono i pali di partenza di una attività letteraria che dal 1992 non conoscerà soste. In pochi anni, infatti, Camilleri riesce a produrre una serie di romanzi e saggi ‘romanzati’ che lo consacrano, come accennavamo sopra, quale prolifico scrittore degno, tuttavia, di una meritata attenzione critica. 

La gioia di raccontare.

Le direttrici principali lungo le quali si muove la produzione di Camilleri sono essenzialmente tre. E tutte, pur differenziandosi l’una dall’altra in tutta una serie di aspetti, portano ad un unica destinazione: l’immaginario paese siciliano di Vigàta; il luogo, per eccellenza, dove accadono tutti gli avvenimenti descritti dalla fertile fantasia dello scrittore.

Il primo filone è quello della ricostruzione storica che ha costituito l’aspetto iniziale dell’attività di Camilleri. Sono testimonianza di questa tendenza i volumi La strage dimenticata (1984) e La Bolla di componenda (1993).

Il secondo è quello della invenzione storica, e cioè dell’innesto e dell’ambientazione di storie più o meno romanzesche (e spiegheremo tra poco il significato di questo più o meno) nella Vigàta (e quindi nella Sicilia) degli anni e decenni immediatamente post-unitari : periodo quanto mai congeniale agli autori di storie e cose di Sicilia. È in questo scenario e in questo contesto che trovano vita i romanzi Un filo di fumo (1980 e 1997), La stagione della caccia (1992) e  Il Birraio di Preston (1995).

Il terzo percorso conduce, invece, alla Vigàta dei nostri giorni. Qui trovano il loro ambiente ideale i tre gialli che vedono per protagonista il commissario Salvo Montalbano : una delle figure più riuscite di detective all’italiana che ci sia dato leggere. La sequenza costituisce, per ora, una trilogia composta da La forma dell’acqua (1994),  Il cane di terracotta (1996) e Il ladro di merendine (1997).

Situazione leggermente più appartata fa registrare un altro squisito libriccino, Il gioco della mosca (1995). Autentica miniera di situazioni, dizionario di modi di dire, di pensare e di aneddoti si potrebbe, per comodo, far finta di crederlo una sorta di Almanacco Vigatese . Una sfiziosa rassegna di personaggi, di dicerie, di umori e atmosfere che restituiscono, con lo humour e la accattivante verve che contraddistinguono Camilleri, una miniatura insieme reale e fantastica della Sicilia della memoria e della fantasia. Un piccolo libro di sicilianerie, lo vorremmo definire, nato per una sfida e un debito nei confronti di Leonardo Sciascia, che riesce a sostenersi miracolosamente,  come l’equilibrista sul filo, solo su una fragile struttura ma, allo stesso tempo, sopporta il gravoso peso della parvenza della realtà. La comprensione di certe situazioni e la loro ragion d’essere, a volte, è favorita dal racconto di fatterelli apparentemente inconsistenti piuttosto che da poderosi volumi socio-antropologici. Ci siamo oramai abituati a pensare, e una vasta tradizione in questo senso ci autorizza, che nella descrizione di persone e accadimenti di Sicilia (terra del non detto e dell’intuìto) molto spesso è una sola sfumatura appartata che dà senso compiuto al disegno in primo piano.

Non sarebbe del tutto sbagliato affermare di Andrea Camilleri che il termine di narratore gli si addica, ancor prima, e forse meglio, di quello di scrittore. Intendiamo dire che anche nella pagina scritta non viene mai meno la dimensione e il sapore prettamente orale del racconto. Scrive ne La bolla di componenda : “È un mio difetto questo di considerare la scrittura allo stesso modo del parlare. Da solo, e col foglio bianco, non ce la faccio, ho bisogno d’immaginarmi attorno quei quattro o cinque amici che mi restano stare a sentirmi, e seguirmi, mentre lascio il filo del discorso principale, ne agguanto un altro capo, lo tengo tanticchia, me lo perdo, torno all’argomento.”[1]

Quei quattro o cinque amici si tramutano dunque nella schiera dei lettori, racchiusi, come è stato detto, in un “patto di felice comunanza” con l’autore. Il piacere della narrazione, l’autentica gioia del raccontare sono caratteristiche talmente presenti e evidenti che traboccano praticamente da ogni pagina. Del resto, la prolificità di scrittura si spiega proprio con l’insopprimibile esigenza di inventare delle storie e raccontarle agli altri, più che raccontarsele. E in un piccolo ma significativo ricordo, Camilleri illustra come in lui si sia introdotto, diciamo così, ‘il demone della narrazione’.  Un titolo non si sceglie mai per caso : il gioco della mosca, tra tutte le memorie  che costellano l’omonimo libro risulta in qualche modo più pregnante, più significativo, quasi da diventare metafora dell’esistenza. “Sono fermamente persuaso che nel corso di questo gioco [che consisteva nel deporre in terra, ciascuno dei bambini partecipanti, una monetina sulla quale si era sputato e nell’attendere speranzosi che una mosca decidesse di fermarsi sopra, ndr], durato anni, si sono decisi i nostri destini individuali : troppo tempo impegnavamo nella pura meditazione su noi stessi e il mondo. E così qualcuno divenne gangster, un altro ammiraglio, un terzo uomo politico. Per parte mia, a forza di raccontarmi storie vere o inventate in attesa della mosca, diventai regista e scrittore”.[2]

La natura essenzialmente affabulatoria dell’uomo si impadronisce di Camilleri persino laddove una tale concessione non dovrebbe essere accettata. Anche nelle opere di ricostruzione storica (e quale più fertile terreno, direbbe qualcuno, che non la storia per confondere i labili confini della realtà e dell’invenzione, della letteratura e della cronaca ?) infatti, la fiction riesce a ritagliarsi uno spazio. Il capitolo sedicesimo de La bolla di componenda, si conclude sorprendentemente con una frase avulsa dal contesto e dal tono fino a quel momento serio e impegnato : “Come Tano Fragalà”[3]. Chi sia costui è presto spiegato nel contenuto del capitolo successivo. Egli è il protagonista di un piccolo romanzo-fiume (così l’avrebbe definito Manganelli)  che, improvvisamente, fa prendere una piega narrativa al libro. E anche se, subito dopo, Camilleri riprende il filo del discorso storico e anzi si scusa e si schernisce per l’ “inutile tentativo di fuga” e l’essersi abbandonato alla fantasia, proprio dall’episodio inventato di Tano Fragalà, abbiamo precisa e credibile conoscenza di come quella bolla di componenda dovette esistere e operare nella realtà siciliana di un tempo.

A fare da parziale contrappeso a questa straripante voglia di narrazione, a questa felice inventiva è, però, l’altra immagine che Camilleri dà di sé. Scrittore che non inventa nulla ; o meglio che isola un piccolo spunto da un fatto realmente accaduto per poter poi inserirsi con le sue fantasticherie. Un primo tratto, questo, che lo accomuna, tra gli altri, a Sergio Atzeni : quello dell’Apologo, naturalmente, che ha bisogno del processo realmente intentato alle cavallette devastatrici per raccontare delle vicende di Itzoccor nella Cagliari spagnola.

Nume tutelare di questo tipo di narrazione è Leonardo Sciascia e decisiva importanza riveste per Camilleri, la lettura e la quotidiana frequentazione dell’ Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875-1876). La relazione, da non confondere con quella parallela di Franchetti e Sonnino che giungerà a conclusioni un poco migliori di quella ufficiale pur senza capire anch’essa la realtà isolana, curata dalla Commissione Parlamentare presieduta dal senatore Borsani, riporta i resoconti stenografici delle interviste che i membri della commissione fecero a “rispettabili cittadini” di Sicilia. Alcune risposte contenute nelle interviste si sono rivelate altrettanti spunti narrativi da far confluire in quel filone di scrittura che abbiamo chiamato di ‘invenzione storica’. E così, la ostinazione con la quale il prefetto Fortuzzi (“una sorta di delinquente comune elevato all’alta carica”[4]) impone l’opera inaugurale al Teatro di Caltanissetta costituisce l’occasione per Il Birraio di Preston; dalla deposizione del generale Casanova trae origine la malriposta speranza di ottenere la ‘trovatura’ (nel senso siciliano del termine) della bolla di componenda; da un altro formidabile scambio di battute prende vita La stagione della caccia. “Recentemente ci sono stati fatti di sangue al suo paese ?” domanda un membro della commissione al responsabile della sicurezza di un paesino. “No”, risponde con un ineffabile sapore siciliano il delegato, “fatta eccezione di un farmacista che per amore ha ammazzato sette persone”.[5]

A Calvino sarebbe certamente piaciuta la scrittura di Camilleri. La quintessenza di questa scrittura risiede infatti in quella “leggerezza” che l’autore delle Lezioni americane considerava come valore fondante e fondamentale della letteratura. Leggerezza che si traduce nella essenzialità dello stile, nelle fugaci movenze da minuetto, nella carica ironica, talora grottesca che pervade la pagina di Camilleri, fino a far sfociare la potenza comica in aperta risata. Questa della comicità è caratteristica più volte rilevata dai critici. I più distratti, però, hanno troppo insistito nella sottolineatura fino a quasi stravolgere la reale portata  di tale strategia narrativa. Non siamo di fronte a commedie dell’arte, a farse e macchiette, non a libri umoristici pensati solo per provocare ilarità: la risata che induce la prosa di Camilleri non è mai crassa e fine a se stessa. Il grande umorismo lascia sempre, dietro di sé, un retrogusto amaro e il sorriso sottile che ci strappano le vicende è solo una faccia (la più divertente e solare d’accordo, e tanto meglio per noi lettori)  di quel grande teatro della vita che alterna alla commedia il volto triste e malinconico della tragedia.

E proprio dall’esperienza teatrale il nostro autore trae la forza per l’ultima delle specificità della scrittura che occorre rilevare, vale a dire il grande amore e il gusto nel riportare il dialogo vivo. Lo ha scritto Sciascia in un saggio su Pirandello che lo scrittore di teatro, non potendo indugiare in indagini psicologiche indirette, affida completamente alla parola il compito di rappresentare al meglio, in tutte le loro sfumature, i personaggi. Così succede per Camilleri: scrivere il discorso diretto è uno dei suoi modi letterari preferiti, e uno dei più riusciti. Soprattutto nelle avventure del commissario Montalbano questo procedimento risulta particolarmente efficace e incisivo. Il filo narrativo è condotto molto spesso dallo scarno procedere dei dialoghi (in particolare la trascrizione di telefonate), senza che il narratore intervenga in qualsiasi modo a evidenziare un punto di vista esterno al dialogo stesso. Ne La forma dell’acqua abbiamo contato, ad esempio, quasi 100 battute (e più di 20 in sequenza) tra vari personaggi durante le quali il narratore interviene non più di 5 volte e solo per comunicare tratti soprasegmentali. Dimostrazione, una volta di più, che abbiamo a che fare prima di tutto con un grande raccontatore di storie, con uno per il quale la grande tradizione dell’oralità non è ancora finita.

Gialli di Sicilia.

Non è però la commedia bensì il “genere” del giallo quello nel quale Camilleri riesce a dare il meglio di sé come narratore. Oltre alla trilogia di Montalbano, infatti, anche La stagione della caccia e il Birraio di Preston piegano, in un modo o in un altro, verso questo tipo di scrittura così popolare. Non è da escludere, anzi, che una parte del successo di Camilleri risieda proprio nel sapiente dosaggio di due stili (commedia e giallo) di facile presa anche nel maremagno di quei lettori che prima abbiamo definito ‘occasionali’.

Abbiamo messo tra virgolette la parola genere per definire il giallo. Non è il caso qui di aprire delle parentesi più o meno lunghe su questioni di mera teoria letteraria. È un dato di fatto però, che per lungo tempo il prodotto “giallo o poliziesco” è stato considerato dai ‘critici ufficiali’ e dagli ‘addetti ai lavori’ come un fratello minore della letteratura con la maiuscola; come una delle tante appendici cosiddette paraletterarie. Ebbene, se dovessimo seguire tale punto di vista, saremmo condannati a confinare qualsiasi giallo, di qualsiasi fattura e pregio esso sia, in un limbo perenne, escludendolo per sempre, per il solo fatto di essere quel tipo di prodotto, dal paradiso della letteratura. È, questa, una polemica ormai vecchia e probabilmente superata, eppure ha visto l’uno contro l’altro armati fior di teorici e critici letterari (un giudizio abbastanza definitivo sulla impossibilità del poliziesco ad ambire alla letteratura lo diede, per esempio, Todorov). Ma ancora oggi qualcuno storce il naso.

Se solo si dà uno sguardo veloce all’evoluzione del poliziesco, per esempio in Italia, si vede bene che esso nasce e si sviluppa intorno agli anni ‘30-‘40 da modelli anglosassoni come genere di forte consumo, favorito dalle economiche collane di letteratura della Mondadori (alla quale si deve appunto la etichetta di giallo per le detective-stories). 

“Non bisogna mai dubitare del pubblico. È più intelligente e acuto che non si creda”[6], aveva scritto il primo autore di gialli italiano, Alessandro Varaldo. Era vero. La storia del giallo italiano insegna che, con quel particolare tipo di letteratura, e proprio a causa della sua eccezionale penetrazione in lettori di diverse fasce ed età, hanno dovuto fare i conti anche alcuni tra i migliori scrittori tanto da creare quel fenomeno che è stato potuto definire ‘giallo d’autore’. Protagonista di questa sorta di ‘sdoganamento’ del poliziesco per i confini della letteratura vera e propria è stato senza dubbio Leonardo Sciascia. Con Il giorno della civetta (1961) e A ciascuno il suo (1966), pubblicati in collane non riservate a gialli da un editore prestigioso, diede la prova definitiva della avvenuta nobilitazione del genere. 

E tuttavia il giallo che aveva scelto Sciascia per proporre la sua versione della verità e per portare avanti un delicatissimo discorso di lucida e spietata analisi della società, era comunque  diverso da quello classico, alla Conan Doyle o alla Christie per intenderci; ma non era neppure quello, già più moderno, di un Simenon. Il poliziesco aveva fino ad allora mantenuto una struttura solida, generalmente di questo tipo: un omicidio, una investigazione da parte di un detective, una detection, ovvero una soluzione finale. La scoperta del colpevole e il suo conseguente arresto o punizione ristabilivano l’ordine iniziale e confermavano nelle sue quasi illimitate capacità il ruolo determinante (addirittura salvifico) del solutore dell’enigma. 

Una svolta strutturale si ebbe in Italia. Ne fu autore nel 1946 Carlo Emilio Gadda con il suo celebre Pasticiaccio, che presentava un elemento addirittura sorprendente: mancava della conclusione, della detection. L’esempio venne subito seguito: maestro ne fu lo svizzero Dürrenmatt, ma il poliziesco ‘mutilato’  nacque contemporaneamente in varie letterature: vorremmo  ricordare uno splendido racconto dell’argentino Marco Denevi, Rosaura alle dieci, costruito in modo tale che nessuna delle versioni risulti più attendibile dell’altra e tutte partecipino una verità a suo modo totale. 

Arrivare a una soluzione definitiva in questi gialli è impossibile, talora persino inutile. Un fatto, per dirla con Ingravallo, “è un nodo o groviglio o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo”[7] e il disordine prevarrà inevitabilmente  sull’ordine. 

Nei gialli sciasciani citati l’indagine si interrompe però (anche se il capitano Bellodi e il professore avevano scoperto il rispettivo colpevole) non per motivi di ordine ontologico ma di ordine sociale; è la società o meglio lo Stato (profondamente intrisi di connessioni mafiose) a non voler sapere la verità.

A questo tipo di gialli, nei quali il sentimento e la ricerca della verità cozzano violentemente contro gli apparati del ‘mondo esterno’, appartengono quelli di Salvo Montalbano, caparbio commissario della Vigàta dei giorni nostri. A metà strada tra Maigret e Pepe Carvalho, di vaste letture e profonde e raffinate conoscenze intellettuali (legge tra gli altri Montalban, al quale deve il nome, Consolo, Shakespeare, Ionesco, Dürrenmatt, Pirandello, naturalmente Sciascia; riconosce i quadri di Guttuso, Mafai, Donghi ecc.), di complessa indole, metereopatico, legato a una donna forte (Livia, eco sciasciana ma anche nome della donna di Duca Lamberti, detective del maestro del giallo italiano: Scerbanenco), il commissario  risolve i suoi casi ancor prima che per esperienza e  abilità per una sorta di affinità ambientale con i luoghi teatro dei delitti.

La sua è un indagine tutta mentale. Non troveremo un modesto epigono di Sherlock Holmes, volto a ricercare con la lente di ingrandimento banali impronte digitali e tracce dell’assassino. La lente della quale si serve Montalbano è, per così dire, la sua anima siciliana; il fatto di comprendere appieno la sua terra e di essere in possesso dei codici per decrittare i messaggi che da quella terra provengono. La conferma ci proviene dal Cane di Terracotta, quando Montalbano è illuminato dallo strampalato professore Alcide Maraventano, studioso di semiotica, che gli spiega come per capire un luogo, un comportamento, e quindi anche un delitto sia necessario essere in possesso della strutture profonde: fra tutte il linguaggio, ma su questo specifico punto arriveremo fra un momento.

Lo spazio mentale dell’indagine si configura anche in altri aspetti. Quello che più solletica Montalbano non è tanto lo scoprire l’assassino e consegnarlo alla giustizia. La funzione catartica tipica di un Poirot e di una Miss Marple è negata al nostro eroe. La sua voglia di trovare la soluzione è piuttosto una sfida che la sua intelligenza lancia a quella del nemico. Una sorta di partita a scacchi (che sarebbe piaciuta al Borges di Ipotesi sul giallo) si svolge tra il commissario e il colpevole. Ma è una partita che non ha fine. E qui intravediamo, forse, un’intima debolezza di questo poliziotto, di questo “cacciatore solitario” (come si autodefinisce): la soluzione del caso alla quale egli arriva attraverso le solite brillanti deduzioni rimane, purtroppo, fine a se stessa. Nel corso della trilogia che lo vede protagonista, Montalbano arresta un solo colpevole e per di più di secondo piano.

Ancora una volta la conoscenza della verità si rivela inapplicabile alla realtà fattuale, quasi che queste due entità si respingano reciprocamente. In un caso la giustizia si accontenta di una verità di comodo, in un altro la vicenda è situata talmente in là nel tempo che della soluzione importa solamente a pochi in grado di ricordare;  in un altro ancora è coperta da servizi segreti troppo potenti.

A volerne fare una lettura blandamente psicologica si potrebbe dire che la ricerca della verità in Montalbano coincida curiosamente con una fuga dalla realtà stessa, in un mondo fatto di ordine e logica, regolato dal principio di causa ed effetto. Un universo nel quale egli può essere un dio (l’accusa gli viene mossa nella sua prima indagine) ma che purtroppo si rivela non solo  inesistente ma impossibile. La realtà che informa la nostra vita e pure quella del commissario è più simile al gomitolo gaddiano che alla rigorosa perfezione logica di Conan Doyle.

Il suo rifugiarsi ostinatamente nelle indagini, il suo rifiutare con altrettanta protervia le meritate promozioni altro non sono che spie del rifiuto di vivere la vita reale, quella di tutti i giorni; della paura di fare, in definitiva, i conti con se stesso.

È una vera fortuna che Montalbano lo capisca nell’ultimo romanzo (a nostro giudizio il più significativo della trilogia) grazie al professore di filosofia Pintacuda che tra una partita a scacchi e una tranquilla lenzata gli domanda a bruciapelo: ”Quando si deciderà a crescere Montalbano ?”[8] .

Ecco, in quel preciso momento muore un personaggio letterario per far posto, finalmente, a un uomo, la cui principale caratteristica, l’onestà[9] rispecchia in pieno, a nostro avviso, quella del suo creatore.

Una lingua per vedere il mondo

La questione più importante da affrontare trattando di Camilleri è però ancora un’altra; e cioè quella della lingua. L’aspetto certamente più evidente della prosa di questo siciliano è infatti la singolare  commistione di italiano e dialetto, un prezioso strumento linguistico vissuto ancor prima che pensato o scritto. I due codici si intersecano su più piani e livelli, dando vita, ad un terzo nuovissimo codice. Una lingua mescidata, mai banale né risaputa, un’originale miscela di italiano e siciliano che si propone con forza come possibile soluzione dell’impasse linguistica che ogni scrittore attraversa. Soluzione alla quale era approdato, sperimentandola con caparbietà e successo, anche Sergio Atzeni in Bellas mariposas: ultima tappa, purtroppo, della sua ricerca linguistica. Egli aveva anzi compiuto un ulteriore passo. Cancellando persino la punteggiatura aveva posto le basi per eliminare anche gli ultimi ostacoli e le barriere che dividono la dimensione scritta da quella orale. Anche con Atzeni si percepisce come la forza della narrazione si senta soffocata e imprigionata dalle convenzioni e lo scrittore lotta strenuamente per stravolgerle e adattarle alle proprie esigenze. 

Ancora una volta il padre nobile di questo tipo di operazione sarà senza dubbio Gadda; lo sperimentalismo linguistico proprio di altri autori, per esempio un Pizzuto (al quale Camilleri deve comunque qualcosa e ne scorgiamo il debito di riconoscenza quando lo cita elegantemente, insieme a Sciascia, Consolo e Bufalino nella scena dell’incendio del Birraio) porta ad altri lidi. Dopo la liberatoria lezione gaddiana non aveva alcun senso per gli scrittori delle generazioni future distinguere con meticolosità i due ambiti: dialetto o italiano non era più un aut-aut fortemente restrittivo.

Il programma di Gadda risulta chiaro da una sua dichiarazione del 1951: “Quanto al romanesco, non intendevo scodellare il vero e proprio dialetto; ma l’italiano misto a dialetto, quel modo vigoroso di parlare che hanno quelli che provengono per famiglia da un ambiente dialettale. In sostanza si tratta di una ‘contaminazione’ tra italiano corrente e romanesco”[10].

Che la sola lingua italiana non bastasse a più a questi scrittori (oltre a quelli ricordati bisogna almeno fare il nome di Luigi Meneghello) a rendere con precisione tutte le sensazioni, le emozioni, le voci e i colori del mondo che si proponevano di descrivere, e quindi di interpretare, è resa evidente da quest’altra dichiarazione di Camilleri che fa il paio con quella di Gadda, e testimonia l’esigenza anzitutto etica di questa scelta: “Se avessi scritto solo in italiano, mi sarebbe sembrato di banalizzare quello che ho dentro. Pirandello ha scritto che il dialetto esprime il sentimento della cosa mentre la lingua esprime il concetto della cosa. Dichiarazione rischiosa, ma che fa riflettere”[11]. Del resto, come diceva Scott Fitzgerald, “attenzione, pericolo!” non esiste in arte.

E quindi ecco anche in Camilleri il formarsi di una lingua modellata sul proprio lessico famigliare, nella quale la parlata e i modi di dire empedoclini diventano la vera architrave di sostegno per tutta l’architettura narrativa. Si capiscono certo le ragioni di Livio Garzanti a richiedere un dizionario per Un filo di fumo, ma è anche vero che i lettori (ancora una volta) si dimostrano all’altezza del compito. Non c’è bisogno di nessun dizionario, e se è vero che gli autori si formano una propria lingua di comunicazione, i lettori, se essa comunica veramente, se ne rivestono immediatamente. Si corazzano di una loro enciclopedia e sfruttano, arricchendosene, a loro favore tutti gli stimoli che vengono loro proposti. Siamo sicuri, per fare un solo esempio, che il verbo siciliano tambasiare (lo si incontra soprattutto nella trilogia montalbaniana)  descriva uno stato del mondo che tutti hanno provato eppure per il quale la lingua italiana non disponeva della parola che lo definisse.  Sotto tale rispetto hanno pienamente ragione coloro che parlano di rinsanguamento dell’italiano grazie ai dialetti, o per dirla con Gadda di “sostanza vitaminica, di fronte all’avitaminosi dell’accademia”.

La lingua di Camilleri progredisce con la pubblicazione dei romanzi; quasi che lo scrittore si senta via via più sicuro del proprio mezzo e più consapevole di avere un pubblico che lo percepisce anche fuori dai confini linguisticamente propri. A parte Un filo di fumo, con il suo glossario, gli altri libri sono mandati da soli per il mondo. Tuttavia sembra di poter ravvisare nel primo libro della trilogia dei gialli, La forma dell’acqua, una lingua leggermente più sorvegliata rispetto agli altri titoli. A parte alcuni verbi e termini  che non presentano mai modifiche nei vari romanzi (è il caso, tra gli altri, di spiare, taliàre, trasire, sparagnare, cangiare, magari nel senso di ‘anche’) alcune espressioni confermano il dato: una per tutte la locuzione “taliàre l’orologio” che dal romanzo successivo in poi diventa sistematicamente  “taliàre il ralogio”. E pure dal raffronto di due incipit, quello della Forma dell’acqua e del Ladro di merendine, la sensazione che si ricava è quella che nell’ultimo romanzo Camilleri è pervenuto ad una sicurezza e una padronanza totale del proprio linguaggio[12].

Ermanno Paccagnini ha scritto in una recensione complessivamente positiva ad alcune opere e ristampe di Camilleri: “Meno mi convince al contrario l’impiego come scelta stilistica totalizzante dell’opzione mistilingue tra italiano e dialetto. Salvo eccessi, funziona abbastanza bene nella trilogia ottocentesca. Nei polizieschi, invece, ottima in bocca, mente e pensieri dei personaggi, e di Montalbano in particolare, finisce per suonarmi disturbante, e anzi penalizzante, in quanto filo del racconto vero e proprio.”[13] 

Siamo di opinione diametralmente opposta. Infatti, ci sembra di poter affermare che è proprio quella lingua ad essere funzionale allo sviluppo del racconto. Lo stesso tipo di strategia era stato utilizzato da Gadda nel Pasticciaccio, e per un motivo ben preciso, che ritroviamo in Camilleri. Se il dialetto fosse confinato alle parole e ai pensieri potrebbe essere frainteso dai lettori semplicemente come intento mimetico di realismo e verosimiglianza; il suo sconfinamento e il dilagare nel referto dell’historicus avrà quindi altra valenza. Quella di fornire una precisa visione del mondo senza mediazioni ulteriori, di dare una descrizione e una immagine il più possibile oggettiva dei fatti narrati, proprio perché colti da una prospettiva (e quindi da una lingua) che quel mondo compartecipa. Una lingua, dunque, non solo funzionale al racconto ma capace di fornire uno schema interpretativo[14]. Anche grazie a questa lingua Montalbano sarà in grado di risolvere i suoi casi. “Il fatto è che il linguaggio - ha scritto il filosofo Tagliagambe - è anche e soprattutto uno strumento di percezione e di pensiero(...). Nella lingua e nei suoi dizionari, nelle sue metafore e nelle risonanze letterarie delle sue espressioni è custodita una conoscenza implicita e virtuale.” E ancora, più decisivamente: la lingua “è l’archivio nel quale viene depositata la ricca e delicata rete di nessi che dà sostanza e forma allo sfondo nel quale agiamo e pensiamo, alla tradizione culturale che ci consente di orientarci nel mondo e di decifrarlo”.[15]  La prova delle affermazioni sopra riportate è presto data. Nel Birraio di Preston lo stesso racconto riparte tre volte,  narrato da tre voci differenti. Una volta lo esegue il narratore ‘esterno’ con la sua lingua italo-siciliana, una seconda è il prefetto Bortuzzi (“Nell’accingermi alla descrizione...” dai Demoni di Dostoevskij) in un italiano burocratico, un ultima (ma malignamente: “Capitolo primo”) è il bambino tedesco figlio dell’ingegnere minerario Hoffer, che “da lì a qualche anno sarebbe diventato poeta e scrittore” e che infatti narra con intendimenti stilistici in un italiano di sapore vagamente ottocentesco.

Ebbene quantunque Bortuzzi  dichiari di venire “al fatto puro e semplice, e possa valere in forza della sua verità” e Hoffer si proponga di offrire “una ricostruzione saldamente ancorata alla verità dei fatti”[16] il lettore non ha alcun dubbio nel riconoscere che l’unica versione credibile dei fatti sia quella raccontata dal primo narratore, che non ha bisogno alcuno di far professione di veridicità. Semplicemente egli si serve del codice più appropriato: quello strano impasto di italiano e siciliano.

Quasi  a dimostrare, una volta di più, che per capire tutte le sfumature, il non detto, e le situazioni dell’isola di Sicilia occorre essere in possesso delle chiavi giuste. E per prima la lingua. Non diciamo che l’essere siciliani sia indispensabile, ma, di certo, aiuta molto.

I fantasmi della memoria

I nomi sono conseguenti alle cose. Ma anche le cose sono conseguenti ai nomi. Praticamente tutti i libri di Andrea Camilleri sono usciti, ora, in una collana dell’editore Sellerio che si chiama “La Memoria”. Ci piace pensare che non sia un caso, ma un sottile e ben riuscito scherzo del destino. Nei soliti avvertimenti ai lettori che devono seguire le storie di invenzione, Camilleri ripete che nomi, fatti e situazioni non hanno rapporto con la realtà. “Hanno invece rapporto fra me e la memoria della mia terra”[17]. E nell’unico libro che non esce nella collana menzionata, ossia Il gioco della mosca, troviamo una significativa epigrafe del filosofo Franz Brentano: “La memoria aduna fantasmi e più su di essi si sofferma, più li rende immaginari”.

La commistione di eventi reali con eventi immaginari, la costruzione degli uni e degli altri è forse il supremo dono che la letteratura offre all’uomo. Allora è facile capire perché la finzione narrativa ci affascina tanto. Essa, come ha scritto Eco “ci offre la possibilità di esercitare senza limiti quella facoltà che noi usiamo sia per percepire il mondo sia per ricostruire il passato. La finzione ha la stessa funzione del gioco. Come ho già detto, giocando, il bambino apprende a vivere, perché simula situazioni in cui potrebbe trovarsi da adulto. E noi adulti attraverso la funzione narrativa addestriamo la nostra capacità di dare ordine sia all’esperienza del presente sia a quella del passato”.[18]

È una definizione convincente dello scopo della letteratura, e credo che oltre che da Camilleri, sarebbe stata condivisa da Sciascia. Simulando, fingendo, siamo in grado di interrogare meglio e di ottenere più risposte, e più veritiere, dalla realtà che non da puntigliose indagini sociali. La obliqua ‘verità’ romanzesca può benissimo interpretare il mondo quanto cento saggi: si tratta di stabilire, anche qui, attraverso quali occhi vogliamo guardarlo.

Alla pubblicazione del suo primo lavoro, Il corso delle cose, Camilleri faceva seguire una curiosa nota (“Mani avanti”) nella quale affermava che gli sarebbe piaciuto ambientare una propria storia a New York. E che, sì certamente, avrebbe anche potuto farlo: era sufficiente dotarsi di uno stradario. Ma delle persone che avrebbero camminato su quelle strade non sarebbe stato in grado di capirne niente. “Pensa, al contrario, di capirne molto dei suoi conterranei. E sbaglia”. Dissimulazione onesta.

Non c’è stata migliore descrizione e miglior tentativo di comprendere la storia e le storie della Sicilia se non quella fornita da una lunga serie di letterati siciliani. A partire da Verga, Capuana, De Roberto e poi giù fino a Tomasi, Brancati, Sciascia ed altri ancora,  questi scrittori hanno contribuito, ognuno in maniera diversa, ad illuminare un pezzo di quell’unico grande puzzle che ci aiuta a capire la Sicilia e i siciliani e a ricostruirne, in qualche modo, l’anima.

È vero che la cittadina di Vigàta non appare sulla carta geografica. Che è tutto frutto di fantasia; eppure vale una efficace definizione che Ernesto De Martino diede alla Tursi di Pierro. “Villaggio vivente della memoria”[19], ma anche villaggio vivente dell’invenzione. In questa duplice dimensione la narrativa di Camilleri contribuisce a dare ragione e conto di quella che è stata ed è la Sicilia, che egli, in prima persona ha vissuto ed amato.

La data del 1860 segna, per la letteratura siciliana, una cesura storica di fortissimo richiamo. Il prezzo pagato, il disagio per le modalità di quell’unificazione dolorosa hanno esercitato un notevolissimo campo di battaglia per gli intellettuali siciliani. Terreno di rivendicazione, di riflessione, di denuncia; di disperato e ostinato grido di dolore per riportare su un piano più equilibrato la sterile retorica patriottarda italiana e i patimenti sofferti dalle popolazioni del sud.

Gli “inganni della storia” sono il rovescio della medaglia delle “magnifiche sorti e progressive”, che a queste latitudini non sembrano avere mai attecchito. Il discorso di Fabrizio Salina al piemontese Chevalley (sebbene più intriso di motivazione psico-sociali, volte a spiegare l’ ”insularità d’animo” dei siciliani) fa il paio con le amare constatazione del Vicerè di De Roberto: “La storia è una monotona ripetizione...Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore”[20]. Ha scritto lucidamente Rosario Contarino: “Facendo dell’arretratezza della società siciliana una sorta di lungimiranza visuale, De Roberto [...] anticipava la linea di tanti letterati siciliani (da Pirandello a Sciascia), che rifiuteranno i conforti del provvidenzialismo storico e interpreteranno il loro scetticismo come una forma di privilegio ottico, di distanziamento, da cui è possibile distinguere fra realtà storica e mitologie ideologiche”[21].

Non è certo un caso se Camilleri sceglie di indirizzare i suoi filoni di scrittura verso il periodo post-unitario, entrando di diritto in quella linea letteraria i cui protagonisti abbiamo elencato prima. Si dovrà rilevare che la sua maniera di operare è diversa da quella di altri. Egli preferisce agire più con lo sberleffo colto e l’ironia che con il tono greve ma l’effetto è lo stesso: dietro quelle amene e divertenti storielle scorgiamo anche altri e più profondi intendimenti. Camilleri però rifugge da qualsiasi pedagogismo; si limita a lasciar cadere con eleganza qua e là delle gemme che inducono a pensare. Ci sono, da una parte, gli ‘echi’ di un diffuso sentire, di un modo di porgere gli eventi romanzeschi; dall’altra le frasi chiare  per indicare al lettore quali possibili ragionamenti possano (debbano?) scaturire dalla lettura dell’opera.

Scegliamo due brevi esempi, tra i tanti che si potrebbero fare, di queste due strategie narrative. Quasi tutti romanzi di Camilleri finiscono con una frase avversativa. Sarà anche una coincidenza, eppure ricorda fortemente (con ciò che ne consegue) quel “Ma  il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu”[22] che chiude i Malavoglia.[23]

E poi, ne La stagione della caccia, raccontando la sorte toccata ad un fratello un personaggio afferma: “- Se ne è andato in Calabria, coi briganti - spiegava don Filippo. E chiamando briganti i trentamila rivoltosi di quelle parti, si associava alla sbrigativa, e comoda, definizione dei piemontesi.”[24]

Dalla Sicilia del passato alla Sicilia contemporanea, quella in cui opera Salvo Montalbano, il tentativo di capire e interpretare è sempre visibile per il lettore in agguato. Ma il mondo contemporaneo, sembra voler dire Camilleri, ha vissuto tali e tanti cambiamenti di costume, di modi e stili di pensiero che sembra impossibile tirare le fila. Gli indizi sono tanti, in questa direzione.

“Le spiegazioni ci sono sempre e sempre vengono date - dice il professor Maraventano ad un incerto commissario -, altrimenti lei non farebbe il mestiere che fa. Solo che i codici sono diventati tanti e diversi”[25]. Eppure lo stesso mafioso Tano  u ‘Grecu si consegna a Montalbano (“uno che capisce”) perché non si ritrova più nel suo stesso ambiente malavitoso. E l’ onesto questore, amico del nostro poliziotto, ammette di ambire alla pensione perché ormai inadeguato alla realtà che lo circonda (“chiamo ancora Sisal il Totocalcio”).

In un labirinto da dove è così difficile districarsi, le uniche certezze che rimangono a Montalbano (e forse al suo creatore) sono di ordine etico e morale. Alcune derivanti da una probabile eredità storica (“Io e lei - dice il commissario al colonnello dei servizi segreti -  abbiamo concezioni diametralmente opposte su che cosa significhi essere servitori dello stato, praticamente serviamo due stati diversi”[26]) altre da un proprio sentimento della vita.

Quale che sia il risultato effettivo della lettura dell’opera di Camilleri, inserendola nella grande tradizione siciliana, in almeno alcune impressioni, dunque, veniamo confermati.

Come aveva scritto Sciascia l’esperienza letteraria dei siciliani “ha avuto come materia e oggetto la Sicilia”[27] e il letterato siciliano si è sempre posto in una posizione di diffidenza e ostilità nei confronti delle verità ufficiali, soprattutto quelle riguardanti la sua terra; quelle dette in un altra lingua. Ma ha difeso i propri tratti essenziali senza volerli imporre ad altri (prima di tutto ai suoi stessi conterranei) con la forza. Facciamo nostra la seguente frase di Rosario Contarino: “...in Sicilia la sopravvivenza di caratteri specifici, non è infatti coincisa - nei suoi più alti e seri risultati - con la nostalgia per un’indigena cultura, che in verità è stata inventata e rimpianta solo in certe pur rigogliose e orgogliose retroguardie. La “sicilianità” ha componenti psicologiche e letterarie assai più complesse; né può vivere al di fuori della dialettica isola-continente”[28].  È stato solo con il contatto continuo e l’ampio respiro europeo dei suoi grandi scrittori  che la tradizione letteraria siciliana ha potuto e voluto continuamente ricevere apporti esterni e quindi nuova linfa vitale; evitando sempre di rinchiudersi in una sterile contemplazione del proprio ombelico o di una lamentazione perenne del proprio infelice stato ma anzi proponendosi come modello da seguire, imitare e sul quale, prima di tutto, meditare. 

Conclusione: elogio dell’onestà

La lettura e la conoscenza diretta dell’opera letteraria non dovrebbe mai essere messa in secondo piano, rispetto all’intervento critico. Non che l’esercizio critico non abbia una propria utilità e una importante funzione, tuttavia è accaduto che la critica letteraria si sia spinta talvolta in eccessi. Il rischio, sempre presente, è quello che essa soverchi il testo del quale parla e le può capitare di annegarlo in una sovrabbondanza di interpretazioni e filtri.

Per fortuna il testo, quando è veramente buono, è sufficiente a se stesso e ha la forza di trovarsi sempre una via di fuga, di sottrarsi abilmente alle reti dentro le quali lo si vorrebbe rinchiudere. Caratteristica peculiare dell’opera letteraria è, come ha scritto bene Solzhenitsyn “che essa può essere a più livelli, scritta in modo che sia accessibile e soddisfi contemporaneamente lettori dotati di diversi livelli di comprensione e ricettività ; e chi con l’andar del tempo innalza il proprio livello, leggerà lo stesso libro con una comprensione sempre nuova”[29].

Il compito primo e principale del critico dovrebbe dunque essere quello di una garbata segnalazione, di un semplice invito alla lettura, al massimo di una condivisione del piacere del testo.   

Prima di chiudere, vorremmo pagare, perciò, un debito con chi ci ha fatto conoscere questo squisito scrittore di Porto Empedocle. Anche se è un consiglio mediato da lettori, complici e amici comuni sentiamo di poter dire che anche per questa sua infaticabile opera di scoperta, riflessione e messa in comune delle proprie esperienze di lettura ci manchi e ci sia da esempio, oggi più che mai, Sergio Atzeni.

Più volte abbiamo eseguito dei riscontri testuali tra questi due scrittori che sentiamo di poter avvicinare e che, probabilmente, si sarebbero sentiti vicini.

Ma se le altre volte l’occasione era stata fornita da somiglianze più o meno esteriori (la lingua, lo spunto narrativo, l’essere autori dello stesso editore) ora vorremmo stabilirne una interiore, una sorta di fratellanza morale, nel nome dell’onestà: virtù che ci sembra di avvertire prepotentemente in entrambe gli autori. Lo facciamo affidando le nostre sensazioni ad un ultima citazione, una bellissima pagina di un grande critico letterario, Giuseppe Petronio, che al termine di una lunga carrellata del nostro Novecento, e, in definitiva, di una inesauribile carriera critica,  propone un suo personale consiglio  agli scrittori. Consigli dei quali Camilleri e Atzeni non avrebbero avuto bisogno. Lo sapevano già.

“Non si credano dei, né, tanto meno, facciano i divi; non vogliano essere vati e profeti; si contentino di essere semplicemente artigiani: modesti artigiani che pazientemente lavorano al servizio degli uomini; vi immaginate il calzolaio o l’orafo che non si limitano a produrre scarpe e gioielli, ma dicano di lavorare a mostrare le possibilità dell’oro e del cuoio, o la bontà dei loro strumenti? Non pensino, scrivendo, a quattro colleghi gelosi e a qualche critico stitico, pensino alla gente, e scrivano per essa, producendo, come ogni artigiano che si rispetti, oggetti nello stesso tempo utili e belli, dove funzionalità e bellezza siano una cosa sola. Siano, in una sola parola, ‘onesti’, come tanti anni fa Saba chiedeva ai poeti: onesti come uomini e come poeti.  

Se gli scrittori lavoreranno così lavorino pure, penso io, come vogliono. Producano narrativa o lirica; opere lunghe o brevi; in versi o in prosa; con questo o quel tema; secondo questa o quella ricetta; in lingua o in dialetto...La società, sempre ma specialmente oggi, in questa nostra civiltà di massa, alla letteratura chiede tante funzioni diverse: che soddisfi l’immaginazione, la fame di storie che è propria dell’uomo; che arricchisca il sentimento; che divulghi, in modi simbolici, idee e passioni; che riempia qualche vuota ora di noia...I compiti che un poeta può adempiere sono infiniti, e sono tutti egualmente nobili e seri, come nobile è ogni lavoro dell’uomo se compiuto con animo onesto.”[30]

E noi qui, sperando che la mosca non passi mai, aspetteremo ancora altre storie.

 Stefano Salis

 



[1] Andrea Camilleri, La bolla di componenda, Palermo, Sellerio,1993, pag. 27

[2] Andrea Camilleri, Il gioco della mosca, Palermo, Sellerio,1995, pag. 109

[3] Andrea Camilleri, La bolla di componenda, cit., pag. 80. È da notare che il racconto del quale sarà protagonista ha ancora una volta per scenario il piccolo centro di Vigàta.

[4] Andrea Camilleri,  La bolla di componenda, cit., pag. 41

[5] Andrea Camilleri, nota a La stagione della caccia, Palermo, Sellerio, 1992, pag. 154

[6] Alessandro Varaldo, Dramma e romanzo poliziesco, in «Comoedia», XIV (1932), 5, pag 10

[7] Carlo Emilio Gadda, Quer pasticiaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, coll.  “Gli elefanti”, 1987, pag. 4

[8] Andrea Camilleri, Il ladro di merendine, Palermo, Sellerio, 1997, pag. 234

[9] “...hai a che fare con un uomo onesto”, Andrea Camilleri, La forma dell’acqua,  Palermo, Sellerio, 1995, pag, 55

[10] citato da  G. Pinotti, in Nota a Carlo Emilio Gadda, Quer pasticiaccio de via Merulana, cit.

[11] Trascrizione di una dichiarazione resa ad un incontro con il pubblico di Cagliari, 17-4-1997

[12] Eccoli: “Lume d’alba non filtrava nel cortiglio della “Splendor”, la società che aveva in appalto la nettezza urbana di Vigàta, una nuvolaglia bassa e densa cummigliava completamente il cielo come se fosse stato tirato un telone grigio da cornicione a cornicione, foglia non si cataminava. Il vento di scirocco tardava ad arrisbigliarsi dal suo sonno piombigno, già si faticava a scangiare parole”, La forma dell’acqua, cit., pag. 1;

“S’arrisbigliò malamente: i linzòla, nel sudatizzo del sonno agitato per via del chilo e mezzo di sarde a beccafico che la sera avanti si era sbafàto, gli si erano strettamente arravugliate torno torno il corpo, gli parse d’essere addiventato una mummia. Si susì, andò in cucina, raprì il frigorifero, si scolò mezza bottiglia d’acqua aggilàta.”, Il ladro di merendine, pag. 1.

[13] Ermanno Paccagnini, “La scrittura di Camilleri si intreccia con tre fili”, su «Il sole-24 Ore - Domenica»,  3 Agosto 1997, pag. 26

[14] Brillante la notazione di Giorgio Pinotti a proposito di una analoga situazione che si verifica in Gadda. “Ereno i primi boati, i primi sussulti, a palazzo, dopo n’anno e mezzo de novizzio, del Testa di Morto in stiffelius, o in tight: ereno de già l’occhiatacce, er vomito delli gnocchi; l’epoca della bombetta, delle ghette color tortora, stava se può di’ pe cconchiudersi”. La contaminazione sortisce un effetto violentemente caricaturale: la pronuncia vernacola di una forma disusata come conchiudere ne configura infatti la deformazione in bocca a un romano e traduce a livello linguistico la volgarità e la corruzione del regime mussoliniano.”, G. Pinotti, Nota in Carlo Emilio Gadda, Quer pasticiaccio brutto de via Merulana, cit.

[15] Silvano Tagliagambe, “Letteratura ed etnologia: i presupposti di un possibile rapporto”,  in Giuseppe Marci (a cura di), Scrivere al confine, Cagliari, CUEC, 1994.

[16] Andrea Camilleri, Il Birraio di Preston, Palermo, Sellerio, 1996. Le ultime tre citazioni sono prese nell’ordine dalle  pagg. 10, 133 e 223

[17] Andrea Camilleri, La stagione della caccia, Palermo,  Sellerio, 1994, pag. 154

[18] Umberto Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1994, pag. 163

[19] Ernesto De Martino, “Testimonianza ad Albino Pierro”, in AA.VV., Incontro a Tursi, Roma-Bari, Laterza, 1973, pag. 99

[20] Federico De Roberto, I vicerè, Milano, Garzanti (1959), pag. 652

[21] Rosario Contarino, “Il mezzogiorno e la Sicilia”, in AA.VV. (a cura di A. Asor Rosa), Letteratura Italiana. Storia e Geografia, Einaudi, III, L’età contemporanea, pag. 733

[22] Giovanni Verga, I Malavoglia, Milano, Mondadori, coll. “Oscar” (1965)

[23] Ecco i finali: “-Ma almeno lui -pensò Nino- è morto contento”, Un filo di fumo, pag. 120; “Ma il commissario non stava ringraziando lui”, Il ladro di merendine pag. 245; “Ma di questo episodio, e di altri ancora ignoti, ampiamente parleremo nei capitoli che verranno”, Il Birraio di Preston, pag. 232;  “Ma non per quello che pensi tu”, La forma dell’acqua, pag, 171; e sono da considerare avversative pure gli altri due finali: “-A me ,sinceramente, no - disse Fofò La Matina e  “E infatti non l’ho trovata” rispettivamente da La stagione della caccia e La bolla di componenda  

[24] Andrea Camilleri, La stagione della caccia, cit. pag. 116. I corsivi sono miei.

[25] Andrea Camilleri, Il cane di terracotta, Palermo, Sellerio, 1996, pag. 167

[26] Andrea Camilleri, Il ladro di merendine, cit., pag.217

[27] Leonardo Sciascia,  “La corda pazza”, in Opere 1956-1971, Milano, Bompiani, pag. 967

[28] Rosario Contarino, “Il mezzogiorno e la Sicilia”, in AA.VV. (a cura di A. Asor Rosa), Letteratura italian,, cit., pag. 788

[29] Aleksandr Solzhenitsyn, “L’esaurimento della cultura”, su «Il Sole-24 Ore - Domenica», 19 Ottobre 1997, pag. 21. I corsivi sono nel testo

[30] Giuseppe Petronio, Racconto del Novecento letterario in Italia, 1940-1990, Bari, Laterza, 1993, pag. 288