Il SOLE 24 ORE, 3 agosto 1997

LA SCRITTURA DI CAMILLERI SI INTRECCIA CON TRE FILI

di Ermanno Paccagnini

Tempo d’estate, tempo di curiosità. Nella fattispecie, per il “fenomeno Andrea Camilleri”, che la Sellerio propone sommando ristampe a prolificità produttiva e che si rivela autore di simpatica e umoristica scrittura, nonché di piacevole lettura, pur in presenza di sbandamenti frutto di esuberanza.

Quello “di considerare la scrittura allo stesso modo del parlare”, con divagazioni e abbandoni del “discorso principale per agguantarne un altro” è del resto un vizio da lui confessato nella Bolla di componenda. Vizio che si traduce in pregio solo ove (ed è il caso del commissario Montalbano) tale comportamento si fa modo di procedere di un personaggio.

La scrittura di Camilleri opera in tre direzioni. C’è innanzitutto la ricostruzione a mo’ di cronaca romanzesca di matrice sciasciana, sulla base di documenti storici, di momenti e fenomeni propri della storia siciliana, come La strage dimenticata (1984) o La Bolla di componenda (1993).

Quanto invece alla vera e propria  produzione narrativa, ecco sorgere il centro agricolo e marinaro di Vigàta, provincia di Montelusa “pur venendo a trovarsi, per dislocazione geografica, assai più vicina a Girgenti”, in cui Camilleri ambienta le sue vicende ottocentesche e i polizieschi di oggi. Una serie, la prima, che si apre con Un filo di fumo (Garzanti, 1980), storia d’una aspettativa e una illusione: il fallimento di un prepotente e disonesto commerciante di zolfi raccontato (anche con tecniche non dimentiche del primo Consolo) attraverso lo sguardo che al vapore da carico vendicatore rivolgono i paesani pieni di odio: una struttura a doppio girotondo tra le finestre delle case, a disegnare prima la speranza, quindi la delusione. La stagione della caccia (1992) è invece una commedia grottesco-noir in cui vendette, cocciutaggini d’amore o di paternità, disegnano una progressione di morti apparentemente slegate, mentre Il Birraio di Preston (1995), gustosa, iperbolica e farsesca tragicommedia su una rivolta popolare per un’indesiderata prima teatrale, è l’opera più ambiziosa e anche più matura, pur tra eccesso di civetterie: battute, bozzettismo, insistenze e digressioni, la stessa struttura a puzzle, con tessere disposte a mo’ di singole scene ricomponibili dal lettore e con cui si vuol magari fotografare la frastagliata e falsificatoria lettura della verità, ma a lungo andare un po’ fastidiosa.

La Vigàta novecentesca è invece il territorio di Salvo Montalbano,  commissario di polizia abile ma nemico delle promozioni, con un modo tutto suo di guardare la realtà: attratto, più che dal crimine eclatante, dagli elementi divagatori che gli ronzano intorno. Personaggio da subito simpatico, con qualche traccia maigrettiana (qui anche nei collaboratori), ambrosiana (nei rapporti con la fidanzata) e pepecarvalhana (l’amore per il cibo) ma con una solarità e un’umoralità tutta sua, Montalbano è personaggio che entra a pieno titolo tra gli investigatori nuovi, come Ponzio Epafrodito di Magrì, il Commissario De Luca di Lucarelli o l’inquisitore Eymerich di Evangelisti. Un personaggio che ha conosciuto una crisi di crescenza dato che all’asciuttezza della prima inchiesta, La forma dell’acqua (1994), è subentrata con Il cane di terracotta (1995) una sorta di euforia sfociata nel gioco pletorico di nuovi personaggi di Questura, insistiti nei tic fino alla caricatura, e in un eccesso di ubriacatura letteraria (citazioni) o politica (riferimenti a Sgarbi, Mastella & Co) che finiscono per penalizzare il fluire della doppia inchiesta tra delitti di mafia e ritrovamento dei corpi abbracciati di due amanti a cinquant’anni di distanza. Una sbandata che con Il ladro di merendine (Premio Ostia 1997), inchiesta ancora a doppio binario (un morto su un peschereccio e uno in un ascensore) pare essere rientrata, pur nell’impossibilità momentanea (e qui spero nei loro trasferimenti) di eliminare quelle caricature. Gialli “ambientali” che comunque si leggono d’un fiato, perché Camilleri è abile nel ricostruire ambienti e personaggi. Da abile regista, allestisce storie compatte incardinate su un dialogo magistrale per orditura e ritmo. Meno mi convince al contrario l’impiego come scelta stilistica totalizzante dell’opzione mistilingue tra italiano e dialetto. Salvo eccessi, funziona abbastanza nella trilogia ottocentesca. Nei polizieschi, invece, ottima in bocca, mente e pensieri dei personaggi, e di Montalbano in particolare, finisce per suonarmi disturbante, e anzi penalizzante, in quanto filo del racconto vero e proprio.

 

Andrea Camilleri, “Il ladro di merendine”,1996,pagg.252, L.15.000; “Un filo di fumo”,1997, pagg.140, L.15.000, “La bolla di componenda”, 1997, pagg.114, L.12.000 (tutti editi dalla Sellerio di Palermo)