Tempo d’estate, tempo di curiosità. Nella fattispecie, per il “fenomeno Andrea Camilleri”, che la Sellerio propone sommando ristampe a prolificità produttiva e che si rivela autore di simpatica e umoristica scrittura, nonché di piacevole lettura, pur in presenza di sbandamenti frutto di esuberanza.
Quello “di considerare la scrittura allo stesso
modo del parlare”, con divagazioni e abbandoni del “discorso principale per
agguantarne un altro” è del resto un vizio da lui confessato nella Bolla
di componenda. Vizio che si traduce in pregio solo ove (ed è il caso del
commissario Montalbano) tale comportamento si fa modo di procedere di un
personaggio.
La scrittura di Camilleri opera in tre direzioni.
C’è innanzitutto la ricostruzione a mo’ di cronaca romanzesca di matrice
sciasciana, sulla base di documenti storici, di momenti e fenomeni propri della
storia siciliana, come La strage dimenticata (1984) o La Bolla di
componenda (1993).
Quanto invece alla vera e propria
produzione narrativa, ecco sorgere il centro agricolo e marinaro di Vigàta,
provincia di Montelusa “pur venendo a trovarsi, per dislocazione geografica,
assai più vicina a Girgenti”, in cui Camilleri ambienta le sue vicende
ottocentesche e i polizieschi di oggi. Una serie, la prima, che si apre con Un
filo di fumo (Garzanti, 1980), storia d’una aspettativa e una illusione:
il fallimento di un prepotente e disonesto commerciante di zolfi raccontato
(anche con tecniche non dimentiche del primo Consolo) attraverso lo sguardo che
al vapore da carico vendicatore rivolgono i paesani pieni di odio: una struttura
a doppio girotondo tra le finestre delle case, a disegnare prima la speranza,
quindi la delusione. La stagione della caccia (1992) è invece una
commedia grottesco-noir in cui vendette, cocciutaggini d’amore o di paternità,
disegnano una progressione di morti apparentemente slegate, mentre Il Birraio
di Preston (1995), gustosa, iperbolica e farsesca tragicommedia su una
rivolta popolare per un’indesiderata prima teatrale, è l’opera più
ambiziosa e anche più matura, pur tra eccesso di civetterie: battute,
bozzettismo, insistenze e digressioni, la stessa struttura a puzzle, con tessere
disposte a mo’ di singole scene ricomponibili dal lettore e con cui si vuol
magari fotografare la frastagliata e falsificatoria lettura della verità, ma a
lungo andare un po’ fastidiosa.
La Vigàta novecentesca è invece il territorio di
Salvo Montalbano, commissario di
polizia abile ma nemico delle promozioni, con un modo tutto suo di guardare la
realtà: attratto, più che dal crimine eclatante, dagli elementi divagatori che
gli ronzano intorno. Personaggio da subito simpatico, con qualche traccia
maigrettiana (qui anche nei collaboratori), ambrosiana (nei rapporti con la
fidanzata) e pepecarvalhana (l’amore per il cibo) ma con una solarità e un’umoralità
tutta sua, Montalbano è personaggio che entra a pieno titolo tra gli
investigatori nuovi, come Ponzio Epafrodito di Magrì, il Commissario De Luca di
Lucarelli o l’inquisitore Eymerich di Evangelisti. Un personaggio che ha
conosciuto una crisi di crescenza dato che all’asciuttezza della prima
inchiesta, La forma dell’acqua (1994), è subentrata con Il cane di
terracotta (1995) una sorta di euforia sfociata nel gioco pletorico di nuovi
personaggi di Questura, insistiti nei tic fino alla caricatura, e in un eccesso
di ubriacatura letteraria (citazioni) o politica (riferimenti a Sgarbi, Mastella
& Co) che finiscono per penalizzare il fluire della doppia inchiesta tra
delitti di mafia e ritrovamento dei corpi abbracciati di due amanti a
cinquant’anni di distanza. Una sbandata che con Il ladro di merendine (Premio
Ostia 1997), inchiesta ancora a doppio binario (un morto su un peschereccio e
uno in un ascensore) pare essere rientrata, pur nell’impossibilità momentanea
(e qui spero nei loro trasferimenti) di eliminare quelle caricature. Gialli
“ambientali” che comunque si leggono d’un fiato, perché Camilleri è
abile nel ricostruire ambienti e personaggi. Da abile regista, allestisce storie
compatte incardinate su un dialogo magistrale per orditura e ritmo. Meno mi
convince al contrario l’impiego come scelta stilistica totalizzante
dell’opzione mistilingue tra italiano e dialetto. Salvo eccessi, funziona
abbastanza nella trilogia ottocentesca. Nei polizieschi, invece, ottima in
bocca, mente e pensieri dei personaggi, e di Montalbano in particolare, finisce
per suonarmi disturbante, e anzi penalizzante, in quanto filo del racconto vero
e proprio.
Andrea Camilleri, “Il ladro di merendine”,1996,pagg.252, L.15.000; “Un filo di fumo”,1997, pagg.140, L.15.000, “La bolla di componenda”, 1997, pagg.114, L.12.000 (tutti editi dalla Sellerio di Palermo)