da: Il Messaggero, 6 maggio 1998, pag. 1-2

 

Cadaveri ingombranti

 «No, nenti. Io in questa facenna non ci voglio trasiri» - mi risponde il commissario Salvo Montalbano che interpello telefonicamente. Ha usato il dialetto (“No, niente. Io in questa faccenda non ci voglio entrare”). E’ un sistema di difesa, per lui, il dialetto. Insisto: mi vuoi spiegare almeno perché? Tira un sospiro e comincia a parlare. «Ti faccio un esempio. Metti conto che io, dal mio paese dell’estremo Sud, mi metto in macchina e arrivo all’estremo nord della Germania. A un tratto mi trovo dentro un banco di nebbia denso come il burro, non conosco la strada, non ci vedo a venti centimetri di distanza, finisco, nella migliore delle ipotesi, completamente perso oppure vado a sbattere. Per me, come parlano e come si muovono questi del Vaticano, è nebbia fitta. Cautele, mezze ammissioni, mezze negazioni, forse, è probabile, il condizionale come unica forma verbale. Guarda come è stata data la notizia. Il nuovo Comandante delle Guardie svizzere, Alois Estermann, di anni quarantaquattro, è stato trovato assassinato alle 21 del 4 maggio assieme alla moglie Gladys Meza e il vicecaporale Cedric Tornay. Sotto il cadavere di quest’ultimo è stata rinvenuta la sua pistola d’ordinanza. Tutto qua. Vogliamo babbiare? Un comunicato così, che vorrebbe solamente attenersi alla fotografia del fatto finisce con suscitare le peggiori illazioni. Ma come? Magari una guardia svizzera, portandosi al naso l’arma del vicecaporale, riesce a sentire se la pistola ha appena fatto fuoco. Se si tratta di una pistola, ci devono essere i bossoli espulsi, se si tratta di un revolver i bossoli sono ancora nel tamburo. Elementare, Holmes (non Watson). Quindi il vicecaporale ha sparato o non ha sparato. Se non ha sparato, vuol dire che ha avvertito un pericolo, ha estratto l’arma ma l’assassino è stato più pronto di lui. Se invece ha sparato, due sono le ipotesi: ha fatto fuoco contro l’assassino o è stato lui ad ammazzare Estermann e la moglie, suicidandosi subito dopo. E questa mi pare la cosa più ovvia. La domanda è invece: perché il vicecaporale ha fatto quello che ha fatto? Un attacco di follia, probabilmente, afferma un successivo, ma altrettanto fumoso comunicato. Troppo semplice: un attacco di follia ha sempre, dietro di sé, un motivo scatenante. Allora cerco di ragionare con quel poco che mi è dato di conoscere.

Dunque, per la nomina del povero Estermann a Comandante delle Guardie svizzere ci sono voluti sette mesi. Un tempo incredibile, visto che le nomine precedenti sono state fatte nell’arco di quarantotto ore. Pare che Estermann, che si era comportato benissimo nei tremendi momenti dell’attentato al Papa, incontrasse ostacoli nella promozione per il fatto di non essere un nobile. E questo che significa? Ai fini dell’indagine è una pista che non ha senso. O vogliamo ipotizzare un complotto di nobili svizzeri per lavare l’onta? E l’avrebbero fatto subordinando il vicecaporale? No, il movente a mio parere è da ricercare tra le quattro pareti della casa di Estermann. Probabilmente il cambiamento di grado del suo superiore veniva a significare uno sconvolgimento nella vita del vicecaporale. Mettiamo il caso che il vicecaporale fosse l’attendente di Estermann (ma questo i comunicati non lo precisano) e che quella promozione veniva a significare per lui una regressione, un allontanamento, la perdita di alcuni privilegi. E si può magari ipotizzare che non si trattasse solo della perdita di privilegi, ma di una situazione nuova e diversa che veniva a sconvolgere rapporti e affetti umani o magari il graduato era perseguitato dall’ufficiale suo superiore gerarchico. Chissà! Monsignor Maggiolini, arcivescovo di Como, ha testualmente dichiarato che ”anche sotto le divise delle Guardie svizzere ci sono uomini in carne e ossa con le loro passioni e le loro mancanze”. Una cosa sola è certa: che mai come in questi ultimi tempi (l’attentato al Papa, la scomparsa di Emanuela Orlandi, quest’ultimo fatto di sangue) quell’isola sacra che è il Vaticano è stata lambita dall’onda della violenza. No, carissimo, in questa ”faccenna non ci voglio trasiri”.

 

Andrea Camilleri