Corriere della Sera 5 Maggio 1998
PROTAGONISTI Nella "Concessione del telefono" e nei precedenti romanzi la mentalità di un popolo in una polifonia di ritratti e linguaggi
 
CAMILLERI La Sicilia, così è se vi pare

Una commedia umana sulle tracce di Gogol' e Pirandello
 
Tra dialetto e burocratese il racconto della società di fine Ottocento
Si avverte l'occhio ironico dell'autore come nelle narrazioni classiche
 
Poche volte mi capita di leggere dal principio alla fine un libro, senza poterlo lasciare, con lo stesso divertimento con cui ho letto La concessione del telefono, ultimo libro di Andrea Camilleri, un autore che non esito a mettere accanto ai più celebrati tra i nostri. Camilleri appartiene a una categoria molto rara da noi. Mi fa pensare a quel tipo di narratore ipotizzato da Joyce, che se ne sta dietro o accanto alla sua opera, in disparte, a curarsi le unghie. Voglio dire che è un narratore di totale oggettività. L'io narrante, in questo suo libro, scompare, esistono solo il fatto e il linguaggio con cui viene raccontato. Esistono anche i personaggi, è vero, e sono tanti, più di una quarantina, ma sono sovrastati e amalgamati dal loro essere siciliani. Tutti pur nella loro diversità, calati in uno stesso stampo. Perché il vero personaggio che parla con molte voci da questo libro è la Sicilia, una Sicilia ancora ruspante, di fine secolo. La Sicilia e la mentalità dei siciliani. Ma con che arte, con che souplesse, con quale senso del ritmo e con quale abile polifonia ci viene rappresentata da Andrea Camilleri! Sembra quasi che le sue dita invece di battere sui tasti della macchina da scrivere, sfiorino con la levità di un pianista, i tasti di un pianoforte. Camilleri "suona" la Sicilia, la mentalità di una folla di siciliani e sicilianuzzi, dominata dal sospetto, la finzione, la dissimulazione, dalla complimentosità che nasconde la violenza a mano armata. La minaccia, il ricatto, le corna, l'imbroglio. Ma tutto questo invece di indignarci, suscita in noi una specie di superiore divertimento e un'irresistibile simpatia che viene dal piacere del testo, dal tocco dell'autore, dal fatto che tutto è allontanato nel tempo e tutto è natura, racconto da un punto di vista antropologico. E nasce dal linguaggio inventato in un italiano post-unitario, che si comincia appena a parlare, e a cui ci si sforza di uniformarsi ricadendo sempre nel dialetto originario; un italiano pieno di equivoci verbali, di costrutti improbabili, di frasi storpiate o abbellite da intrusioni di formule burocratiche; un italiano approssimativo ma espressivo, per niente manieristico (come in altri scrittori siciliani), anzi veristico e verosimile ad un tempo, e molto gustoso. è questo il linguaggio delle Cose dette.
Il libro infatti si divide in capitoli che raggruppano in modo alterno le Cose dette e le Cose scritte. Le Cose dette sono i dialoghi che avvengono tra i personaggi, dialoghi che sembrano registrati in diretta senza alcun intervento narrativo o didascalico tra una battuta e l'altra. Le Cose scritte sono lettere che si scambiano i burocrati dell'isola, prefetti, sottoprefetti, carabinieri, poliziotti, che vertono tutte sulla concessione di una linea telefonica richiesta da tale Pippo Genuardi e che scandiscono la trama aggrovigliata di questo romanzo. Nei capitoli che riportano le Cose scritte, cioè le lettere, anch'esse senza commento e scritte con la stretta necessità delle comunicazioni di servizio, trionfa il linguaggio di quell'Italietta burocratica più contorta, nel pensiero e nel linguaggio, dell'ambiente paesano in cui opera. Il linguaggio di questa burocrazia non ci sarebbe neppure bisogno di inventarselo, lo hanno inventati i burocrati di sempre, ma quando è riportato da Camilleri diventa una mescolanza di meschinità e di vessatoria supponenza veramente esilarante. Ho già detto che l'autore, come nelle narrazioni classiche, non si vede in questo romanzo. Ma si sente che un occhio ironico coglie ogni gesto dei personaggi ed un orecchio altrettanto ironico e attento ad ogni intonazione espressa o sottointesa dei loro dialoghi. È un ironia che nasce da una partecipazione e da un senso critico davvero eccezionale, ora bonaria ora feroce, che mi ha fatto pensare, nientedimeno, a quella di Gogol' più che a quella di Brancati. È pervasiva, ramificata, avvolgente, sembra nascere dalla forza delle cose e rende la lettura di questo romanzo della sicilianità affascinante, nonostante la triste realtà della società che esso rispecchia. Affascinante anche per la spinta narrativa, così piena di verve e fatta di digressioni, innesti, peripezie, colpi di scena che determinano un andamento rocambolesco, tale da costringere il lettore a proseguire, pagina dopo pagina, trascinato suo malgrado dagli avvenimenti, mentre la trama sempre più si aggroviglia, fino a diventare un modello simbolico della forma mentis collettiva di tutti i personaggi.
Ci voleva la consumata esperienza di regista teatrale e televisivo accumulata negli anni da Camilleri per poter riportare nei capitoli delle Cose dette quei veri e propri duelli verbali tra i personaggi che affollano il suo libro, i loro capziosi ragionamenti, le loro illazioni suoi comportamenti altrui, gli allarmi, le paure: "Faranno le umane e le divine cose per fotterlo ... Che fa piange?".
"Certo, pinsando a questo mio povero amico pigliato a mezzo tra lo Stato e la Mafia ..." Ed è questa la situazione in cui viene a trovarsi quel tale Pippo Genuardi alle prese con la burocrazia dello Stato che lo crede un pericoloso sovversivo e con Don Calogero (Lollò), il mafioso, quando chiede la concessione del telefono. Solo nel finale, un finale a sorpresa, con un proiettile piantato nella testa di Pippo, si saprà il perché di quella sua richiesta, che dà l'avvio alla storia. Ma prima di arrivare alla fine cruenta i dialoghi (sempre a due) le "Cose dette", cioè ci tengono avvinti come spettatori di uno straordinario teatro naturale dove i personaggi si parlano così: "Signoruzzo mio!" e "Che fa babbìa?" (balbetta, tergiversa) [Sic!, NdCFC]. "Dicisti una farfantaria" (una sciocchezza). "Oggi la vedo un fiore" (detto a un omaccione). "Mi cade la faccia a terra al pensiero che l'ho fatto scomodare". Minacce orrende affiorano tra complimentose circonlocuzioni verbali: "Io a questo Pippo gli apro la panza come a una triglia" e questo è il linguaggio di don Lollò, il mafioso, e non solo il suo. E il prete in confessione ricorda a Taninè, la fresca sposa di Pippo: "Non lo fo' per piacere mio, ma per dare un figlio a Dio" E lei gli risponde: "Ma a me mi piace". "E tu devi fare in modo che non ti piace! Taninè ci vogliamo giocare l'anima? Provare piaciri non è cosa di fimmina onesta"....
Non meno espressivi dei parlanti sono gli scriventi, i burocrati statali che si scambiano lettere con sostantivi ed aggettivi come: "È un truismo che l'aggregazione dei vagabondi sobillatori possa essere ultronea" ... E in effetti il linguaggio dei prefetti, sottoprefetti, carabinieri, poliziotti avvocati e commendatori è pur esso intriso di follia quanto quello dei ragionieri, commercianti, piccoli proprietari, lumpen borghesucci e di gran parte della popolazione di questo libro. E non vi è mai compiacimento ne leziosità nello stile mimetico dell'autore. Per concludere io credo che il romanzo italiano contemporaneo abbia in Andrea Camilleri uno dei suoi rappresentanti più notevoli ed originali, per la sua capacità di dominare con un colpo d'occhio tutta la commedia umana della sua Sicilia senza mai scadere nel bozzetto e nel costume; per le trame che sa far proliferare nel racconto mantenendo sempre la stessa tensione narrativa; per la implicita e mai superficiale critica sociale che si nasconde dietro le sue "storie naturali". Si cominci a leggere questo suo romanzo semiepistolare per convincersene e sono sicuro che dopo averlo letto si cercheranno gli altri romanzi da lui scritti, soprattutto quelli legati a quest'ultimo, che si svolgono ognuno nello stesso paesino di Vigàta, nella Sicilia fine ottocento, dando vita a una vera e propria saga isolana. E non si dimentichi che Camilleri è nato a Porto Empedocle, in zona Pirandello.


Raffaele La Capria