ITALIANISTICA – Rivista di letteratura italiana –

a. XXVII,  n. 1, Gennaio-Aprile 1998

“UN FILO DI FUMO” , ROMANZO SICILIANO DI ANDREA CAMILLERI

di BRUNO  PORCELLI 

Il  siciliano Andrea Camilleri è autore di alcuni brevi romanzi ambientati nella Vigàta dell'Ottocento o dei nostri giorni: fra i quali Un filo di fumo, uscito presso la Garzanti nel 1980 e ripubblicato dalla Sellerio nel 1997. A quest'operetta, capitata in mano a me, frequentatore poco assiduo di cose contemporanee, nell'elegante veste tipografica della casa editrice palermitana, intendo dedicare qualche pagina.

Il titolo, Un filo di fumo appunto, tratto, come è dichiarato dall'autore stesso in epigrafe, dalla patetica romanza dell'eroina nell'atto II della Butterfly di Puccini, fornisce al lettore, già sulle soglie del testo, un duplice motivo di deceptio. Innanzi tutto, infatti, l'attesa di una storia melo drammatica impostata sull'esasperazione di passioni amorose fatali è delusa da una vicenda di odi e rancori attizzati da meschini motivi d'interesse, nella quale amore e morte agiscono distintamente senza possibilità alcuna di interazione o contatto. Da una parte l'unica vicenda erotica è quella boccaccesca della signora Helke, nuora del protagonista, la quale nel tettomorto di casa si concede nel verso delle cavalle di Partia a Totuzzo, giovane muto ma fornito di cospicui attributi virili, a cui ella finge di voler insegnare a parlare; dall ' altra la morte con cui si conclude il romanzo è quella grottesca del vecchio don Angelino Villasevaglios, il quale scompare ridendo, convinto com'è d'aver visto, lui cieco, il fumo preannunciante l'arrivo del vapore che dovrebbe portare al fallimento l' odiato protagonista della storia.

Inoltre la nave che nel libretto di lllica e Giacosa finalmente arriva dopo l'attesa e il fil di fumo apparso «sull'estremo confin del mare», senza però impedire che la storia si concluda tragicamente per la protagonista, nel romanzo di Camilleri non approda perchè naufraga su una secca a poca distanza dall'arrivo, salvando il protagonista e la sua famiglia dal disastro finanziario.

La trama di Un filo di fumo ridotta all'essenziale è presto raccontata: il giorno 18 settembre 1890 a Vigàta, uno dei centri del commercio siciliano dello zolfo, nobili e borghesi (con l'esclusione dei paesani di condizione inferiore, spalloni, conduttori di carretti, minatori, a cui la cosa, lontani come sono dagli interessi di coloro che contano, risulta assolutamente indifferente) attendono con impazienza l' arrivo del vapore russo Tomorov, inviato per caricare cinquemila cantàra di zolfo depositate dalla ditta Jung nei magazzini di Totò Romeres (Romeres è lo stesso nome del caffè ai Quattro Canti di Campagna del Gattopardo) , soprannominato Barbabianca. L' arrivo della nave dovrebbe condurre al fallimento Barbabianca, che ha già venduto, a scopo di pronto realizzo, la merce al cinquanta per cento del suo valore. Ciò renderebbe felici i suoi numerosi nemici personali, cioè coloro che egli in un modo o nell ' altro, ma sempre per interesse, ha danneggiato, e persino gli estranei che non hanno avuto a che fare con lui, dato che delle disgrazie degli altri si può anche godere. L' attesa è osservata nei vari ambienti che costituiscono l' habitat di quelli che contano, e cioè gli scagni dei magazzinieri, il Circolo dei nobili, il terrazzo di don Angelino Villasevaglios, i casini di campagna di nobili e borghesi, sino al palazzo del principe.

Dall'altra parte dello schieramento i Romeres fanno di tutto per evitare il disastro, ognuno nei limiti delle sue possibilità: Totò invia Blasco Moriones, uomo di fiducia e figlio naturale, a Fela presso i fratelli Munda, che sono gli unici a dover avere motivi di riconoscenza, col compito di chiedere in prestito cinquemila cantàra di zolfo da sostituire a quelle vendute; Nenè, primo figlio di Totò, fa visita per lo stesso motivo ai dieci magazzinieri di Vigàta; Stefanuzzo, figlio tardivo bacchettone e incapace, marito cornuto di Helke, prega, si autoflagella, fa voto alla Madonna, chiuso in una stanza santuario piena di immagini sacre e lumini. 

Gli eventi desiderai o temuti ( a seconda dei punti di vista) non si verificano: i Barbabianca non riescono ad ottenere il prestito della quantità di zolfo che loro necessita, gli avversari non vedono arrivare il battello russo perchè, come sappiamo, questo naufraga sulla secca. Le due soluzioni antitetiche non si realizzano; il che sottopone un'altra volta a decezione i lettori (e gli attori). Tra p. 94 e p. 101 dell'edizione Sellerio, cioè a quattro quinti dell'opera, si genera l'evento inatteso e improvviso del naufragio che imprime un movimento contrario alla ruota della Fortuna: questa, infatti, girando ora «a riversa», risolleva le sorti dei Barbabianca e getta lo scompiglio nel variopinto campo d' Agramante di nobili e magazzinieri, che cedono le armi passando con la massima facilità dall'opposizione all'ossequio smaccato. Il vecchio Totò può così, la mattina del giorno successivo 19 settembre, celebrare il suo trionfo offrendo alla chiesa matrice di Vigàta una tavoletta votiva fatta dipingere la notte; mentre il figlio bacchettone scioglie il suo voto personale lustrando con la lingua il pavimento della stessa chiesa.

Le due cerimonie hanno per il lettore, il quale è addentro alle motivazioni dei fatti, un significato: sono di egoistico ringraziamento per il disastro economico evitato in extremis. Ma possono averne anche un altro, di facciata, almeno per i vigatesi: svolgendosi in occasione delle solenni onoranze funebri celebrate per il naufragio del battello russo, appaiono un ringraziamento per lo scampato pericolo dei superstiti. La tavoletta di rame raffigura, infatti, ambiguamente

nella parte centrale, una nave che affondava spaccata a metà e una poco di marinai sparsi qua e là con le braccia alzate al cielo che domandavano salvezza; in un tondo in alto a destra c'era la Madonna che benignamente si sporgeva da alcune nuvole per salvarne certi e altri no secondo un criterio di scelta negato ai mortali; in basso a sinistra c'era un cartiglio che portava la scritta: «Salvatore Barbabianca & Figli per grazia ricevuta» .

Il voto di Stefanuzzo può avere anche una terza motivazione: di ringraziamento per la miracolosa erezione fallica che, contraddicendo una normalità di miseria sessuale, meraviglia lui non meno della signora Helke, la quale finalmente, non più cavalcata dal muto nel tettomorto, cavalca nel letto matrimoniale il marito con tutti i crismi della legalità.

La giornata del 18 settembre, seguita dalla breve appendice del mattino seguente, è osservata nella successione dei suoi vari momenti: la mattina, con l'affannosa ricerca da parte dei Barbabianca delle cinquemila cantàra mancanti; il meriggio, con lo spostamento dell'obiettivo verso i luoghi dove si pranza; la notte, con la soluzione della vicenda, positiva o negativa che sia, osservata nelle varie camere da letto.

All'unità d'azione (l'attesa delusa degli eventi), di luogo (Vigàta), di tempo (il 18 settembre 1890) fa da contraltare una tecnica narrativa basata sul mutamento continuo di scena: il racconto si snoda per brevi paragrafi non titolati, separati da uno spazio bianco e dedicati a scenari e personaggi sempre cangianti. Il narratore prende, lascia, riprende i fili del discorso nel tentativo di rendere, più che la successione, la contemporaneità delle vicende. Si potrebbe pensare ad una pervasiva presenza di tecniche teatrali o televisive ( Camilleri è anche regista teatrale e televisivo) oppure, almeno per l'aspetto puramente formale del dato, all'artificio della ripresa nel Furioso ariostesco, opera che l'autore ricorda più di una volta nel corso di Un filo di fumo anche attraverso la lente deformante delle rappresentazioni popolari siciliane:

  1. pareva che il Principe, mozzicato dalla tarantola, gettasse a terra pezzi di ferro e pezzi di legno in una specie di raggia all'Orlando furioso (p. 42)

  2. E in quei momenti Andrea ad occhi aperti sognava di possedere il cavalo di Astolfo, la spada di Orlando (pp. 50-51)

  3. e i padroni dei carretti sempre a lui ricorrevano per fargli pittare le storie dei paladini (p 112). 

I vari paragrafi sono spesso esteriormente connessi per mezzo della tecnica capfinida (nei casi in cui si intende sottolineare il mutamento di scena) o di quella anaforica ( quando, invece, è necessario mettere in evidenza la continuità). Diamo qualche esempio della prima:

  1. Fine: Non ci posso andare, Tano» fece a bassa voce donna Matilde. “E se mi vedono? Che vogliamo fare ridere, tutto il paese?»

  2. Inizio: Andato via il sole per cariche nuvole d'acqua ...

  3. Fine: dove il grigio del cielo col grigio del mare si confondeva, alto come se il malotempo non lo toccasse, un filo di fumo nero di pece spaccava in due l'orizzonte

  4. Inizio: “Gridu di malutempu tra li gulfi ...»

  5. Fine: “Aiutami, Nino, non lo vedi che sto morendo?»

  6. Inizio: “Si vidi u fumu!»;

e della seconda, in cui l'anafora è sestupla con variazione finale:

  1. Mangiava Michele Navarrìa che abitava ...

  2. Mangiava Padre Imbornone la sua solita minestrina ...

  3. Mangiava Ciccio Lo Cascio, che l'aveva giurata a morte ...

  4. Mangiava Filippo Ingrassia, che era inteso ...

  5.  Mangiava Paolo Attard che abitava ...

  6. [...] il marchese Curtò di Baucina che ora stava mangiando ...

    seguita da epilogo riassuntivo:

  1. Mangiavano tutti, da Alajmo a Zizza

e chiusa antitetica, che porta a dieci i paragrafi collegati dal verbo mangiare in anafora:

  1. Non mangiò invece don Angelino Villasevaglios ...

  2. Non mangiò il Principe di Sommatino ...

  3. Non mangiò Masino Bonocore ...

Ma un rapporto più marcato si stabilisce con l'altro grande poema cinquecentesco vivo nella tradizione popolare, la Liberata del Tasso, di cui si percepiscono suggestioni contenutistiche e strutturali di una certa portata. Anche nel romanzo di Camilleri uno scontro fra due opposti schieramenti: da una parte i Barbabianca, dall'altra soprattutto i magazzinieri. Questi ultimi, in una scena ancora iniziale del racconto, si radunano, per una sorta di rassegna delle forze in campo, in numero di otto nel magazzino di Ciccio Lo Cascio, dove si registra per il momento l'assenza degli ultimi due, che dovrebbero far ascendere le forze dei confederati al numero perfetto di dieci. Anche qui lo scontro termina con la sospensione delle armi e lo scioglimento del voto (anzi di due voti), dopo però una prima fase contraria ai vincitori. Il mutamento di fortuna, con la ruota che si mette “a girare a riversa», è una vera e propria peripezia accompagnata come nella Liberata ( Or cominci novello ordin di cose», XIII 73) da un mutamento atmosferico. Si utilizza anche, nel romanzo contemporaneo, la tecnica della climax , per esempio nella rappresentazione delle sconfitte sempre più disastrose di Nenè Bar- babianca, a cui è affidato, come sappiamo, il compito di chiedere aiuto ai magazzinieri di Vigàta: egli si rende conto di trovarsi davanti ad “una chiara progressione di sgarberia» (p. 52). Si manifestano infine i sentimenti degli avversari alla vista del filo di fumo con un ' eccitazione che ricorda quella dei crociati alla scoperta di Gerusalemme ( canto 1113):

„U fumu! U fumu! U fumu!» Variata di tono, timbro e altezza come un gioco di foco che

s'alzava nell'aria la parola rimbalzò da tetto a tetto, da finestra a finestra seguendo una trama d'incastri, simpatie, antipatie, odii feroci e amori altrettanto, ora aiutata ora ostacolata dal vento, e poi a ruscelli, a torrenti, a cascata precipitò verso i piani bassi e verso i catoj ...

Come ci si può render conto dalla sola citazione che precede, i richiami epici, vissuti in chiave ironica, conferiscono al testo un tono eroicomico. Il risultato è raggiunto anche con l'inserimento improvviso di un elemento smaccatamente contemporaneo o comunque anacronistico. Si osservi come in quest'altra rassegna delle varie schiere di Vigatesi, catalogati in base non più al censo e alla classe sociale ma all'origine nazionale (arabi o maltesi, spagnoli, tedeschi) evidenziata da peculiarità ai limiti della caratterizzazione razzistica, e rigidamente elencati in ordine alfabetico e in coppie, a mettere in evidenza l'assurdo della catalogazione ( «Mangiavano tutti, da Alajmo a Zizza», si dice in un altro punto), l'ultimo elenco, quello dei paesani, sia un'ammiccante chiamata in causa dell'intellettualità siciliana, letteraria teatrale televisiva, dei nostri tempi:

Gli Attard, i Bouhagiar, i Camilleri, i Cassar, gli Hamel, gli Oates, i Peirce, gli Sciaino, gli Xerri arabi o maltesi che fossero, piedi incretati, attaccati all'osso, che sparagnavano magari l'olio ai morti; gli Ayala, i Contreras, i Fernandez, i Lopez, i Martinez, i Vanasco, i Villaroel, i Villasevaglios spagnoli tutti scocchi e maniglie, ma sostanza niente, sempre col naso arricciato come se sentissero feto; i Gotheil, gli Hoefer, i Jacobs mangiapatate, scecchi tedeschi col paraocchi capaci di sdirruparsi dentro un fosso pure di non spostarsi di un centimetro sulla strada segnata, teste di chiummo, e poi la fila che non finiva mai dei paesani garrusi, Brancati e Buttitta, Cacciatore e Cònsolo, D' Arrigo e De Stefani, Farinella e Fiore, Gallo e Giudice, Isgrò e Joppolo, Lanza e Longo, Mazzaglia e Mormino, Napoli e Nicosia, Padellaro e Pizzuto, Ronsisvalle e Russello, Savarese e Sciascia, Terranova e Torrisi, Uccello e Uliano, Vilardo e Virduzzo, Zagarrìo e Zinna, tutto il paese insomma ...

Le certezze eroiche non Sono più possibili: in tanto sono evocate in quanto contraddette o parodiate. Non esiste netta differenziazione tra fedeli e infedeli, buoni e cattivi: in mezzo ai nemici dei Barbabianca ci sono personaggi equivoci e voltagabbana, come Agatino Cultrera e galantuomini danneggiati dalla mancanza di scrupoli di don Totò, Come Masino Bonocore; il vecchio Barbabianca ha una solitaria ed eroica grandezza pur essendo sostanzialmente un poco di buono, i suoi figli sono più oppressi che oppressori perche Nenè è costretto ad una dolorosa Via Crucis e Stefanuzzo è un bigotto cornuto. A Vigàta ci Sono almeno altre due categorie di persone estranee alla rigida contrapposizione degli schieramenti avversi: gli indifferenti-curiosi e gli indifferenti non curiosi. La realtà può essere di incerta lettura: che significato hanno le cerimonie votive finali?

Si innesta in Un filo di fumo anche la lezione del romanzo meridionale postunitario, da Verga e De Roberto all'imitatissimo Tomasi di Lampedusa. Può darne un'idea un semplice elenco di personaggi, motivi, situazioni a cui farà da premesa la constatazione che il ricordo di ArioSto e Tasso funzionava, sia pure in altri modi, già nel Gattopardo i cui eroi (o antieroi) amorosi sono Angelica e Tancredi. In Unfilo difumo, Come nei romanzi siciliani precedenti, ci sono i borbonici e i liberali; la repressione piemontese e la banca romana; la frusta con cui il Duca Santo e Stefanuzzo si autodisciplinano e il pagliaio nel quale le ragazze di paese sono disonorate e persino uccise; il piemontese Lemonnier, osservatore stupito delle stranezze locali, il quale imita Chevalley, e il servo fedele Blasco Moriones, animato da un duplice contrastante sentimento di amore e avversione nei confronti del padrone, che riproduce qualche tratto di don Ciccio Tumeo, compagno di caccia del Gattopardo; il principe folle rapito in un Sogno assurdo e il pretaccio involto nei diletti della carne; la contrapposizione di censo e cultura fra padre Cannata e padre Imbornone, visibilmente trasferita nell'antitesi delle due chiese di Vigàta; la figura del coniuge che considera il sesso peccaminoso tanto da usare con l'altro «una volta al mese» senza sfilarsi la camicia da notte (Stella non si faceva vedere l' ombelico dal principone) e la figura del popolano venuto su dal nulla, il self made man, come è detto con ingiustificato anacrostico termine moderno (p. 28), che mi pare scimmiotti lo snob del Gattopardo, ecc.

In quest'ultimo caso, come almeno in un altro nel quale si introduce, con sottolineatura dell'anacronismo, il termine antemarcia ( «garibaldini, come si sarebbe detto alcuni decenni dopo, antemarcia», p. 47), si vede che fa aggio sui modi espressivi dei personaggi quello dell'autore onnisciente. Egli ha creato una lingua mista nella quale il termine dialettale o il dialettismo sono determinati, più che da esigenze di resa realistica, da un gusto espressionistico dettato da amore per un mondo che sta scomparendo sopraffatto dall'avanzare di una modernità omologatrice, gusto in cui hanno luogo anche stranezze linguistiche nostalgicamente osservate. Lo testimonia il frequente impiego di termini dialettali sinonimici in cui maggiormente si registra la differenza rispetto alle voci italiane corrispondenti: del tipo di sminciare e taliare per «vedere», di arriminarsi e cataminarsi per «muoversi» .

La stessa lingua mista, lo stesso rilievo espressionistico dei dialettismi ( spesso i medesimi, come caruso, malotempo, catoio, scagno ...), addirittura disposti in nutrite congeries, sono nei racconti, evocatori di una civiltà scomparsa o che sta scomparendo, di un siciliano forse più noto, Vincenzo Consolo, che si accomuna a Camilleri anche per il ricordo degli intellettuali conterranei: si pensi ai ritratti di Ignazio Buttitta, Antonino Uccello, Sciascia, del barone Piccolo schizzati nelle Pietre di Pantalica (i primi tre presenti anche nell'elenco su citato di CamilIeri). La migliore definizione di questa lingua e della posizione spirituale che la determina l'ha data Consolo in un'intervista curata da Marino Sinibaldi (La lingua ritrovata: Vincenzo Consolo, «Leggere» 2, giugno 1988, pp. 8-15), ove fra l'altro si dice:

Ho voluto creare una lingua che esprimesse una ribellione totale alla storia e ai suoi esiti. Ma non è dialetto. E’ l'immissione nel codice linguistico nazionale di un materiale che non era registrato, è l'innesto di vocaboli che sono stati espulsi e dimenticati [...] io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia.

BRUNO  PORCELLI