Il Messaggero 10.02.1999

Incontri/Lo scrittore parla all'Associazione Vespri siciliani. E annuncia il nuovo libro: favole diaboliche


Camilleri: con il dialetto rivendico la mia origine

APPENA due anni fa una ricerca era un autentico colpo di clava: se la Sicilia si guadagnava una citazione sui giornali, la spinta veniva quasi sempre (85 volte su 100) da un solo argomento, il malaffare, il crimine, la mafia. Oggi la stessa ricerca riequilibra l'allarme: quasi il 50 per cento dei ritagli stampa hanno come argomento l'arte, il folklore, il cibo. Ma resta sempre predominante (fa più notizia) la Sicilia illegale, sanguinaria. Con i suoi riti omertosi mille volte rilanciati, e magari parodiati, dall'immaginario della letteratura, del cinema, della televisione. L'informazione sfrulla un'immagine consolidata, puntella per inerzia lo stereotipo. Così l'ideatore della truffa del Lotto è segnato «dalla sua origine siciliana», mentre l'oriundo siculo sindaco di New York viene identificato in una meno traumatica «origine italiana». Così per il "Financial Time" Andrea Camilleri diventa «l'unico siciliano che riesce a guadagnarsi legalmente i soldi con la mafia». Un piccolo falso. Camilleri di mafia ne parla poco, quasi niente: eppure «fatti la fama e cùrcati, noi ci siamo fatti una pessima fama di uomini con la coppola e la lupara sulle spalle», dice lo scrittore assai infervorato a dare della sua regione «un'immagine diversa: non siamo martiri, smettiamo di piangerci addosso».
Camilleri è l'autentico "genius loci" per un gruppo assai solidale che vuole «rispiegare la Sicilia attraverso i mass-media affinché ne emergano di più gli aspetti positivi». Così l'altra sera, all'Hotel Parco dei Principi, l'Associazione dei Vespri Siciliani si è stretta intorno all'inventore del commissario Montalbano chiedendogli l'orgogliosa rivendicazione di princìpi aperti a un'idea della sicilianità più larga e generosa. Meno condizionata dalla forza calamitosa del luogo comune e del mediatico stillicidio diffamatorio. Ironico, paziente, amabile tessitore di un dialogo con punture anche di spillo e squarci autobiografici sul proprio destino di scrittore arrivato tardi al successo e che a esso guarda con «amabile ironia», Camilleri ha sposato in pieno la causa. Al carattere siciliano ha orgogliosamente rivendicato il senso dell'onore contro «l'esproprio di questa parola che ne hanno fatto gli uomini d'onore». E il senso dell'amicizia, «un'arte difficile, che vive in un equilibro assoluto».
Sullo sfondo, e continuamente evocato, il suo mondo narrativo: quei personaggi che sono diventati, soprattutto attraverso il passaparola nel cerchio dei lettori a poco a poco cresciuto, un riferimento certo, con i loro comportamenti e i loro tic. Tic anche linguistici: recuperando l'antica percezione infantile del dialetto lingua degli affetti e dell'italiano lingua della legge, Camilleri ha spiegato così la scelta di quella prosa meticcia che è l'ossatura stessa dei suoi libri. Come l'ultimo, Il corso delle cose (Sellerio) che è poi il primo scritto trenta anni fa, con un martoriato destino editoriale. Una lingua maculata di idiomatismi che non sono solo una quinta o l'immedesimazione nei calchi comportamentali dei suoi personaggi che così parlano e, così parlando, si muovono, conficcati nel microcosmo siculo. Una lingua che è una sorta di clausola ritmica, di cursus della memoria che ravviva e colora l'espressione dando lindore e scorrevolezza alla frase stupita dalle sue invenzioni di verisimiglianza dialettale. Così ci si infila «la mano in sacchetta», si trova «il coraggio necessario a baschiare tutta una notte dentro una càmmera», si fa «uno scherzo, una babbiata a finire a schiticchio»... In questa lingua, c'è da giurarlo, sono scritte anche le favole "diaboliche" e poco adatte ai bambini che Camilleri ha annunziato come suo prossimo libro, durante la serata.