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Il ritorno del dialetto  

Negli ultimi romanzi di Camilleri, Ferrandino e Montesano è tornato a farla da padrone. Manierismi estenuati, intarsi napoletani, parlato minimale: un fenomeno con evidenti implicazioni sociali. Infatti in Italia, secondo un’indagine dell’Istat, esistono 12 milioni 600 mila individui maschi e femmine (23,6 per cento della popolazione) che parlano correntemente la lingua delle regioni d’origine. di Enzo Golino

Alta classifica. Premi. Critica in maggioranza positiva. Successo mediatico del personaggio autore. In scala diversa naturalmente, secondo le circostanze e il livello di carisma letterario in breve tempo acquisito dagli scrittori in questione. Che hanno, con modalità diverse, una dimensione espressiva comune: l’uso del dialetto nei rispettivi romanzi. Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), Giuseppe Ferrandino (Ischia, 1958), Giuseppe Montesano (Napoli, 1959), un siciliano e due campani, hanno radici anagrafiche e culturali in territori dove il dialetto è stato una grande ricchezza e una grave limitazione.
Camilleri, di professione regista televisivo, è il fenomeno editoriale più vistoso degli ultimi due anni. I suoi libri, quasi tutti pubblicati da Sellerio, presidiano massicciamente la hit parade dei bestseller , come del resto il recentissimo “La mossa del cavallo” (Rizzoli, pp. 250, lire 25 mila), che mette insieme i due generi finora praticati dallo scrittore, il poliziesco e la memoria storica. Fedele alla immaginaria Vigàta, il siculo luogo geografico dove ha ambientato molte delle vicende narrate, con il gusto dell’oralità che lo distingue Camilleri infonde una buona dose di creatività nelle varianti dialettali dell’isola. E in quest’ultimo romanzo il calderone stilistico (a volte di un manierismo estenuato, fin troppo artificioso) ingloba anche il dialetto genovese. Era dai tempi di Gadda e Pasolini, rispettando ovviamente i valori estetici di ciascuno, che il dialetto (nel lessico e nella sintassi) non aveva la spiccata centralità che gli ha impresso Camilleri.

Diverso il caso di Ferrandino, autore di una prosa grezza sparata sul filo di un parlato minimale, di pensieri elementari incapaci di articolarsi al di là del gesto immediato, dell’azione quasi coatta che ne scaturisce. Dopo l’esordio nel 1993 con “Pericle il Nero” dalla bolognese Granata Press, poi fallita, e la traduzione in Francia (Gallimard) di questo romanzo di malavita ambientato in prevalenza a Napoli, l’editore Adelphi si accorge del libro e lo pubblica nel maggio 1998 (pp. 144, lire 23 mila). Un anno dopo l’opera seconda, “Il rispetto (ovvero Pino Pentecoste contro i guappi)”, sempre Adelphi (pp. 120, lire 20 mila). Meno parole in dialetto, mimesi gergale ridotta, andamento dello stile più o meno normalizzato, ma al fondo si avverte un irrinunciabile nucleo genetico di natura dialettale.
Infine, gli intarsi napoletani che, in forma di dialogo (e non solo), innervano di sapore verbale e consistenza strutturale “Nel corpo di Napoli”, secondo romanzo di Montesano. Il dialetto è quasi una rete di protezione che consente ai protagonisti di legare a una realtà corposa e vitale accensioni deliranti, asfittico intellettualismo piccolo-borghese, visionarietà schizofrenica. Caratteri ben presenti nel tessuto antropologico meridionale e di cui Napoli è certamente un fertile laboratorio mentale e linguistico.
Ma che senso ha questo nuovo manifestarsi del dialetto nel romanzo italiano? È possibile riportare il fenomeno, sia pure esiguo, a qualcosa che vada oltre il dato puramente letterario? I rapporti fra letteratura e società non sono governati da meccanismi di immediato rispecchiamento, le mediazioni sono infinite. Ma se in Italia, secondo una indagine dell’Istat condotta alla fine del 1995 su di un campione di circa 21 mila famiglie, esistono 12 milioni 600 mila individui maschi e femmine (23,6 per cento della popolazione) che parlano soprattutto dialetto e 15 milioni 100 mila (28,3 per cento) che alternano italiano e dialetto, è inevitabile che tale profilo linguistico del paese abbia riflessi nella creazione letteraria, e quindi venga rappresentato da chi svolge il ruolo di memoria scrivente, di sismografo espressivo del parlare nazionale.
In un paese che ha faticosamente conquistato una tuttora problematica unità linguistica, la screziatura dialettale può essere per scrittori e lettori una via d’uscita (magari episodica, la semplice testimonianza di una tradizione ancora non spenta) dalle strettoie di una lingua letteraria impoverita (soprattutto nelle pagine dei narratori più giovani). Un piccolo segmento a cui prestare ascolto motivato nella difficile transizione da una lingua aulica a una lingua che abbia maggiore confidenza con il parlato e una valenza comunicativa più efficace.


Andrea Camilleri, “La mossa del caval lo”, Rizzoli, pp.248, lire 25 mila.
Giuseppe Ferrandino,
“Il Rispetto, ovvero Pino Pentecoste contro i guappi”, Adelphi, pp.120, lire 20 mila.