La Repubblica

Il profumo degli antichi dialetti

Carlo Porta s'immaginò una volta che gli apparisse, durante una passeggiata fuori di Porta Ludovica, niente meno che l' ombra del Tasso, di fronte al quale egli, poeta dialettale, non poteva che sentirsi piccolo e confuso oltreché, naturalmente onorato. L'incontro ha un suo retroterra. Porta cominciò a muovere i primi passi da poeta come "Lavapiatt del Meneghin ch'è mort", cioè umile servitore del grande Domenico Balestrieri. E Balestrieri, poeta settecentesco, e accademico dei Trasformati che cosa aveva fatto per un buon tratto della sua vita? Aveva tradotto in milanese la Gerusalemme. E non era stato l'unico poeta dialettale a farlo. Franco Brevini che alla poesia dialettale italiana ha ora eretto un monumento con ben tre volumi dei Meridiani Mondadori (La poesia in dialetto, pagg. 4.509, lire 255.000) ha giustamente costruito un capitolo dedicato al Tasso tradotto. Situazione, potremmo dire, esemplare della nostra letteratura dialettale che, di fronte alla grande letteratura italiana, rende il duraturo e sudato omaggio della traduzione. Proprio Balestrieri accenna alla gran parte di vita impiegata in quest'impresa di cui Michele Mari in un bel saggio di qualche anno fa ha analizzato portata e fortuna: impresa che, da Londra, Giuseppe Baretti lodava con un entusiasmo quasi incontenibile. Se c'era deferenza in Balestrieri, c'era però anche la consapevolezza di possedere ormai uno strumento, la lingua e la cultura milanese, in grado di "reggere" la grande prova. Proprio in questi giorni è in corso alla biblioteca Braidense di Milano una mostra bibliografica sulla letteratura in lingua milanese dal Maggi al Porta, curata da Dante Isella, che dice concretamente, con le opere, durata e tenuta di quegli autori. Non era, per tornare al Tasso del Balestrieri, un vero e proprio "volgarizzamento" come quelli che, a partire da opere latine, si facevano nei primi secoli dell'italiano, ma una autentica "ricreazione" nel senso del rifacimento anche ludico dove il "basso" d'estrazione popolare finisce col predominare. Oggi il solo pensare di spendere molti anni a tradurre un poema non già in un'altra lingua, ma in un dialetto ci sembrerebbe operazione sommamente gratuita. Ma Balestrieri era, come si è detto, confortato dall' appartenere ad una città con caratteristiche culturali molto ben marcate ed in più era un accademico, con un'idea di "servizio" nei confronti delle Muse che il Romanticismo spazzò via e che forse, sotto diverse spoglie, la società industriale ha recuperato in nome del dio Consumo. Carlo Porta, sempre pensando al suo amato Balestrieri, tentò a suo tempo di voltare in milanese un po' di Dante, ma abbandonò presto l'impresa, dopo essersi divertito a mettere indovinelli in bocca a Virgilio e a chiosare l'altisonante dantesco con una sorta di controcanto popolare. Ma Porta non è Manzoni, dice più o meno, ad un certo punto Brevini. È un fatto, però, che Manzoni ammirava Porta: sentiva che, a modo suo, aveva dato voce a quella Milano intorno alla quale anche lui avrebbe così profondamente lavorato. Il problema non è tanto metterli a confronto, quanto evitare di separarli. La storia della cultura e letteratura lombarda riunisce infatti in un insieme coerente dialettali e non, essendo il dialetto veramente comune a tutti, dal nobile al popolano, mentre, semmai, aulica risuona la lingua italiana che il Porta fa storpiare alla nobiltà affettata e Manzoni pena tutta la vita a "intonare" nel modo giusto. Le letterature dialettali, comunque, non arrivano tutte alla stessa altezza, né alla stessa complessità di rapporti con la letteratura in lingua, sicché talvolta chi compie la scelta del dialetto appare, come nel caso del Belli, un gigante solitario, costretto oltretutto a scrivere di nascosto. I romanisti diranno che dietro a Belli qualcosa c'era, ma un conto è la testimonianza d'uso di una lingua e un conto la letteratura. Fiorenzo Toso ha di recente documentato e con un lavoro pregevolissimo quanto si sia poetato in genovese nel corso del tempo, ma gli esiti restano letterariamente di interesse quasi sempre locale. Il siciliano, che ha un suo primato nelle lontane origini della nostra letteratura, riuscendo ad invadere la penisola fino al Nord, si spegne poi per moltissimo tempo. Quando Manzoni scrive "nui chiniam la fronte..." quel "nui" arriva, scavalcando secoli e secoli, proprio da quell'antica tradizione. Il piemontese ha vita quasi solo locale, mentre il napoletano ha un impatto fortissimo ma solo se allarghiamo il discorso dalla poesia al teatro... Il lavoro di Brevini ha il merito non piccolo di affrontare le varie realtà dall'interno e dall'esterno, offrendo dunque campioni di voci che mai hanno avuto una vera circolazione nazionale accanto a quelle che del dialetto si son fatte forti e capaci di imporsi all' attenzione di tutti. Resta, quello del dialetto, un problema aperto per tutto il nostro secolo. Con curiosi circuiti che vedono il poeta, cultore di lingue più o meno in estinzione, dialogare idealmente e talvolta anche materialmente con il filologo, attento proprio al "dinosauro" linguistico. Non è un caso che Pasolini, per esempio, riunisse in sé, cioè impersonasse contemporaneamente il poeta e il filologo, il poeta e lo storico-antologista della poesia dialettale. Come dire che la poesia dialettale diviene appannaggio di intellettuali colti e naviga soprattutto di libro in libro, specie nella seconda metà del secolo. Questo, senza nulla togliere alle grandi voci dialettali del nostro secolo, da Tessa a Marin e diversi altri ancora. Quanto alla ricezione, o al pubblico, all'epoca del Porta spesso le poesie circolavano a Milano ancora manoscritte, si leggevano nei salotti e per molto tempo si sono recitate nelle case, per il godimento dei convitati e in gloria della musa lombarda. Per dire che il circolo di una poesia che molto attingeva dal "parlato" della gente alla gente poi ritornava. Eppure, contrariamente a quanto si poteva prevedere, il dialetto è tutt' altro che uscito dalle abitudini e, in fin di secolo, è ancora ben presente in molte delle nostre culture locali e in quella nazionale, oramai molto meno guardinga di una volta in tema di purezza e di difesa. Persino la prosa (e forse in molti casi in modo addirittura più forte della poesia) testimonia della vitalità, della "necessità" tutta italiana del dialetto. Classico è il caso di Gadda, che incrocia diverse tradizioni dialettali prefigurando genialmente il plurilinguismo interno dell'italiano colto di questi ultimi decenni, che certo non conosce bene diversi dialetti, ma ne ri-conosce i contorni socioculturali e le espressioni. Mario Soldati, per fare un diverso esempio, scrisse Le due città (1964) con la consulenza del poeta piemontese Pinin Pacot. Il protagonista è infatti un torinese che, lavorando per il cinema, si divide tra una Torino amatissima e una Roma incompresa e odiata. Il romanzo, molto ambizioso, non è ben riuscito, ma per quel che qui ci importa la tessitura del discorso, del parlato, è ricchissima di inserti in piemontese. Luigi Meneghello sull'altalena italiano-dialetto costruisce tutta la propria epopea: "pomo pero dime il vero...". Non si tratta solo di esempi riferibili agli anni Sessanta, tempo di rapide transizioni dalla civiltà contadina a quella industriale. In realtà il dialetto è profondamente radicato nelle città capitali, in partita doppia con l'italiano, ma talvolta persino con altre lingue. (Vedi la Torino sabauda, dove l' altra lingua è il francese). E la letteratura cosiddetta dialettale è molto più cittadina che campagnola. Si pensi al seicentesco Maggi che canta la sua Milano e lo si congiunga idealmente con Tessa, che come ricordava l'altro giorno Arbasino, metteva in versi uno struzzo capitato (per ragioni pubblicitarie) a Porta Volta. In mezzo a loro, oltre a Porta, c'è Parini, inurbato di fresco e ossesso dall'obliqua furia dei carri. Di fatto, sebbene esistano per comodo e per tradizione, le storie e antologie delle letterature dialettali non dovrebbero teoricamente esistere. Se ci sono e se ne fanno, e bisogna essere grati a Brevini per l'enorme mole di lavoro svolto, è per via del primeggiare antico della linea toscanocentrica che via via si impone e tiene ai margini le altre parlate e letterature e in tempi più recenti per la necessità di diffondere l' italiano in un paese unificato da poco e con pochissimi in grado di parlarlo correttamente o persino di leggerlo. Sul finire del secolo scorso fu bandito un concorso ministeriale per la compilazione di dizionari dialettali non allo scopo di facilitare la comprensione di testi in dialetto, ma per permettere a molti proprio l'operazione contraria. Insomma l'Italia è sempre stata plurale per costumi e per lingue e una storia della letteratura italiana non dovrebbe vergognarsi di tenerne conto. Non fu l'abate Galiani a tessere le lodi del napoletano? Per dire di un personaggio cosmopolita e tutt'altro che ristretto in un municipio angusto. Nella Signora dei porci di Laura Pariani (Rizzoli), da poche settimane in libreria, si trova un lavoratissimo impasto di italiano e di parlata lombarda che ricrea lontani ambienti contadini perseguitati da un'Inquisizione canaglia. Siam fuori, strettamente parlando, dalla poesia dialettale che è il tema di Brevini, ma solo per dire che l'Italia, in realtà, è quella roba lì. Il dialetto è spesso soltanto il concime del parlar più illustre, ma senza concime fiori ne nascerebbero pochi.

Paolo Mauri