La Repubblica 15.08.1999

UN CAPPELLO PIENO DI PIOGGIA


Non c'era stato niente da fare, le aveva sperimentate tutte, ma più scuse trovava e più il questore Bonetti-Alderighi s'incaponiva.

"Non insista, Montalbano. Ho deciso così. Sarà lei a esporre al sottosegretario la proposta. Del resto ha sollevato lei il problema, no?".

Ma dove stava questo benedetto problema? Una disgraziata matina, che non si capiva chi glielo avesse fatto fare, aveva risposto a un appunto del suo superiore proponendo un sistema di alleggerimento di certe pratiche burocratiche riguardanti l'immigrazione clandestina. Il questore aveva trovato ottimo il suggerimento, si era infervorato e ne aveva accennato al sottosegretario, del quale era cugino non si sa di quale grado. Conclusione: il commissario doveva partire per Roma, starci minimo minimo tre giorni, e chiarire al sottosegretario alcuni dettagli. La cosa che però lo faceva diventare più nirbùso era che in fondo agli occhi di quel grandissimo cornuto di Bonetti-Alderighi aveva visto sparlucciare una luce divertita. Il questore sapeva benissimo quanto Montalbano fosse restio a cataminarsi da Vigata.

" Partirà domani stesso. Le ho già fatto prendere il biglietto". E sicuramente era un biglietto d'aereo. Non se la sentì di dire al questore che, in aereo, gli veniva sempre una gran botta d'infelicità. "Supra a pasta, minnulicchi!" pensò amaramente. Sopra la pasta mandorline: il colmo del disastro.

All'aereoporto di Fiumicino, in attesa dell'arrivo della valigetta che stupidamente non si era portato appresso come bagagli a mano, si addrumò una sigaretta. Una fimmina elegante lo taliò con disprezzo, un signore che le stava allato sibilò:

"In aereoporto non si fuma!"

Vrigognoso, il commissario astutò la sigaretta. Dopo una mezzorata che il nastro girava, tutti i suoi compagni di viaggio si erano pigliati il rispettivo bagaglio e se ne erano andati. Poi il nastro trasportatore si fermò, la lucetta gialla che ne indicava il funzionamento s'astutò e finalmente Montalbano si fece capace che la valigetta non era arrivata.

All'ufficio bagagli, dopo affannose consultazioni, gli spiegarono che non sapevano se la valigetta era in volo verso Toronto o verso Vladivostock, ma non era cosa grave, lasciasse l'indirizzo di Roma, entro tre giorni, quattro al massimo, avrebbe riavuto la valigetta. Montalbano diede loro l'indirizzo di Vigàta e corse fora, santiando, per fumarsi una sigaretta.

Il taxi volò sull'autostrada, ma appena dintra Roma si trasformò in un'auto da corteo funebre: code interminabili, strade sventrate, ponti che permettevano appena il passaggio di una bicicletta.

"Roma se fa più bella pe' er Giubbileo e noi se famo sempre più brutti" spiegò il tassinaro al cliente.

Appena sceso dal taxi s'accorse che poco distante dall'albergo c'era un negozio di camicie. Dalle vetrine, gli parse troppo elegante, ma non aveva gana di mettersi a cercare. Trasì, accattò tre camiciem una cravatta, tre mutande, tre fazzoletti, tre paia di calze e, quando vide la cifra segnata sullo scontrino che la cassiera gli aveva dato con un sorriso, capì che si era giocato un mese intero di stipendio. Niscì dal negozio quasi scappando e andò a sbattere contro un signore che stava trasendo.

"Mi scusi tanto" fece il commissario.

"Per carità!" disse il signore. Poi, di scatto, l'afferrò per un braccio fermandolo.

"Mi perdoni......ma lei......si chiama Montalbano, vero?".

Il commissario lo squatrò. L'omo, grassoccio, elegante, poteva avere la sua stessa età.

"Sì". "Salvuzzo mio!"

Intordonuto, si trovò sballottato tra le braccia dello sconosciuto, baciato e ribaciato sulle guance. Dopo l'omo si tirò indietro, senza però lasciare la presa.

"ma come?! Non mi riconosci?". "No". "Lapis, sono! TI ricordi?".

Attilio Lapis. Certo che se lo ricordava, macari se avrebbe preferito scordarselo. Era il classico cattivo compagno, quello che porta gli altri sulla mala strata e per causa sua il piccolo Salvo era stato un giorno sì e l'altro macari vastoniato dal padre.

"E che fai qui a Roma?". "Sono venuto per....". "Ma che bello! Che combinazione! Ti servi spesso in questo negozio?". "Siccome a Fiumicino mi hanno.......".

"Hai già pagato? Si? Peccato, se venivo prima ti facevo fare uno sconto. Perché il negozio è uno dei più cari di Roma, ma c'è roba d'alta classe".

"Sei un cliente abituale?". "Io? No, sono il proprietario. Ne ho altri due come questo. Stasera ci vediamo a cena, d'accordo? Parleremo dei vecchi tempi". "Guarda Attilio, che forse.....". "Niente, forse. Abito a Prati. Qui c'è l'indirizzo". Gli mise in mano un biglietto da visita, l'abbracciò, lo baciò, sparì dintra il negozio.

* * *

L'umore nìvuro del commissario virò al grigio quando, telefonando al ministero, apprese che il signor sottosegretario l'avrebbe ricevuto alle 16 in punto di quello stesso giorno. "Mi raccomando la puntualità" precisò il segretario del sottosegretario. "Perché alle 19 l'onorevole deve partire per Bruxelles".

Quindi non c'erano problemi. E probabilmente macari lui sarebbe potuto tornare a Palermo con l'ultimo volo della sera. Telefonò, ma gli risposero che potevano metterlo in lista d'attesa. La proposta non si sonò, trovò un posto per l'indoamni matino presto. L'unore, da grigio, gli passò al rosa sporco. Mangio' bene (per mangiare male a Roma bisogna nascere proprio sfortunati) e alle 16 meno 10 era al ministero. Col sottosegretario si fecero subito reciproca simpatia. L'onorevole gli spiò alcune cose, Montalbano rispose, l'altro pigliò appunti. Il colloquio durò un'ora, poi Montalbano si ritrovò a tambasiare per le strade di Roma. Il cielo era viola, da lì a poco certamente si sarebbe messo a piovere, ma una lama di sole accecante tagliava di traverso i palazzi, li faceva diventare come pittati da un pittore dell'epoca di Donghi o di Mafai. Arrivò in albergo ch'erano quasi le sette, il cielo era diventato d'un viola ancora più cupo, ma non aveva piovuto. Era tanticchio stanco per la lunga camminata, si distese sul letto, telefonò a Livia, principiò a leggere un giallo che aveva accattato all'edicola di Punta Raisi.

Alle otto squillò il telefono. Era Lapis: che pigliasse un taxi, mancava solo lui per la cena. Riattaccò, santiò, si era ripromesso di telefonare a Lapis inventandosi una scusa qualsiasi per non accettare l'invito, ma se n'era scordato. Evidentemente il suo ex compagno, dopo che si erano salutati, era uscito nuovamente e aveva visto Montalbano mentre trasiva in albergo. E così aveva individuato dove abitava. Pacienza. Un quarto d'ora dopo era in taxi e si fece lasciare a Piazza Mazzini. Via Costabella, dove abitava Lapis, non era così vicina, c'era da percorrere via Oslavia, girare a destra su viale Carso e poi ancora a sinistra. Ma il quartiere gli aveva sempre fatto simpatia, gli piacevano quelle strade ampie alberate, con le case inizio secolo. Anzi ricordò che proprio in via Oslavia qualcuno gli aveva detto che c'era stato lo studio di Luigi Bartolini, in un'appartamento con ampie vetrate all'ultimo piano di un casone. Fece tre passi in via Oslavia e subito capì di avere fatto un errore. Cominciavano a cadere gocce di pioggia, grosse e rade,, ma si capiva ch'erano le malintenzionate avanguardie di un esercito agguerrito. Il quale esercito s'appresentò all'altezza dell'incrocio con Via Montello sotto forma di una passata di pioggia compatta e determinata, in un attimo si trovò assammarato dalla testa ai piedi. Non aveva ombrello, la coppolicchia sulla testa era assuppata d'acqua. Che fare? Coraggiosamente accellerò il passo, girò a destra su viale Carso. E qui un alleato della pioggia lo colpì duramente: ventate rabbiose lo spinsero in avanti. All'angolo con via Asiago, la coppolicchia decise di volare via, rotolando su quella strada dove il commissario aveva letto da qualche parte che c'erano gli studi radiofonici della RAI. Corse appresso alla coppola che andò finalmente a fermarsi allato a un cappello. Un cappello, incongruamente solo in mezzo alla strada, che si andava lentamente riempiendo di pioggia.

Già, "un cappello pieno di pioggia", come il titolo del film. Si taliò attorno, in genere un cappello sta sulla testa di qualcuno. E dov'era questo qualcuno? Se lo sentì alle spalle, questo qualcuno, una voce affannata che diceva, mentre lui stava calando per pigliare da terra coppolicchia e cappello: " Non lo toccare!".

Si radrizzò con la sola coppolicchia in mano. Ora il proprietario del cappello gli era arrivato a tiro. Un ventino barbuto, con l'orecchino, che lo taliva malamente. Il vento aveva incollato il cappello sulle scarpe di Montalbano.

"Scostati" disse il picciotto. "No" fece il commissario che quando c'era tempo tinto come in quel momento diventava intrattabile. "Ti cali e lo pigli".

Senza dire una parola, il ventino gli mollò un cazzotto sulla panza e, mentre Montalbano si piegava in due dal dolore, raccolse il cappello e si mise a correre, sparendo a mano manca. Il commissario tirò un respiro e principiò l'inseguimento. Non gliela avrebbe fatta passare liscia. Che modo era di comportarsi?

Un drogato, quasi certamente. Lo scorse a distanza che camminava a passo svelto, ora era a metà di una stradina tra una chiesa e il palazzo della RAI, quello del cavallo. Si stava allontanando da via Costabella, ma la raggia era troppo forte. L'altro evidentemente non pensava di essere seguito e, a malgrado ancora piovesse, camminava più tranquillo.

Traversato viale Mazzini, il ventino pigliò una strada che a Montalbano parse chiamarsi via Ruffini. Qui il commissario si sentì in grado d'affrontare la situazione. Arrivato alle spalle del picciotto, lo chiamò:

"Tu!" L'altro si fermò, si voltò, lo riconobbe, fece per mettersi a correre, ma Montalbano fu più veloce di lui e scattò in avanti ricambiando il cazzotto nella panza. L'altro accusò il colpo, ma ebbe la forza di reagire sparandogli un gran cavucio nella gamba mancina. Soffocando il dolore, il commissario gli saltò addosso. Si avvinghiarono. Una voce li paralizzò. "Fermi! Polizia!"

Solo allora, mentre si scrollava di dosso il ventino, Montalbano si rese conto che stavano azzuffando proprio davanti a un Commissariato. Venne portato dentro assieme al picciotto. Tanticchia vergognoso, Montalbano si qualificò. Allora lo portarono nell'ufficio del commissario che si chiamava Di Giovanni e che conosceva di fama il collega.

"Non so come scusarmi. Di Giovanni. Stavo per fare una cortesia a quell'imbecille raccogliendogli il cappello quando mi ha dato un cazzotto. Io mi sono arraggiato, l'ho seguito e l'ho aggredito. Scusatemi tutti, non ho giustificazioni....."

"Vieni con me" disse Di Giovanni "andiamo a domandargli perché se l'è presa con te. Certamente è strafatto".

Non era strafatto. Un ispettore tuppiò, trasì nell'ufficio.

"Lo sa, dottore? Il nostro commissario Montalbano ha colpito ancora. Ha fermato uno spacciatore che già conoscevamo. Aveva il cappello imbottito di droga. Si chiama Antonio Lapis, abita coi genitori, che sono brave persone, in via Costabella".

Montalbano agghiacciò. "Cre...cre.....Credo di conoscere il padre. E' uno che ha dei negozi di.....".

"Sissignore. Ma il figlio è un disgraziato". Montalbano pigliò una rapida decisione. "Potreste chiamarmi un taxi?" Glielo chiamarono. Disse al portiere che non gli passassero telefonate, s'infilò nella vasca da bagno, chiuse gli occhi. Certo, avrebbe dovuto comportarsi meglio, andare dai Lapis, dire loro com'erano andate le cose. Ma un omo non può concedersi, ogni tanto, una parentesi di stanchezza?

Andrea Camilleri