La Repubblica 17.09.1999

Camilleri tra i cannibali

INTERVISTA
Esce una nuova raccolta di avventure del commissario Montalbano mentre continua il successo senza precedenti dello scrittore


Il fenomenale successo letterario-editoriale di Andrea Camilleri deve essere visto negli altri paesi europei come un ennesimo segno della diversità italiana. Questa non è una terra di estroversi festaioli che leggono poco? E le tirature dei libri non sono tradizionalmente modeste, e spesso gonfiate dagli editori per evitare disperazioni e crisi di depressione negli autori e per attirare i lettori in fuga? Allora come si spiega che un solo scrittore rimanga per mesi nei primi cinque o sei posti delle classifiche di vendita con le sue storie scritte per metà in dialetto siciliano? E che un suo libro, Il corso delle cose, già pubblicato anni fa, e ristampato ora dalla Sellerio in 150mila copie, si sia esaurito in poche settimane?
Quest'estate Camilleri è entrato ufficialmente nel tour siciliano delle cose e persone da vedere, come Piazza Armerina e la Cappella Palatina, passando le sue brevi vacanze a Porto Empedocle, la Vigata dei racconti, a rispondere alle domande dei giornalisti tedeschi. "Erano nove, come una visita guidata", racconta lo scrittore. "E siccome appartenevano alle testate più diverse, le domande andavano dai cannoli all'influenza di Pirandello. Li ho portati al Caos e al ristorante del commissario Montalbano. Si devono essere molto divertiti. Erano arrivati ben messi, ben pettinati, ben vestiti, anche un po' rigidi, soprattutto le donne. E poi, dopo due o tre giorni, il caldo, il sole, il vino, il pesce, quello che si chiama il Sud, hanno operato l'abituale metamorfosi. Li ho visti letteralmente liquefarsi e alla fine ci davamo le pacche sulle spalle. Una ragazza mi ha chiesto dove erano sistemate durante la guerra le batterie contraeree: il padre aveva combattuto da queste parti e a casa ripeteva sempre il nome di Porto Empedocle. Le ho spiegato che lo sbarco alleato in Sicilia non è stata un'operazione particolarmente cruenta, perché i picciotti avevano provveduto già a tutto. E a Villalba, a dare il benvenuto all e truppe americane, c'era il sindaco, don Calogero Vizzini, incidentalmente il capo della mafia".
Martedì prossimo in Italia uscirà l'ultima raccolta delle indagini del commissario, pubblicata da Mondadori e intitolata, un po' turisticamente, Gli arancini di Montalbano. Da numerosi anni Camilleri ha scelto la tecnica del doppio binario, alternando le storie poliziesche con altre che si svolgono lontano dai commissariati. Credo che abbia un certo timore dell'invadenza di Montalbano e di vedere classificata sbrigativamente la sua opera come di "genere poliziesco". Ammiratore come tanti di Simenon, che rilegge continuamente, ha sempre detto che non poche storie di Maigret non stanno in piedi, e quando manca anche "quella certa atmosfera", il risultato è molto modesto. Mentre i libri senza Maigret, come Il testamento Donadieu, sono sempre di una qualità impressionante.
I racconti degli Arancini seguono l'abituale schema dei precedenti,con due eccezioni. Un racconto è epistolare. Un altro è molto più curioso. Al commissariato di Vigata la bonomia di fondo dei poliziotti, scemi o intelligenti che siano, è stata improvvisamente sostituita da una durezza e anche da una ferocia venute non si sa da dove. Il vice di Montalbano terrorizza un povero vecchietto e minaccia di tagliargli le palle con un rasoio. Lo stesso commissario assiste poco dopo a una scena che i cronisti definirebbero raccapricciante, durante la quale una ragazza viene violentata e poi sezionata, per essere divorata in un rito cannibalico. Allora Montalbano si mette una mano in tasca, pesca una scheda telefonica e va incazzatissimo verso una cabina a chiamare uno scrittore di 74 anni che sta a Roma a battere a macchina ancora alle due di notte. Come riconosce la voce del commissario, lo scrittore si altera: il protagonistanon lo può chiamare così, deve rientrare immediatamente nella storia. Ma Montalbano è deciso a rifiutare la parte e dice che non è cosa. Queste storie Camilleri le lasci ai giovani autori antropofagi.
Lo scherzo è benevolo verso i giovani autori, più risentito verso il mondo letterario e critico. L'enorme successo di Camilleri, veramente qualcosa che non si era mai visto dal dopoguerra a oggi, continua a innervosire molti che non si capacitano. "Alcuni hanno spiegato che racconto storie mielate e che sono consolatorio. Se ritengono consolatorio La mossa del cavallo, beati loro", dice lo scrittore. "Altri, che l'eccesso di vendite non mi ha fatto bene - e quando mai le vendite che non riguardano i propri libri fanno bene? E dunque sarei diventato ripetitivo, con l'occhio alla cassa e ai diritti d'autore. Gli americani dicono che non c'è cosa di successo più del successo, ma io stesso non ne ho mai compreso le ragioni. Esistono scrittori che compilano dei gialli tecnicamente migliori, dal punto di vista poliziesco. I miei libri sono scritti con un linguaggio misto, italiano e dialetto siciliano, non facilmente comprensibile. Dove sta la chiave?".
"Posso solo azzardare qualche ipotesi. Come per tutti gli scrittori siciliani, le mie storie non escono dall'isola. Gli scrittori lombardi non parlano sempre della Lombardia, gli scrittori romani evadono ogni tanto dalla loro città. Invece gli scrittori siciliani continuano a rimestare la loro terra ossessivamente perché in realtà non la conoscono e di conseguenza non sanno nemmeno chi sono loro. Nell'Almanacco Bompiani dedicato a Leonardo Sciascia è stata pubblicata una lettera di Calvino. Sciascia stava scrivendo Il giorno della civetta e Calvino lo sconsiglia di scrivere un giallo in Sicilia, dove tutto è prevedibile come nel gioco degli scacchi. Evidentemente Calvino non era mai stato in Sicilia e non giocava nemmeno a scacchi, perché è esattamente il contrario. E se vuoi conoscere il mondo, devi conoscere la Sicilia, come ha scritto Goethe e altri dopo di lui".
"Que sto fascino, questa attrazione che la Sicilia riesce a emanare, può essere una delle ragioni del successo. Si potrebbe osservare che in tempi recenti Sciascia l'aveva descritta e raccontata in modo impareggiabile. Impareggiabile sì, ma anche con una sottilissima ironia, con una sottigliezza che a molti nel continente sfuggivano. Le mie storie non sono ironiche, sono umoristiche, scritte in modo da passare lo stretto. Curiosamente, sono stato difeso da due critici molto differenti l'uno dall'altro: Carlo Bo e Angelo Guglielmi. Riferendosi all'atteggiamento davanti alla letteratura che il lettore percepisce nello scrittore, Bo ha detto che il mio potrebbe essere definito di non sacralità, di sdrammatizzazione, simile a quello di Graham Greene e di Simenon. Un atteggiamento valutato positivamente dai lettori. Guglielmi si è ricordato che ho lavorato per trent'anni alla Rai. Dietro la mia scrittura, c'è una tecnica, una capacità di sceneggiare apprese in decine di lavori teatrali".
"La leggenda che io sia nato scrittore a un'età veneranda mi manda in bestia. Una nota docente di letteratura, che non ha mai letto un mio libro, ha fatto sapere che il vero, giusto successo si conquista lentamente, faticosamente, non di colpo, come sarebbe accaduto a me. Ma se per venticinque anni sono rimasto a pietiner sur place. Ho iniziato a scrivere il mio primo libro a quarantadue anni, nel 1967: si chiamava Il corso delle cose, quello ristampato ora in 150.000 copie esaurite, e venne letto da Niccolò Gallo, che promise di publicarlo entro diciotto mesi per la Mondadori. Poi Gallo morì, la Mondadori lo rifiutò e per dieci anni non trovai un cane di editore che avesse voglia di farne qualcosa. Non riuscivo più a scrivere, il rifiuto mi aveva bloccato e se non fosse stato per l'iniziativa di Dante Troisi, che lo sceneggiò per la televisione, sarei rimasto fermo a quell'unico lavoro. Non so se il successo me lo sono meritato, ma certamente me lo sono sudato".