Numerozero.9 (www.fuorivista.it)

conversazione con Andrea Camilleri

di Giandomenico Vivacqua

I Sant’Antonio sono (almeno) due. Ma a questo non pensarono gli organizzatori di una conferenza in onore di S.Antonio Abate. Che invitarono da Casa Professa un dottissimo gesuita, un uomo illuminato e facondo, che come principiò a parlare pareva che il piccolo salone dell’oratorio si riempisse delle sue parole come una serra di fiori iridescenti. Solo il padre arciprete e il professor Navarra, con diverso stato d’animo (sgomento il primo, divertito il secondo), si accorsero che il dottissimo, per malinteso, enarrava i miracolosi avvenimenti della vita di Sant’Antonio, sì, ma da Padova. L’arciprete, la lunga tonaca trattenuta dalle mani ossute, scivolando lungo la parete uscì dalla sala e corse in fretta nell’ufficio, dove scrisse un imbarazzato biglietto che fece recapitare da un chierichetto direttamente all’oratore. Questi, sul podio, veleggiava ormai verso l’approdo finale della sua prolusione. E non si scompose. Continuò a raccontare quanto prodigiosa fosse stata la vita del Santo, quanti segni della grazia contenesse il suo cammino terreneo, e quanti miracoli egli continuasse a dispensare, generosamente, dal regno di là. “Ebbene” - disse - “questo e molto altro ancora, durante e oltre la sua terrena esistenza, ha fatto e continua a fare Sant’Antonio da Padova. Ma è nulla, in confronto a Sant’Antonio Abate!” Ricordandomi di questo aneddoto, raccontatomi da mio padre (autentico, pare, ma chissà dove e quando accaduto), aspetto che il Maestro compia i consueti gesti apotropaici che già altre volte, in altri contesti (erano le prove di uno spettacolo teatrale), gli avevo visto fare: accende una sigaretta, sistema il pacchetto e il portacenere, un bicchiere e una bottiglia lungo l’immaginaria linea di un fronte che attraversa il tavolo del disimpegno condominiale in cui mi riceve, nella sua casa romana. Penso ai due santi e che, fatalmente, anche noi finiremo a parlar d’altro.


Vivacqua:
Ci aiuta a capire la mafia, la letteratura?

Camilleri:
Analizzare la mafia è compito degli storici, dei sociologi, se hanno voglia di farlo. Non è compito di narratori o romanzieri, che inevitabilmente finiscono coll’alterare la realtà, per ricondurla a parametri narrativi e fantastici loro personali. Se sulla mafia possono esistere depistaggi, probabilmente vengono dai narratori, i quali finiscono per innamorarsi dei loro personaggi. Porto un esempio elementare: Piccola pretura, di Giuseppe Guido Loschiavo (romanzo dal quale Pietro Germi trasse il film In nome della legge), siciliano, magistrato, che ci presenta con una certa simpatia il personaggio di Turi Passallacqua, capo-mafia. Lo stesso avviene, in fondo, con Il giorno della civetta, di Leonardo Sciascia: Don Mariano è un sottile ragionatore, con una esperienza contadina di saggezza, per cui, in un mondo che inesorabilmente si corrompe, si finisce per trovarci anche dei lati positivi. Nella realtà, i mafiosi lati positivi non ne hanno nessuno. Sono puri delinquenti, più o meno organizzati, più o meno intelligenti, con sulle spalle morti e stragi. Questo è il punto di partenza, per una serena valutazione del fenomeno: i mafiosi sono dei pericolosi fuorilegge. Perché, poi, nei secoli trascorsi, divennero fuorilegge, è un altro discorso. Come tutte le trasgressioni del vivere comune - non parlo neanche della legge - anche la mafia ha conosciuto una escaletion vertiginosa, per cui un mafioso, a me personalmente (ché io posso parlare solo per esperienza personale), 20 anni fa, avendogli chiesto perché si trasferisse in Canada, potè rispondermi, quasi fosse un prefetto, “perché questo paese è diventato e diventerà sempre di più ingovernabile”. Neppure lui si riconosceva più nelle mutate leggi della mafia.

V:
“Il mafioso simpatico”: alcuni anni fa lo scrittore Sebastiano Vassalli mosse ad un Leonardo Sciascia già morto un infamante accusa di apologia.

C:
Vassalli è, se così posso esprimermi, un perfetto imbecille. Non ha, intanto, il minimo senso, nonché della storia, della cronologia. Quando Sciascia scriveva di mafia, della mafia non si parlava nel modo più assoluto. Avere tirato un sasso in piccionaia è un merito enorme di Sciascia, come è stato un enorme rischio per Sciascia. Sciascia comprese un aspetto importante del mafioso: la vanità. Aspetto trascurato, che pure potrebbe far cadere molti merli nella rete, se gli inquisitori non fossero piemontesi o veneziani o fiorentini. A Catania, nel ’60, provavo l’adattamento teatrale de Il giorno della civetta (che io non potei terminare per ragioni esclusivamente personali). Durante le prove dissi a Sciascia “Leonà, chisti n’ammazzanu”. “No”, rispose, “li vedrai tutti in prima fila”. Aveva ragione. Vassalli è assolutamente nel torto. Non si può accusare Sciascia di viltà. Lo si può “accusare” di avere fatto letteratura, che non ha nulla a che fare né col coraggio né colla viltà, ma con le ragioni narrative. Cosa che Vassalli non sa. O finge di non sapere.

V: Se non la letteratura, chi può aiutarci a capire? Ci sono le inchieste giudiziarie, è vero, sebbene io creda che anche il giudice che indaga, anche il processo vadano colti come una parzialità del fenomeno.

C: Bisogna affidarsi agli studiosi, a chi non si limita allo studio del solo processo penale, ma vada alla ricerca delle ragioni profonde della mostruosa evoluzione della mafia. Non soltanto ai giudici bisogna affidarsi. Quando Romano o Hesse scrivevano i loro saggi sulla mafia, i grandi processi non si sognavano neppure; la mafia era un blob, indefinita e indefinibile. Può e deve esistere una analisi a priori, corroborata, a posteriori, dalle risultanze dei processi. Ma senza le analisi degli specialisti, dei professionisti (usiamo questa espressione in un senso diverso da quello che intendeva Sciascia, che la riferiva solo ai giudici) non si va lontano. E’ una storia così complessa, così sorprendente... Le porto un esempio. Nel 1875 il parlamento italiano decide di fare un’inchiesta sulle condizioni socio-economiche della Sicilia. Anche se non lo scrissero esplicitamente, fu la prima inchiesta dello stato unitario sulla mafia.

V: La presero da lontano. Non menzionarono direttamente la Sicilia: “la Romagna e altre province”; sembra incredibile, ma scrissero proprio così.

C: Si, fecero il giro largo. Di quell’inchiesta parlamentare, è stato pubblicato, tanti anni fa, da Cappelli, il resoconto stenografico parziale: 3000 pagine (che per me è stata una miniera: c’ho ricavato 4 libri). Cento anni dopo (non c’è più il regno ma la repubblica) ritroviamo un’altra commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia, i cui atti vengono pubblicati, in 3 volumi, dalla Cooperativa degli scrittori. Ebbene, a parte qualche trascurabile differenza di stile, risulta assai difficile distinguere tra l’una e l’altra inchiesta: identiche le domande dei commissari, identiche le risposte delle persone “sentite”. Questa è una cosa agghiacciante, che io ho potuto costatare comparando gli atti delle due inchieste: in 100 anni non si è mosso assolutamente nulla; la connivenza tra certi poteri dello stato e la mafia c’era già nel 1875, c’era ancora un secolo dopo. Sarebbe un bel campo di studio. I processi giudicano responsabilità di uomini; ma le radici sotterranee dei fenomeni... Le dirò del caso della Bolla di componenda1, inviata dal Generale Casanova, in 12 copie, al presidente della commissione del 1875, affinché ciascun membro avesse la sua. Ebbene, provi ad andare all’Archivio di stato: non ne troverà nemmeno una copia. Fatte sparire. Già allora esistevano questi incredibili addentellati fra mafia e potere.

V: Prima della svolta terroristica dei Corleonesi, la mafia era avvertita come una delle tante articolazioni della società siciliana; il mafioso aveva una visibilità sociale, e specialmente nei paesi, che non scandalizzava quasi nessuno. Pur essendo un’associazione criminale, la mafia poteva godere di una tranquillizzante dimensione borghese.

C: La mafia, come tutte società di produzione e di sviluppo del capitale - ché questo è, la mafia - subisce delle modificazioni, anche tecnologiche. Oggi è inutile che si contesti che un tempo la mafia contadina ubbidiva a certe regole. Solo chi non conosce la mafia, può sostenere che è sempre stata la stessa cosa. La mafia contadina osservava certe regole, che noi possiamo anche contestare, ma erano le loro regole. Il mafioso, nei paesi, era una specie di supplente, che non riceveva compenso dalla stato, in qualità di giudice conciliatore, o di esecutore di opere di alta e bassa giustizia, ma se lo guadagnava, il suo stipendio, sul campo (parlo, evidentemente, per paradosso). Il mafioso era quindi tollerato, perché conteneva il disordine malavitoso entro certi limiti. Quando, rarissimamente, si sparavano e si ammazzavano, la gente per bene e le forze dell’ordine dicevano: “meno male, uno di meno; fatti loro”. E “fatti loro” contiunuammo a dirlo per anni, fin quando ci accorgemmo, dolorosamente, che erano anche fatti nostri. Ma il risveglio è stato tardivo, e duro, e sgradevole. In questo senso, esistevano rapporti tra mafia e stato. Poi i rapporti si fecero più complessi, ma con la politica, che è altro discorso.
Nel 1943 avvenne il vero mutamento: con lo sbarco degli alleati la mafia prese il potere in prima persona, mentre sotto il fascismo, avendo preso le batoste dal prefetto di ferro, era, come dicono i massoni, in sonno (si ricordi Sciasia, il quale sosteneva che, paradossalmente, l’unica libertà goduta dai siciliani fu la libertà dalla mafia, durante il ventennio). Nel ‘43, su 80 comuni della provincia di Palermo, in ben 60 furono nominati sindaci, dall’Amgot, degli uomini d’onore: da allora, il problema è consistito nel sottrarre alla mafia il potere che le venne consegnato. Oggi la mafia è strettamente legata alla politica, ma non solo alla politica (che è modo passatista di intendere il problema): alle grandi banche, alle grandi industrie; di certo non è più la mafia contadina di Totò Riina, ché quella ancora mafia contadina è, e come tale, in liquidazione.
Nel ‘50, un mafioso di Girgenti, Cola Gentile, mi disse “chi spara non è un mafioso, ché anche lei, che è uno studente, con un revolver saprebbe sparare; mafioso è chi riesce a convincere che una certa cosa è nell’interesse di tutti”. Era un altro concetto.

V: Mi pare interessante la differenza, che lei vede, tra una fase in cui la mafia teneva rapporti con lo stato, ed una successiva in cui in rapporti li ha con la politica.

C: Si tratta di un’intuzione; non è cosa che possa comprovare. Pensiamo ai primi del ‘900: le domande che maggiormente inquietavano erano, allora, come fosse possibile che il tale prefetto avesse accordato il porto d’armi al tale mafioso; come fosse accaduto che il tale uomo d’onore fosse riuscito ad evitare il confino. Ci si stupiva, insomma, dell’acquiescienza dello stato verso il potere mafioso. Ebbene, tutto ciò avveniva per quelle ragioni di supplenza di cui abbiamo parlato. Non sempre era possibile inviare i bersaglieri, a repirmere nel sangue le rivolte, a disrtruggere, a bruciare le case, come ai tempi di C.A. Dalla Chiesa, nonno. Generale che, sostiene Minghetti, prima fucilava e poi si preoccupava di capire chi avesse fucilato (e questo veniva detto tranquillamente in parlamento). Quella era la repressione cieca e sorda, che beccava il contadino in armi, ma non chi l’aveva messo in armi. Come nasce, questa benedetta unità d’Italia? Nasce da un’idea, diciamolo, di colonizzazione delle regioni meridionali, la cui annessione non avvenne con pari diritti e dignità al resto del paese. Nel sud mandarono i migliori generali di cui disponevano; generali come Casanova, che non finirò mai di amarlo, piemontese com’è, perché tentò, in un anno e mezzo, di capire le ragioni storiche dei siciliani. Era mosso dal desiderio, dall’ansia di sapere, di capire, anche se indossava una divisa da generale. Ma mandarono anche il peggio dell’amministrazione. I prefetti, i questori che vennero spediti nel meridione, celavano più di uno scheletro nell’armadio - ché venire nel sud era, allora come ora, una condizione svantaggiosa - smaniosi di rifarsi una carriera, a prezzo di compromessi e concessioni; campo utile, vasto per chi il potere vuole giocarselo in un certo modo. Nel ‘43 avvenne, come detto, che la mafia si espose direttamente, nella gestione amministrativa della ricostruzione, ed allora avvertì la necessità di avere dei rappresentanti nazionali, debitamente eletti, democraticamente eletti, rendendosi conto che quel potere non era assoluto, relativo piuttosto, modificabile dal Parlamento. Se occoreva scendere in questo campo, si pensò, tanto valeva che lo facessero dei rappresentanti del popolo, salvo che poi erano eletti coi voti della mafia. Ai primi del ‘900 noi sappiamo di un solo deputato in odor di mafia, quel Palazzolo che troviamo nel caso Notarbartolo. Negli scorsi parlamenti, regionali e nazionali, i deputati saputi in odor di mafia erano una decina, senza voler mancare di rispetto agli altri; e non dico sospettati di collusione, come Mannino, dico decisamente mafiosi. Parlo, per non fare nomi, di Tano Di Leo, che tutti sappiamo chi e cosa rappresentasse; parlo di Bernardo Mattarella. Sono stato esplicito? Oggi, la storia è ancora un’altra: la linea non è più mafia-politica; oggi è mafia-grandi società-banche-politica: ancora più cripto-mafia, assai più forte di prima.

V: Lei ha detto che la mafia dei corleonesi è ancora mafia contadina, ormai in liquidazione, sostituita da una nuova e più temibile mafia. La storia di questo fenomeno ci insegna che la mafia è proteiforme, che posside la capacità di digerire il proprio passato, eliminando le scorie e gli scarti della sua produzione criminale. In quest’ottica, oggi il pentito di mafia agisce come il fattore enzimatico essenziale di un processo metabolico di rigenerazione della organizzazione, dell’organismo mafioso. Sintomatico esempio, Agrigento: qui, i pochi, per la verità, collaboranti, hanno consentitio di smascherare mafiosi già catturati o morti, senza nulla sapere o voler dire sui ranghi attivi delle cosche: chi comanda? quali sono i nuovi equilibri? restano domande senza risposta.

C: La giustizia colpisce per ciò che è stato, per un delitto compiuto, per un ricatto, per un sequestro operati; cioè, la giustizia, rispetto al presente è sempre un passo indietro. Quando un pentito ci racconta la strage di Capaci, come avvenne, chi la decise, chi la eseguì, nel frattempo le cose si sono sideralmente modificate; tra il fatto e il suo resoconto, esiste già una distanza stellare. Gli uomini che hanno preso parte a quello spaventoso gesto criminale, sono uomini da bruciare e da lasciarsi bruciare. Questo è un aspetto che viene tralasciato, mentre dovremmo considerarlo, non fosse che per l’esperienza dei grandi processi staliniani, laddove persone innocenti si dichiarvanono colpevoli di cose mai commesse, venivano fucilate e i loro fucilatori fucilati a loro volta, nel macabro tentativo di cancellare il tremendo crimine che andava compiendosi. Nel caso dei pentiti di mafia, si tratta di uomini colpevoli, che confessano e accusano, perché sanno che il loro tempo si è fatto, e nelle loro dichiarazioni c’è, probabilmente, un patteggiamento a priori con la giustizia, ma anche con la loro parte. Di questo sono convinto. Ecco che la difficoltà della magistratura, e la sua intelligenza, consiste nel capire fin dove arriva il patteggiamento, cosa dicono e cosa tacciono costoro.
Quello che avviene è il segno di una radicale evoluzione all’interno della mafia, di cui noi oggi ignoriamo assolutamente i termini. Ma se ci limitiamo - ritorno al discorso di prima - a guardare il fenomeno esclusivamente attraverso le categorie della giustizia, lo conosceremo, nei suoi termini, solo a posteriori, fra 10 anni, quando ci sarà stata un’ulteriore evoluzione, ché la mafia, a questo modo, può essere colpita solo nel tempo del suo mutamento, del suo cangiamento, ma per ciò che è stata, mai per ciò che è. Se le diamo il tempo di radicarsi all’interno di una nuova e diversa struttura, e noi impieghiamo 10 anni per conoscere quella struttura, conosciuta, sarà gia fatiscente, obsoleta, e chiunque potrà pentirsi e raccontare qualunque cosa, che non avrà nessuna incidenza.

V: Il pentitismo può dunque essere paragonato ad un antibiotico che, mentre libera la società dalle decadenti colonie batteriche, dalle vecchie infezioni, induce il generarsi di nuovi ceppi resistenti, refrattari: una nuova leva di super-mafiosi?

C: Può anche darsi, chè noi, lo ripeto, non conosciamo affatto questo mutamento. Quando lei parla di “antibiotico”, coglie esattamente il problema: le mosche sono diventate resistenti al ddt, ma ce ne accorgiamo dopo averne sparse migliaia di tonnellate. Esiste il problema della gestione dei pentiti, che è enorme, ma compensato dall’utilità di poter colpire gli autori di omicidi, di massacri. Non sono altrettanto persuaso che il pentito sia utile per aiutarci a capire lo sviluppo, l’evoluzione della mafia; può storicizzare, ma nel momento in cui lo cogliamo nelle sue rivelazioni, egli è gia out, fuori dal gioco, e nulla potrà dire di ciò che è accaduto il giorno dopo. La mafia è un tale fenomeno... perché non la si considera una società a geometria variabile? forse adoperando geometrie non euclidee, è possibile coglierne gli sviluppi, le mutazioni. Ma questo non è compito dei magistrati. Dello studioso.

V: Superato lo sbalordimento iniziale (ché sbalorditi lo siamo stati tutti, apprendendo che dei mafiosi “parlavano”), qual’è oggi il più diffuso stato d’animo dei siciliani, nei confronti dei pentiti?

C: I siciliani, per un residuo del loro carattere originale, considerano il pentiti degli squallidi delatori (ma ricordiamoci che il 117, il numero dell Finanza per denunciare gli evasori fiscali, ha fatto insorgere tutta l’Italia). Si consideri che, generalmente il pentito è un gregario, un manovale del crimine organizzato, un assassino puro e semplice che fa orrore ai suoi stessi compagni (come Brusca, che finge di pentirsi), cosa che avvalora di più la miserabilità di questi individui. Il siciliano apprezzerebbe il suicidio in carcere. Verso chi “parla”, il siciliano avrà sempre, per lo meno, un atteggiamento critico. Ma non è l’opinione pubblica che conta: conta, con cinismo, quanto ci rendono i pentiti, ai fini della giustizia. Esiste, come dicevo, un problema di gestione di quello che è diventato un fenomeno di massa. Per manovrare questa gente, occorrono uomini dello stesso stampo. Può apparire blasfemo, ciò che dico. Me ne assumo ogni responsabilità: per gestire i pentiti ci vogliono uomini come Falcone e Borsellino, i quali riuscivano, misteriosamente, a girare una corda nel loro cervello, ed entrarvano in sintonia coi mafiosi, come fossero essi stessi mafiosi. Solo che, se Dio vuole, erano da questa parte della barricata. Ma sono rarissimi, e micidiali per la mafia; tant’è vero che sono stati fatti fuori. L’intelligenza mafiosa ha capito perfettamente che il vero pericolo veniva da questi omologhi rovesciati, i soli che abbiano mai ottenuto delle vere confessioni, che abbiano saputo istaurare un difficilissimo dialogo. Sembra paradossale, ma è tutt’altro che offensivo, è anzi un omaggio che io rendo alla loro intelligenza, alla loro sensibilità. Penso, e lo dico da uomo, allo sconvolgimento che si deve provare a raccogliere la confidenza di un mafioso, di un assassino, di uno dell’altro fronte, senza essere un prete, senza avere, cioè, la risorsa del perdono: “non ti affido a Dio, ti mando in galera”. Io ho ammirato queste persone, al di fuori della loro leggenda, che vorrei non ci fosse, perché il mito ci allontana da uomini che facevano, che sapevano fare il loro lavoro. Sono rari: difficile sostituirli. Non si possono mandare 25 giovani sostituti procuratori a gestire migliaia di pentiti, perché l’inganno, la confusione, e anche la malafede, sono possibili in ogni momento.

V: Ritorniamo all’evoluzione della mafia. In che senso la mafia di un tempo era un'altra cosa?

C: Negli anni trenta, si aggirava per la nostra campagna, a Porto Empedocle, un pastore, un mafioso vero, i cui figli ebbero poi grosso nome nella mafia dell’agrigentino. Il suo giro d’affari, come si direbbe oggi, non era quello che noi possiamo immaginare, ché quella era una mafia povera. Dalla mia casa in paese alla campagna c’erano alcuni chilometri di spaventosa trazzera, e, quando di notte non c’era un po’ di luna, il buio era veramente impressionante. Mia madre, all’imbrunire percorreva quel tragitto, sempre con un certo patema di cuore, Una sera, all’altezza del cimitero, appena fuori il paese, s’imbattè nel pastore, che, essendo zoppo e senza un occhio, perso per una coltellata, non era certo un’apparizione consolante. “Signura” disse a mia madre, “sula si nni va p’a campagna, a st’ura di notti?” e l’accompagnò. “Mai”, mi raccontò poi mia madre, “mi sentii tantò sicura, come la notte in cui feci la strada con quell’assassino”.
Un altro episodio. Nel ‘43, mi trovavo ad Augusta, dove prestavo servizio presso la base navale. La notte tra il 9 e il 10 luglio, verso le due, mentre spalavo i morti dalle case sdirrupate dai bombardamenti, un compagno mi avvisò: “sbarcaru”. Non ci stetti a pensare: uscii dalla base, buttai la fascia che avevo al braccio con su scritto CREM, Corpo Reale Equipaggi Marittimi - per il resto ero in borghese - feci il periplo della Sicilia e in sei giorni, mentre gli americani dilagavano, arrivai alla linea di fermo su Serradifalco, dove i tedeschi della Hermann Goering si difendevano. Riuscii a passare, in un modo o nell’altro, e ad arrivare al mio paese. Pochi giorni più tardi, in piena emergenza e con la scarsità di ogni genere di risorse che c’era, io ed un mio zio andammo in campagna per la raccolta delle patate. Avevamo, per questo, addrugato uomini e donne. Ricordo che era una notte luminosissima di luna. Sentimmo un tramestio, ci affacciammo cautamente: ci stavano derubando del raccolto. Erano diversi uomini, muniti dell’occorrente, asini e tutto. Scendemmo, io impugnando una pistola, una S.W. a 5 colpi, dei tempi di Tommy Mix (fortunatamente non sparai, ché mi sarebbe esplosa in mano), mio zio un vecchio fucile. Ci appostammo: mio zio sparò un colpo. Niente! Quelli parvero non udirlo neppure. Solo uno, il capo ciurma, che ci voltava le spalle, rimestò in una bisaccia, ne cavò una bomba a mano e ce la tirò contro. Noi andammo via, e loro proseguirono. All’alba, ’ndringhiti e ’ndranghiti, arrivò il mafioso con le sue pecore. Ci vide pallidi: “chi successi”? E mio zio, “i patati n’arrubbaru”. Il pastore sbiancò: “a mia!” disse; e l’esclamazione significava, “hanno fatto questo, in un territtorio controllato da me!” Lasciò le pecore e sparì. Alcuni giorni dopo, a Porto Empedocle, bussarono alla porta di casa mia. Aprì mia madre: due uomini in ginocchio. “Signura”, disse uno, “qua sotto ci sono le patate”.

V: Tra quella mafia è questa di oggi, dunque, sarebbe vano cercare una continuità?

C: Ed anche sbagliato; come vano e sbagliato è cercare una continuità tra i Brusca i Bagarella i Riina e quelli che ancora non conosciamo: non una continuità, bensì una trasformazione del tipo Dr. Jekill e signor Hyde.



* L’intervista ad Andrea Camilleri fa parte di una serie di conversazioni “siciliane” sull’intelligenza della mafia, in corso di pubblicazione.