Simona Demontis

ELOGIO DELL’INSULARITÀ *

DOMANDA: Attraverso le sue opere si potrebbe cercare di definire la natura dei siciliani, si potrebbe rappresentare la 'sicilianità' o sicilitudine, come afferma Sciascia, il quale ha a sua volta mutuato il concetto da un conterraneo scrittore di avanguardia. Potrebbe precisare la sua definizione di sicilitudine?

ANDREA CAMILLERI: A quanto mi risulta, sicilitudine è un adattamento di négritude, negritudine, termine coniato tempo fa dal poeta senegalese Léopold Senghor che di quel paese fu anche Presidente della Repubblica. Non amo parlare di sicilitudine perché in realtà non so cosa sia. Anzi ricordo di avere scritto sulle pagine siciliane di "Repubblica" un articolo per illustrare quelli che a mio avviso potranno essere i vantaggi di un eventuale ponte sullo stretto e concludevo che certamente il ponte avrebbe fatto scomparire la sicilitudine qualunque cosa essa fosse. Perché non mi piace? Perché sottintende (o postula) un sentimento, una cognizione di diversità. Francamente, mi secca molto sentirmi definire "scrittore siciliano". Sono scrittore italiano nato in Sicilia. In quanto a cercare di definire la natura dei siciliani attraverso le mie opere, perché no? Ma con un'avvertenza. Le mie opere mostrano solo alcuni aspetti della prismatica composizione della natura dei siciliani. Natura, dicevo, complessa e piena di contraddizioni.

DOMANDA: La parola sicilitudine è decisamente assonante con 'solitudine'. Tale somiglianza potrebbe essere interpretata solamente come un caso. Oppure sarebbe lecito ritenere che sia strettamente e simbolicamente connessa alla condizione di insularità, e quindi di isolamento, di cui i siciliani, pur nutrendo un'atavica paura delle invasioni, menano vanto. Il mare li fa soli, ma i siciliani rovesciano questa esclusione dal resto del mondo che, lungi dal conferire loro debolezza e vulnerabilità, diventa motivo di dignità, ragione di un'identità forte da proteggere e da mantenere. Od ancora potrebbe essere la visione distorta e nostalgica della propria terra d'origine da parte di chi se ne trovi lontano e ne conservi un ricordo fantastico e quasi leggendario. Con quali di queste considerazioni si trova d'accordo?

ANDREA CAMILLERI: La sua seconda domanda adopera la parola insularità. Dell'insularità, al contrario della sicilitudine, se ne può parlare perché essa non si limita solamente ad un'isola, ma a tutte le isole. Permette quindi uno spettro d'osservazione molto ampio e variegato, che però lascia vedere temi comuni alle tre grandi isole del Mediterraneo (e scendendo ancora più in fondo, si scopre che ci sono elementi comuni anche con l'Irlanda o la più sperduta isola dei mari del Nord). Un siciliano (e quindi un sardo o un corso), per recarsi "in continente" deve necessariamente compiere un viaggio per mare, il cui senso è sempre lo stesso sia che il viaggio duri una notte o i quaranta minuti che occorrono per attraversare lo stretto di Messina. Un napoletano che si reca a Milano non prova la stessa sensazione di distacco dalla propria terra che prova un isolano. Vogliamo qui parlare della sacralità dell'acqua e del sacrilegio del ponte, in particolar modo di quel ponte in movimento che è una nave, un bastimento? Non parliamone, ma è anche vero che nell'animo di un isolano che lascia la sua terra s'annida un microscopico, invisibile, subatomico senso di trasgressione, di sacrilegio appunto. Lei potrà farmi osservare che con l'aereo cambia tutto. Può darsi, ma noi ci stiamo riferendo a un'epoca di gran lunga anteriore a Blériot.
Io, come siciliano, non mi sono mai sentito escluso dal resto del mondo. Forse perché mi sono trovato, fin da piccolo, nella fortunata condizione di poter leggere molto. Tant'è vero che una volta trasferitomi a Roma e in un ambiente difficile come quello del teatro, non ho mai provato la tentazione di mimetizzarmi. Non facevo nulla, parlando, per nascondere la mia pronuncia dialettale. Avevo un'identità e l'ho mantenuta. Quello che ho cercato di dimostrare in seguito, scrivendo, era il valore dell'identità. Senza che quest'identità poggiasse su basi mitizzate.

DOMANDA: È anche lei convinto come don Fabrizio Salina che "i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti"? Questa presunzione di superiorità, unita ad una radicata sensibilità riguardo le tradizioni avite, potrebbe essere intesa semplicemente come un forte senso di appartenenza, come dedizione verso la Terra Madre, sentimento nutrito di profumi e di emozioni, di tradizioni amorosamente custodite dalla memoria, ma potrebbe altresì acquisire un significato deteriore. Non le sembra che nel mondo odierno si stia sottovalutando la pericolosità della diffusione di questa degenerazione del concetto di etnicità inteso in senso forte ed esclusivo?

ANDREA CAMILLERI: Quando il Principe di Salina diceva che i siciliani non vogliono migliorare perché "si credono perfetti", evidentemente si riferiva a se stesso, alla sua casta. Purtroppo i siciliani che volevano migliorare si sentivano più o meno rispondere così: "Ma che migliorare e migliorare! Non lo sapete che siete perfetti?" dai vari principi di Salina o da chi ne faceva le veci. Tanto perfetti da tirarci fuori dalla Storia. La maggior parte di quelli che pensavano a un possibile cambiamento subito si sottraevano, convinti che la Storia è solo "una monotona ripetizione", come dice il principe Francalanza - Uzeda nei Viceré di De Roberto. Nei miei romanzi cosiddetti "storici" non faccio altro che parlare di questo e di altre cose, e credo che il mio pensiero, il mio atteggiamento sia chiaro.
Riguardo la sua domanda sul concetto negativo di etnicità, non avrei saputo come risponderle, se non che ogni concetto inteso sempre come totale contrapposizione a un altro concetto, non può che portare a risultati negativi. Però, l’altra sera in televisione, facendo zapping, m’è capitato di ascoltare le parole di un "negro cencioso" seduto davanti alla sua capanna, al quale l’intervistatore aveva rivolto la seguente domanda: "Perché tra di voi esistono tante guerre etniche?" e la risposta è stata: "Perché le etnie sono un’invenzione dei ricchi e i ricchi, come si sa, non possono fare altro che combattersi fra loro". Mi sembra una risposta esemplare che totalmente condivido.

DOMANDA: La sicilitudine potrebbe essere intesa anche come un criterio interpretativo, una vera ed autentica visione del mondo per colui che individua la propria matrice culturale indissolubilmente legata al territorio. Tuttavia, il fatto che tra i suoi referenti letterari espliciti vi siano Pirandello, Brancati, Sciascia, non mi pare dovuto eminentemente alla loro condizione di 'siciliani', ma al respiro europeo del teatro dell'autore agrigentino; alle figure grottesche e surreali del Gogol' siciliano; all'alto senso di responsabilità civile che lei sembra condividere con l'autore di Todo modo. Lei ha inoltre sottolineato l'enorme debito letterario che gli europei hanno contratto nei confronti della cultura araba. Personalmente, infine, trovo limitante definirla scrittore 'siciliano' tout-court dal momento che il suo universo letterario mi sembra enormemente più ampio. La mia domanda è: si riconosce in una sorta di via siciliana della letteratura o la sua scrittura ambisce ad oltrepassare non solo lo stretto di Messina, ma anche le Colonne d'Ercole?

ANDREA CAMILLERI: Pirandello, Brancati, Sciascia hanno organizzato il mio sguardo. Erano siciliani di grande respiro europeo. Lei mi rivolge una precisa domanda sulla mia personale ambizione. E io le rispondo. Non mi sono mai considerato, né mi considero, un letterato. Sono un raccontastorie che ha cercato di costruirsi una sua personale voce da raccontatore, quel misto di dialetto e di lingua che vent'anni fa appariva un percorso difficile. Ma lei, con la sua domanda, mi viene a cogliere in un momento di crisi. Pensavo, e continuo a pensarlo, che uno scrittore consista essenzialmente nella sua scrittura. Però, vede, nell'anno in corso, sono state edite all'estero ben 21 traduzioni dei miei libri. Dal gaelico al tedesco, dal portoghese all'olandese e via di questo passo. L'anno prossimo sarò pubblicato negli USA e in Giappone. Dico questo, mi creda, con sincero sgomento. In queste traduzioni non esiste traccia, o quasi, della mia scrittura, della mia 'voce'. Allora perché?
Piccolo inciso a proposito d'insularità. Il 6 settembre di quest'anno [1999] mi hanno mandato un fax da Parigi dove mi comunicavano che avevo vinto il premio letterario indetto dall'isola di Ouessant. Mi mandavano la comunicazione e mi domandavano solo in quale banca mandare l'assegno. Non volevano né conoscermi né organizzare passerelle. In attesa di chiarimenti, andai a guardare su un'enciclopedia. Ouessant, circondario marittimo di Brest, è un'isoletta di meno di tremila abitanti pescatori. L'isola, nel nord-Atlantico, è la base di motopescherecci d'altura. Da un giornale di Brest appresi il resto. Il premio è riservato a scrittori insulari. Quest'anno hanno preso in esame scrittori siciliani, irlandesi, antillani. La giuria, presieduta da una scrittrice di Guadalupa e composta da gente del luogo, ha premiato il mio libro L'Opéra de Vigata (così suona la traduzione francese del Birraio di Preston) con la seguente, spettacolosa motivazione: "bon livre". Se questa non è insularità, cos'è?

(*) Andrea Camilleri ha accettato di buon grado di rilasciare questa breve intervista in data 26/10/99. L'intervista è stata pubblicata sulla rivista sarda "La grotta della vipera", anno XXV, n° 88, inverno 1999.