Il messaggero 18-05-1999

Narrativa/«La mossa del cavallo», il nuovo romanzo dello scrittore siciliano
Camilleri, più della mafia può la forza del dialetto

COME si muove il cavallo negli scacchi? E' l'unico pezzo che può scavalcare gli altri approdando sempre da una casella nera a una bianca, e viceversa. Sorprendente e decisiva la sua mossa perché (come scrive Viktor Sklovskij in un saggio molto famoso) il cavallo «non è libero, si muove di fianco, la via diretta gli è preclusa». All'imprevedibile movimento della figura scacchistica, si ispira fin dal titolo l'ultimo romanzo di Andrea Camilleri (La mossa del cavallo, Rizzoli, 248 pagine, 25.000 lire). E a fare la "mossa" necessaria per liberarlo da uno stato di grande pericolo, è il protagonista, Giovanni Bovara, ispettore capo dei mulini, piovuto in Sicilia - il luogo dove è nato ma da dove si è subito trasferito in Liguria cancellando il suo idioma d'origine - per sostituire un collega ucciso in circostanze misteriose.
Siamo nel 1877, la sinistra è appena andata al potere. Ma in Sicilia lo stato è qualcosa di falotico e di inesistente. Domina un losco intreccio di illegalità omertosa che si stinge su ogni cosa. Bovara vorrebbe muoversi con correttezza nel controllo per la tassa del macinato. Ma scopre quasi subito il sistema iniquo che lega gli esattori ai produttori. E non solo, tutto intorno a lui, tra le figurine spesso grottesche al limite della macchietta che lo circondano e lo spiano, è un universo vischioso. I superiori sono corrotti, gli aiutanti asserviti al potere, i possidenti hanno forti protezioni politiche, i politici sono l'espressione dell'interesse locale. Insomma è "mafia", anche se la parola non viene pronunziata. Cioè non semplice delinquenza, ma vera piovra che si estende fino alle istituzioni e alla politica. E senza eccessivi scrupoli. Si intimida, si ricatta. E si viene eliminati senza alcun ripensamento, è capitato ai predecessori di Bovara.
Questa volta il modo per mettere a tacere chi vuole comportarsi con onestà è coinvolgerlo nel delitto di un prete, gran seduttore di donne, usuraio, vera piccola canaglia nel comportamento quotidiano. Bovara, che per caso ha soccorso il moribondo raccogliendo la sua enigmatica rivelazione finale, è accusato del delitto. E sembra perdere la partita anche perché il sistema mafioso riesce a annullare le azioni del procuratore del Re, altro isolato "onesto" nel mare che monta di intimidazioni, ricatti, dissimulazioni. La "mossa" di Bovara è recuperare il suo dialetto, il dialetto di Vigàta, l'immaginaria e tanto reale cittadina siciliana che fa da sfondo a altri libri di Camilleri, sia quelli del commissario Montalbano sia gli altri "storici". La lingua oscura, che fino a quel momento lo ha respinto, riuscirà a salvarlo. Parlarla - rinunziando al dialetto ligure con cui ha cercato di mettersi in rapporto con il mondo - vorrà dire entrare dentro i meccanismi che producono i comportamenti, le omertà, gli inganni, le violenze. E vincere, sia pure in modo parziale.
La mossa del cavallo è un vero giallo con tutto il movimento, le riprese, gli ammiccamenti, le tensioni del caso imbastito sul fondo della verisimiglianza storica. La "mossa" di Camilleri parte da un episodio raccontato da Leopoldo Franchetti nel suo Politica e mafia in Sicilia scritto nel 1876. E su di esso innesca la sua lingua meticciata e golosa, questa volta ancor più segnata dall' acceso plurilinguismo. Ad essere intrecciati sono il succulento dialetto siciliano e il genovese parlato per istintiva difesa da Bovara. E, ancora, il gergo burocratico dei faldoni dell'inchiesta alternata al racconto in presa diretta e alle pagine finali, giocate sulla combinazione (un autentico pezzo di bricolage da scrittore che monta e smonta le fonti con felice consapevolezza) di «immagini, frasi, parole rubate» a scrittori come Kafka, Proust, Sciascia, Pirandello...
Camilleri è all'altezza del modello che ormai si è imposto nella memoria e nella fantasia dei suoi tantissimi lettori. Sa combinare con bella astuzia compositiva, e senza troppo perdersi sugli effetti, gli elementi del racconto. Sa rendere succulenta l'inconfondibile "maniera", evitando appunto di farla diventare fin troppo "maniera". Sa giocare come il gatto con il topo dentro la matassa linguistica per ricavarne il fiato di un racconto lieve che (specie nei dialoghi) è spinto dal vento di una festosa e malinconica parabola sull'antropologia del carattere isolano di ieri. Che si prolunga fino a oggi, anche grazie a una sorta di autoreferenzialità linguistica che lo rende lontano e irraggiungibile, quasi autisticamente chiuso in sé - tra la voce narrante e le voci parlanti - nel momento in cui può, e vuole, comunicare fuori da sé.