Panorama 19.03.2000

La lingua mista di Camilleri

Non mi piace la frase: "Chissà che cosa direbbe, se fosse vivo". Che cosa direbbe Pasolini, o don Milani, Elsa Morante o Federico Zeri. In genere, quando pronunciamo quella frase sottintendiamo, più o meno consapevolmente, che quei grandi scomparsi direbbero esattamente quello che stiamo per dire noi. Sentiamo la loro mancanza perché, se fossero vivi, ci darebbero ragione. Rimpiangiamo l'anticonformismo e l'imprevedibilità di quelle voci e intanto crediamo di sapere che cosa direbbero. Strano. A volte, benché pensi questo, ci casco anch'io. Del resto, quando si sentono le storie del famoso Giovanni Brusca, come si fa a resistere alla tentazione di esclamare: "Ah, che cosa direbbe Leonardo Sciascia, se fosse vivo!". In realtà, io non so affatto che cosa direbbe Sciascia, sebbene mi sembri di vedere esattamente che faccia farebbe. Non so neanche che cosa dire io. L'altro giorno, sulla prima pagina del Corriere della sera, un giornalista importante come Giuseppe D'Avanzo ha scritto: "Quattro anni fa Brusca fu arrestato, incatenato e torturato. Improvvisamente non si trovò più la chiave delle manette. Le tagliarono allora con la fiamma ossidrica senza far troppa attenzione al fuoco che bruciava fino all'osso i polsi del mafioso e poi, senza manette, misero il mafioso contro un muro e ci fu chi sparò contro il muro, a un palmo da quel corpo scosso dal pianto. Giovanni Brusca cominciò subito a vuotare il sacco...". Nei giorni successivi ho scorso i giornali per cercare qualche commento alla notizia così scivolata nel pezzo di D'Avanzo: niente. Come mai? Una volta, delle cose vietate, si diceva: si fa ma non si dice. Ora si fa e si dice? Al capo opposto di quei quattro anni si fa e si dice una cosa non vietata: si assume Brusca nel parastato dei collaboratori di giustizia. Io non so giudicare nè la messa al muro di quattro anni fa, nè la messa in regola sindacale di oggi. Sono impressionato dalla combinazione fra le due messe. Chissà che cosa ne avrebbe detto Sciascia, se fosse stato vivo.

Il fatto è che mi manca molto la Sicilia. Però le notizie su Brusca, sulle transustanziazioni dei corpi di bambini in acido, sui migliori magistrati (e siciliani) saltati in aria, sulle imminenti (o già compiute?) conversioni di Brusca a qualche devozione pia, tutte queste non sono notizie sulla Sicilia, ma sull'Italia, su Roma. Sullo stato delle cose e sulle cose dello Stato. La vera, enorme notizia sulla Sicilia viene dall'ultimo libro di Andrea Camilleri, La gita a Tindari. Appena uscito, ha venduto 200 mila copie e ha preso di gran lunga la testa delle classifiche. Non è una novità, direte, questo spettacoloso successo. Dura da alcuni anni. E poi Camilleri abita a Roma da cinquant'anni, e sente anche lui la mancanza di Sciascia e di Pasolini e di Moravia, e di quello che avrebbero detto. Ma ho letto il libro, con gran gusto, e pur vantandomi un po' siciliano d'elezione, anzi scopellese, e a lungo garzone di bottega nella stessa casa editrice Sellerio da cui Camilleri è tornato felicemente a pubblicare, ho avuto qua e là il mio daffare a intendere la lingua della Gita a Tindari.

Camilleri impasta siciliano e italiano in tutta tranquillità, confidando evidentemente nella voglia dei suoi lettori e lettrici di imparare e godere una lingua mezza straniera. (Ho un aneddoto, che non c'entra, ma mi piace troppo. Andai in Sicilia, tanti anni fa, con una di cui mi ero innamorato, e ci fermammo sulla via di Cefalù da una signora novantenne che si chiamava Garibalda e mi chiese: "Ma idda, straniera è?". "È norvegese" risposi. "Ah, norveggese" disse lei "mi pareva straniera"). Il successo travolgente di Camilleri non è infatti regionale, al contrario. Tuttavia, la sua lingua non ha fatto concessioni, e anzi rincarato la dose. Un lettore veneto, o ligure, dovrà pur consultare un vocabolario, o un conoscente, o la moglie se per esempio Bossi leggesse il libro, se vorrà sapere che cosa significa addunarsi, o scantato, o giarno, o ammatula. (Io lo so per la magnifica versione della massima latina, che sembra decretare l'inutilità delle raccomandazioni: 'Ammatula ch'allisci e fai cannòla, lu santu è di marmo e non suda'). Quasi 800 anni fa il notaio da Lentini e gli altri lanciarono il siciliano all'assalto del latino (era un siciliano assai pronto a diventare volgare toscano). Adesso Camilleri spedisce il suo siciliano alla rivincita sull'italiano inesistente e lo fa nell'Italia esplosa delle sette leghe, dei municipalismi rincagnati, delle xenofobie e dei razzismi: la quale Italia a pezzi compra a occhi chiusi la Gita a Tindari, ma poi li apre per leggerla, e divertirsi col bravo figlio che dice "di pirsona pirsonalmente" e però è il genio del computer della squadra di Vigata. Camilleri dice che vorrebbe che i suoi lettori, oltre che divertirsi, facessero "macari" attenzione alle referenze civili e politiche dei suoi libri. A me pare che la travolgente circolazione della sua lingua abbia un peculiare rilievo civile. Non so se c'entri l'Europa. Si paragona l'Europa della moneta unica e delle piccole patrie a quella della neolingua da rete e dei rianimati dialetti. Ma Camilleri non è, per fortuna, dialettale. La sua è la lingua mista che tanti parlano, passata al setaccio dell'uomo di lettere. Forse l'Europa ritroverà le lingue franche, un po' nei libri, un po' nei porti di mare. Forse le ha già ritrovate, in modo ancora clandestino, nel poliglottismo dal basso degli ultimi arrivati e della gente di passaggio. Chissà che cosa ne direbbe Sciascia, se fosse vivo.

Adriano Sofri