La lingua mista di Camilleri
Non mi piace la frase: "Chissà che cosa direbbe, se fosse vivo". Che cosa
direbbe Pasolini, o don Milani, Elsa Morante o Federico Zeri. In genere, quando
pronunciamo quella frase sottintendiamo, più o meno consapevolmente, che
quei grandi scomparsi direbbero esattamente quello che stiamo per dire noi.
Sentiamo la loro mancanza perché, se fossero vivi, ci darebbero ragione.
Rimpiangiamo l'anticonformismo e l'imprevedibilità di quelle voci e intanto
crediamo di sapere che cosa direbbero. Strano.
A volte, benché pensi questo, ci casco anch'io. Del resto, quando si sentono le
storie del famoso Giovanni Brusca, come si fa a resistere alla tentazione di
esclamare: "Ah, che cosa direbbe Leonardo Sciascia, se fosse vivo!". In realtà,
io non so affatto che cosa direbbe Sciascia, sebbene mi sembri di vedere
esattamente che faccia farebbe. Non so neanche che cosa dire io.
L'altro giorno, sulla prima pagina del Corriere della sera, un giornalista
importante come Giuseppe D'Avanzo ha scritto: "Quattro anni fa Brusca fu
arrestato, incatenato e torturato. Improvvisamente non si trovò più la chiave delle
manette. Le tagliarono allora con la fiamma ossidrica senza far troppa
attenzione al fuoco che bruciava fino all'osso i polsi del mafioso e poi, senza
manette, misero il mafioso contro un muro e ci fu chi sparò contro il muro, a un
palmo da quel corpo scosso dal pianto. Giovanni Brusca cominciò subito a
vuotare il sacco...". Nei giorni successivi ho scorso i giornali per cercare
qualche commento alla notizia così scivolata nel pezzo di D'Avanzo: niente.
Come mai? Una volta, delle cose vietate, si diceva: si fa ma non si dice. Ora si
fa e si dice? Al capo opposto di quei quattro anni si fa e si dice una cosa non
vietata: si assume Brusca nel parastato dei collaboratori di giustizia. Io non so
giudicare nè la messa al muro di quattro anni fa, nè la messa in regola
sindacale di oggi. Sono impressionato dalla combinazione fra le due messe.
Chissà che cosa ne avrebbe detto Sciascia, se fosse stato vivo.
Il fatto è che mi manca molto la Sicilia. Però le notizie su Brusca, sulle
transustanziazioni dei corpi di bambini in acido, sui migliori magistrati (e
siciliani) saltati in aria, sulle imminenti (o già compiute?) conversioni di Brusca a
qualche devozione pia, tutte queste non sono notizie sulla Sicilia, ma sull'Italia,
su Roma. Sullo stato delle cose e sulle cose dello Stato. La vera, enorme
notizia sulla Sicilia viene dall'ultimo libro di Andrea Camilleri, La gita a Tindari.
Appena uscito, ha venduto 200 mila copie e ha preso di gran lunga la testa delle
classifiche. Non è una novità, direte, questo spettacoloso successo. Dura da
alcuni anni. E poi Camilleri abita a Roma da cinquant'anni, e sente anche lui la
mancanza di Sciascia e di Pasolini e di Moravia, e di quello che avrebbero
detto. Ma ho letto il libro, con gran gusto, e pur vantandomi un po' siciliano
d'elezione, anzi scopellese, e a lungo garzone di bottega nella stessa casa
editrice Sellerio da cui Camilleri è tornato felicemente a pubblicare, ho avuto qua
e là il mio daffare a intendere la lingua della Gita a Tindari.
Camilleri impasta siciliano e italiano in tutta tranquillità, confidando
evidentemente nella voglia dei suoi lettori e lettrici di imparare e godere una
lingua mezza straniera. (Ho un aneddoto, che non c'entra, ma mi piace troppo.
Andai in Sicilia, tanti anni fa, con una di cui mi ero innamorato, e ci fermammo
sulla via di Cefalù da una signora novantenne che si chiamava Garibalda e mi
chiese: "Ma idda, straniera è?". "È norvegese" risposi. "Ah, norveggese" disse
lei "mi pareva straniera"). Il successo travolgente di Camilleri non è infatti
regionale, al contrario. Tuttavia, la sua lingua non ha fatto concessioni, e anzi
rincarato la dose. Un lettore veneto, o ligure, dovrà pur consultare un
vocabolario, o un conoscente, o la moglie se per esempio Bossi leggesse il
libro, se vorrà sapere che cosa significa addunarsi, o scantato, o giarno, o
ammatula. (Io lo so per la magnifica versione della massima latina, che sembra
decretare l'inutilità delle raccomandazioni: 'Ammatula ch'allisci e fai
cannòla, lu
santu è di marmo e non suda'). Quasi 800 anni fa il notaio da Lentini e gli altri
lanciarono il siciliano all'assalto del latino (era un siciliano assai pronto a
diventare volgare toscano). Adesso Camilleri spedisce il suo siciliano alla
rivincita sull'italiano inesistente e lo fa nell'Italia esplosa delle sette leghe, dei
municipalismi rincagnati, delle xenofobie e dei razzismi: la quale Italia a pezzi
compra a occhi chiusi la Gita a Tindari, ma poi li apre per leggerla, e divertirsi
col bravo figlio che dice "di pirsona pirsonalmente" e però è il genio del
computer della squadra di Vigata.
Camilleri dice che vorrebbe che i suoi lettori, oltre che divertirsi, facessero
"macari" attenzione alle referenze civili e politiche dei suoi libri. A me pare che
la travolgente circolazione della sua lingua abbia un peculiare rilievo civile. Non
so se c'entri l'Europa. Si paragona l'Europa della moneta unica e delle piccole
patrie a quella della neolingua da rete e dei rianimati dialetti. Ma Camilleri non è,
per fortuna, dialettale. La sua è la lingua mista che tanti parlano, passata al
setaccio dell'uomo di lettere. Forse l'Europa ritroverà le lingue franche, un po' nei
libri, un po' nei porti di mare. Forse le ha già ritrovate, in modo ancora
clandestino, nel poliglottismo dal basso degli ultimi arrivati e della gente di
passaggio. Chissà che cosa ne direbbe Sciascia, se fosse vivo.
Adriano Sofri