La Stampa 16.06.2000 

Camilleri, la vita è teatro 
Esce in questi giorni da Sellerio La testa ci fa dire, un dialogo tra Marcello Sorgi, direttore della Stampa, e lo scrittore Andrea Camilleri, autore di amati bestseller. L'idea di partenza era quella di comprendere gli incomprensibili meccanismi del successo. Poi il discorso si è allargato alla vita dello scrittore e al rapporto tra la sua infanzia siciliana e le esperienze politiche e culturali sue e di tutta la sua generazione. Pubblichiamo l'introduzione di Sorgi e alcuni stralci del dialogo.

Tipica espressione siciliana (sul dizionario italiano Tommaseo-Bellini non c'è), «la testa ci fa dire», che dà il titolo a questo libro, ha un etimo curioso. La citano, alla voce «testa», i due grandi vocabolari siciliani, il Pasqualino (edizione 1785) e il Traina (1868), «diri la testa», «mi dici la testa e lu cori», «mi dici la testa ca». Vale come «presagire», «ho paura che», «un animo mi dice che». Presagio, presentimento, timore, tentazione, specie quando accompagnano il desiderio o il rifiuto di qualcosa, descrivono l'ambiguità di un certo animo siciliano, pur senza riuscire a coglierne, fino in fondo, l'essenza e gli aspetti positivi. Con Andrea Camilleri, non ci conoscevamo. Avevo letto una serie di suoi racconti molto spiritosi pubblicati sulla Stampa. E poi, di seguito, i suoi libri, a cominciare dal Birraio di Preston. Un giorno di due anni fa, per lavoro, combinammo di incontrarci. Roma, il cinema, la politica, giornali e televisione, la Sicilia (la sua e la mia), il teatrino delle nostre famiglie d'origine, e quindi le sue storie, i suoi personaggi, la sua scrittura: in un'afosa serata di luglio, parlammo fino a tardi di tutte queste cose. Fu proprio naturale, l'indomani, richiamarsi, scoprire di aver piacere di continuare la conversazione, decidere di registrarla, di trascriverla, forse di pubblicarla. La testa ci fece dire così. 

Camilleri l'arcitaliano 
INFORMATIVA di Fruttero e Lucentini 
Entrati in possesso di una conversazione registrata tra due siciliani, ci siamo ben presto imbattuti nella parola «sicilitudine», sulla quale i due indugiano a lungo. Per loro stessa ammissione è una parola assai discutibile, ideata forse da un terzo siciliano (Leonardo Sciascia?), che l’adattò dal francese «negritude». Non poteva andar bene «sicilianità» per indicare quel pur suggestivo genoma di tradizioni storiche, famigliari, culturali, linguistiche, temperamentali che costituirebbero il carattere specifico dei siciliani? Eh, no, ci voleva un neologismo più sfumato, più ambiguo, più isolano e misterioso, nonché orgogliosamente inapplicabile ad altre regioni d’Italia. Abruzzitudine, puglitudine, trentinitudine farebbero ridere, mentre «sicilitudine» ti mette subito in guardia, attenzione, qui è meglio andare coi piedi di piombo, questo testo può essere tutto il contrario di quel che sembra, una equivoca ragnatela di allusioni, sottintesi, messaggi in codice in cui la nostra laziopiemontesitudine rischia di restare beotamente impigliata.