Panorama 23.06.2000 

Camilleri, Sorgi e il terzo siciliano 
Il famoso «papà» di Montalbano si racconta al direttore della «Stampa». Fin da quando, nel 1942, prese un calcione dal ras Pavolini. 

Due siciliani l'uno di fronte all'altro, a traboccare di sicilianità. E un terzo siciliano che sta sullo sfondo, a fare da criterio di misura di ogni valutazione e di ogni linguaggio. I due siciliani sono Marcello Sorgi, direttore della Stampa, che interroga Andrea Camilleri per dar vita a un volumetto di Sellerio che si legge da cima a fondo come fosse un romanzo (La testa ci fa dire. Dialogo con Andrea Camilleri). Il terzo siciliano è Leonardo Sciascia, uno che fin dal 1980 credette nel talento di Camilleri, ai tempi di quel suo romanzo d'esordio edito da Garzanti che lessero in pochissimi (Un filo di fumo). Sarebbe stato ancora Sciascia a sollecitare Elvira Sellerio a ospitare uno dopo l'altro i romanzi di Camilleri, libri che in media vendevano attorno alle 5 mila copie. Fino all'esplosione editoriale di un paio d'anni fa e al punto che l'ultimo romanzo di Camilleri (La gita a Tindari) ha toccato le 300 mila copie vendute. 

Trattandosi di due siciliani che l'orgoglio d'esser tali se lo scodellano reciprocamente in faccia, Sciascia non poteva non fare da pietra di paragone e riferimento ultimo, lui che della malinconia e dell'orgoglio d'esser siciliani era la quintessenza. Camilleri ammette che il personaggio cardine di tanti suoi romanzi, l'ormai celeberrimo commissario Montalbano, è stato sagomato su Sciascia: sui suoi silenzi, su quel suo modo di dire con gli occhi o con un sorriso più che con le parole, su quel suo come stare indietro e celarsi. Anche se c'è un punto che sembra distanziare enormemente Camilleri da Sciascia: la sua ammirazione incondizionata per i magistrati d'accusa di Palermo, a cominciare da Gian Carlo Caselli. Di loro Camilleri dice «che sanno», a differenza dei magistrati siciliani di un tempo andato, che solo erano «presuntuosi», presumevano cioè di sapere. E certo questa sua apologia totale dei magistrati di Palermo suona stonata dopo le sentenze dei processi contro Giulio Andreotti e Corrado Carnevale che hanno attestato che i magistrati d'accusa di Palermo sapevano poco e male («Analfabeti», nel giudizio rabbioso di Carnevale, uno che era stato sospeso dallo stipendio e dalle sue funzioni). Sciascia avrebbe sorriso di questo giudizio di Camilleri: lui era indomito nel ritenere che una giustizia vale ed è autorevole solo se le accuse sono pienamente e compiutamente provate; e che per questo prese sberle in faccia da tanti «quaquaraquà», siciliani e non. Eppure, a leggere lo snodarsi delizioso dei racconti e delle memorie di Camilleri, ti accorgi che gli elementi di complicità tra i due scrittori sono infinitamente superiori agli eventuali elementi di divergenza. 

A fare da collante inesorabile c'è la sicilianità. Sciascia avrebbe applaudito al racconto che Camilleri fa di se stesso quando, nel 1942, a 17 anni, aveva vinto i prelittoriali della cultura e s'era ritrovato nel Teatro Comunale di Firenze gremito di giovani provenienti da tutta Europa. Ora succede che sul palcoscenico del Teatro campeggi una bandiera nazi e che il giovane Camilleri scatti in piedi a dire che eravamo in Italia e che la bandiera da esporre doveva essere quella italiana. Il che avvenne, il giorno dopo: la bandiera italiana accanto a quella tedesca. È il giorno in cui irrompe fra i convenuti Alessandro Pavolini a gridare «Camerati, saluto al Duce». Il coriaceo Camilleri si impenna e grida un «Saluto al Re». Pavolini gli si avvicina e gli fa cenno di seguirlo. Arrivati nella hall, il ras del fascismo toscano si volge e sferra all'irriguardoso diciassettenne un calcione nel basso ventre che per poco non ammazzava il futuro autore de Il birraio di Preston. Il quale non si dà per vinto e in ospedale fa di tutto per poter denunciare chi è stato a ridurlo in quelle condizioni, finché non lo convincono che è meglio lasciar perdere. Un tale orgoglio, un tale coraggio: che cosa di meglio a rappresentare in atto la sicilianità, questa passione e questa febbre? 

Jean-Marie Wynants