La Stampa, 02/10/2000

La sera del 6 novembre 1944, il Sindaco di Racalmuto viene assassinato con un colpo di pistola mentre passeggia in piazza. A quella carica era stato nominato dal comando militare alleato (meglio sarebbe dire americano) subito dopo lo sbarco in Sicilia nell'estate del '43. I carabinieri riescono ad arrestare l'omicida dopo una notte d'indagini: furono aiutati da numerose testimonianze che portavano a uno zolfataio il quale aveva motivi di rancore verso il Sindaco. Lo zolfataio, soprannominato Centodieci , arrestato e portato in giudizio prima davanti alla Corte d'Assise di Agrigento e poi davanti a quella d'Appello di Palermo, fu condannato a ventiquattro anni di carcere. Contrariamente a quello che capita ai giorni nostri, li scontò tutti e morì l'anno appresso essere tornato in libertà. Ai racalmutesi apparve subito evidente che l'assassino non era lo zolfataio, incastrato da testimonianze di gente divenuta improvvisamente loquace mentre prima non si riusciva a tirar loro fuori di bocca una parola manco con le tenaglie, ma qualcun altro che si voleva coprire anche a costo di mandare in galera un innocente. Un capro espiatorio, così esemplare da passare in proverbio: Tantu paga Centuedeci.

L'autore di "La congiura dei loquaci" (Sellerio editore), il giornalista Gaetano Savatteri, che è di Racalmuto e che fin da piccolo aveva sentito questo modo di dire, incuriosito, ha voluto scoprirne l'origine. E basandosi su quell'ormai lontano fatto di sangue, ha scritto un romanzo che merita attenzione per più meriti. Il primo è quello di non avere ceduto a una moda oggi molto in voga: quella di scrivere un romanzo "giallo", poliziesco, con una conduzione a indagine. Quella di Savatteri è una scelta di severità. All'autore non interessa la ricerca sulle ragioni dell'omicidio e nemmeno il dibattito processuale che porta alla condanna, all'errore giudiziario. A Savatteri interessa "dire" lo stato delle cose con estrema oggettività (e segnalo una sua frase: "senza passione" che qui suona come un proposito, un intento di scrittura). Altro merito è il disegno dell'assassino designato, personaggio sgradevole reso senza attenuanti, colpevole, per quanto riguarda l'omicidio del Sindaco, di averne avuto l'intenzione ma di non essere riuscito ad attuarlo perché preceduto da altri. Ecco: sono sinceramente grato a Savatteri di avere evitato scavi psicologici, drammatici distinguo tra colpa pensata e colpa attuata, ponderose domande su cosa sia il Male, eccetera eccetera. Terzo elemento di merito è, a mio avviso, la soluzione trovata perché l'autore possa intervenire all'interno della narrazione. Savatteri concede la sua delega al personaggio di un tenente americano arrivato a Racalmuto per indagare sulla sparizione di alcuni camion militari e che viene progressivamente ad essere attirato da quell'omicidio apparentemente non misterioso. Il cognome del tenente italo-americano è Adano, e lo stesso Savatteri ci conferma di aver avuto in mente, nella scelta di quel cognome, il titolo di un notissimo romanzo di John Hersey, "Una campana per Adano" . Ci sono pagine, in questo libretto, narrativamente di alto livello. Desidero segnalare almeno due momenti di forte intensità narrativa che rivelano in Savatteri un "raccontatore" di razza. Le pagine dedicate all'affannosa corsa dell'obeso Papandré verso il Circolo di Mutuo Soccorso sfiorano, per suggestione visiva, quasi il pezzo di bravura. Altro discorso per il capitolo dedicato all'incontro casuale al circolo tra il tenente Adano e un giovane impiegato al Consorzio agrario che si chiama Nanà, che legge Shakespeare e che è facilissimamente identificabile in Leonardo Sciascia. Il quale Sciascia quasi certamente fu uno dei passanti che quella sera erano in piazza. L'incontro tra il tenente Adano (portavoce in un certo senso di Savatteri) e il giovane Sciascia è un momento alto del romanzo, è una sorta di confronto a distanza nel tempo tra due generazioni diverse. Dice Sciascia, rispondendo all'americano che protesta per l'ingiustizia che si sta compiendo: "Questa è l'ingiustizia che lei vede, quella sotto i suoi occhi. E per questo ne resta colpito. Ma è solo l'ultima, in ordine di tempo. Quell'uomo, Centodieci, viveva già nell'ingiustizia. L'ingiustizia della povertà e della debolezza riscattata con la violenza, con il furto, con l'entrare e uscire dalla galera fino a farne un vanto. E nella stessa ingiustizia vivevano i suoi nonni e i padri dei suoi nonni, in un mondo lontano dalla ragione e, quindi, dalla giustizia". E quindi questo romanzo finisce coll'affrontare un tema che è stato il rovello di Sciascia. Lo ripeto, è una sorta di confronto rispettoso e coraggioso: è la cosciente, razionale, sobria accettazione di un'eredità difficile. A cominciare da questo romanzo dove, secondo l'insegnamento di Sciascia, lo scatto dell'invenzione lega sfericamente con la realtà, col documento.

Andrea Camilleri