Repubblica 24.10.2000
E Camilleri disse "Auf wiedersehen"
Parla Monika Lustig, traduttrice in Germania del papà
di Montalbano, Piazzese e altri scrittori siciliani. "La mia
sfida con il dialetto"
Die sizilianische oper, ovvero "L’opera siciliana". Con
questo titolo "Il birraio di Preston" di Andrea Camilleri ha
fatto il suo ingresso in Germania, dove anche altri autori
siciliani hanno riscosso un notevole successo. Il caso di
Santo Piazzese, di cui è già uscita la traduzione tedesca del
secondo romanzo, "La doppia vita di M. Laurent", è quanto
mai eloquente.
A cimentarsi nella trasposizione linguistica per niente facile
dei due giallisti siciliani, e anche di altri autori, è stata
Monika Lustig, una signora tedesca, laureata in filologia
germanica e in filosofia, che da più di vent’anni vive in Italia.
Per adesso sta a Firenze, ma quando può, lascia tutto e
viene in Sicilia, a Palermo, nella città che ha dato vita alle
storie, ai dialoghi e ai personaggi che s’è ritrovata sul suo
tavolo di lavoro. E così qualche giorno fa si è concessa una
vacanza in città, ospite di un albergo del centro storico che
ha scelto per questa chiacchierata sulla letteratura siciliana e
i suoi protagonisti, su Palermo, sui suoi progetti e su come è
costretta ad arrampicarsi di fronte a certe terminologie.
«La mia è una lunga storia d’amore con questa città – inizia
a raccontare la Lustig, con quella dizione tipicamente
nordica che aggiunge molte aspirate alla nostra lingua —
Un’avventura iniziata nel ‘93, quando ebbi l’incarico da
parte di una casa editrice tedesca, di scrivere una biografia
sul vostro sindaco Leoluca Orlando. Da allora, sono venuta
ogni anno qui, conoscendo tanta gente. Tra i miei primi
incontri a Palermo c’è quello con l’editore Sergio
Flaccovio».
E’ nata da quest’incontro l’idea della traduzione de "I Beati
Paoli" di Natoli?
«Sì, grazie a quell’incontro affrontai la mia prima fatica
palermitana. In Germania il romanzo, nella mia traduzione,
uscì tra il ’95 e il ’96, mentre l’anno scorso è stata
pubblicata l’edizione tascabile: due volumi in un cofanetto».
Ma come è avvenuto l’approccio alla lingua dialettale di
Camilleri e a quella "metropolitana" di Piazzese? Quale dei
due ha richiesto maggiore fatica?
«La traduzione di Camilleri è stata un po’ una sfida. Io sono
della Germania del sud, e mi sono sempre sentita molto
vicina alle inflessioni dialettali regionali della mia zona,
composte dall’alemanno francese e dall’austriaco.
Inconsciamente ho cercato sempre di preservarle, visto
anche il rapporto difficile che i tedeschi hanno coi loro
dialetti. La tendenza generale è quella di sradicare
totalmente le inflessioni, e così molto è andato nel
dimenticatoio. In questo senso, la traduzione della scrittura
di Camilleri per me è stata un’operazione spontanea. Io so
che quella di Camilleri è una lingua fatta a mano, che non è
siciliano puro, ma che ha dentro altri dialetti: quanto siano
autentici non lo so. Io non ho cercato di tradurli nei rispettivi
dialetti tedeschi corrispondenti: non avrei potuto farlo.
Quello che ho voluto trasporre nella mia lingua è stato il
linguaggio da palcoscenico, e poi l’ironia. Sono cose
tipicamente siciliane, che affascinano gente come me,
quando vengo a Palermo. Io non penso che la lingua sia una
merce che debba essere messa in commercio, snaturandola
e trovando a tutti i costi il termine corrispondente in tedesco
a certi modi di dire».
Per esempio?
«Per esempio quando Camilleri dice: "fare la mano a
carciofo" come lo traduco in tedesco? L’importante è
rendere la componente gestuale del linguaggio. Oppure
quando sempre Camilleri parla della "prefettessa", vestita
"come una cassata". Ora, nessuno conosce la cassata in
Germania. Allora dovevo far capire che la cassata non è un
pezzo pallido di gelato alla vaniglia, ma è uno spettacolo,
un’orgia di colori, un dolce che più è colorato più diventa
appiccicoso. Ma non ho avute grosse difficoltà».
Si è servita di un consulente?
«Certamente, il suo nome è Francesco Gambaro».
Ha tradotto altri libri di Camilleri?
«Sì, "La stagione della caccia", che probabilmente uscirà a
gennaio, altrettanto divertente ma un po’ più volgare; poi
"Un filo di fumo", per il quale ho trovato in tedesco un titolo
bellissimo, "L’isola capricciosa", "ballerina" la chiamerà
Camilleri. E infine "Il corso delle cose", sempre per la casa
editrice Piper. La quale ha già comprato i diritti de "La bolla
di Componenda" e "La strage dimenticata". Personalmente,
anch’io preferisco i romanzi storici ai gialli, che in Germania
sono stati tradotti da un’altra casa editrice».
Mentre il suo rapporto con la lingua di Piazzese quale è?
«E’ stato più difficile: la sua è una lingua molto tosta, di cui
io capisco benissimo le allusioni, anche perché con lui
abbiamo un retroterra simile. Il problema è rendere i termini
del linguaggio contemporaneo italiano, del politichese. E poi
ci sono i neologismi e gli ossimori, difficilissimi da tradurre in
tedesco. Quella di Piazzese non è una narrazione scenica, e
anche per questo ho avuto la necessità di collaborare
direttamente con lui, per chiedergli continuamente
chiarimenti. Così, per il primo romanzo ho ideato una
sovracopertina, con una pianta di Palermo e un glossario.
Erano indispensabili. Mentre con Camilleri non ho avuto
nessuna collaborazione».
E gli altri scrittori siciliani?
«Ho tradotto anche Giovanni Chiara. "L’agghiaccio" è un
libro molto siciliano, ambientato nelle Madonie. Ma poi
anche gli "italiani" Lucarelli e Goffredo Parise».
Si occupa solo di traduzioni o si è anche cimentata nella
scrittura creativa?
«Ho terminato da poco un racconto giallo, per un’antologia
di autori internazionali. Non è molto lungo, ma me lo sono
imposto come un esercizio di disciplina. Elvira Sellerio l’ha
letto e lo vuole. Ma ho anche un mezza idea di fare un libro
su Palermo, Orlando e Camilleri, ma ancora non so come e
quando».
Dica la verità: dopo tanti libri e tante traduzioi, si sente un
po’ siciliana?
«Certamente. Sono molto legata a questa terra, e vorrei
lottare per estirpare pregiudizi e stereotipi, attraverso i quali
la Sicilia viene ancora percepita dalla cultura ufficiale
tedesca. Quest’Isola non è più soltanto Sciascia e la mafia.
Io vorrei rendere più giustizia a un luogo come Palermo, che
per me significa il surrogato della cultura intellettuale isolana,
anche se in altri centri siciliani accadono altre cose. Nel ’96
decisi di fare un filmdocumentario su Palermo, e mi misi in
cerca dei produttori. Ma volevano a tutti i costi la mafia:
cosa di cui non c’era traccia nel mio progetto. Non ne feci
più nulla. Adesso ho trovato casa qui, dove vorrei
trasferirmi almeno con un piede. Sarebbe la mia terza isola,
dopo Elba e la Sardegna».
SALVATORE FERLITA