La Repubblica 01.10.2000
Cent’anni di sicilitudine

Quando l’anima complessa diventa un alibi. I libri di Camilleri e Malatesta rilanciano il tema dell’identità isolana in letteratura. Un dibattito sin troppo aperto.

Due titoli pubblicati nei mesi scorsi affrontano, seppure con approcci affatto diversi, la questione dell’identità siciliana: si tratta de Il cane che andava per mare e altri eccentrici siciliani, raccolta di testi di Stefano Malatesta, e del librointervista di Marcello Sorgi con Andrea Camilleri, La testa ci fa dire. Della «sicilitudine» Malatesta si occupa solo indirettamente: nel suo lavoro essa finisce con l’essere una traccia sottotesto, una sorta di cornice implicita. Sorgi e Camilleri tematizzano invece l’argomento, dedicando ad esso un intero capitolo. L’occasione, ad ogni modo, offre il pretesto per qualche riflessione in merito. «Come si può essere siciliano?», si chiedeva Leonardo Sciascia, parafrasando Montesquieu. «Con difficoltà», si rispondeva. Verrebbe da aggiungere che tra le cagioni che rendono l’identità isolana un fardello così oneroso, c’è proprio quest’obbligo statutario, per gli isolani, di interrogarsi fino al sofisma, all’esercizio retorico, al compiacimento, sulla loro famigerata sicilitudine, tanto che alla difficoltà di esserlo, siciliano, si somma sovente una certa insofferenza a sentirselo ribadire così spesso. Forse si dovrebbe invocare una moratoria, almeno un anno sabbatico durante il quale vengano sospese le diatribe su come sono i siciliani e perché. Beninteso, non v’è dubbio che le ragioni per cui quello siciliano debba ritenersi uno specifico non omologabile, per le quali, insomma, può esistere una sicilitudine e non, per dire, una marchigianitudine sono diverse, e molte fondate. E sarebbe quantomeno irragionevole non trarre lezioni fondamentali dalle considerazioni del grande racalmutese, così come preziosi spunti li offrono tanti altri testi, tanti altri autori (uno per tutti può essere Crescenzio Cane, scrittore purtroppo ormai negletto, che la parola sicilitudine l’ha proprio coniata, e pure lui ci ha fatto sopra qualche riflessione interessante). Anche i due libri sopracitati, seppure non aggiungano molto di significativo alla questione, possono avere una loro valida ragion d’essere. A Malatesta, ad esempio, per quanto il suo sembri un perfetto libro sui siciliani scritto per i non siciliani (il che in sé non è un male, per carità), va riconosciuto il merito di avere rinvenuto un paio di personaggi che per la loro storia sembrano contraddire proprio alcuni topoi culturali e antropologici. Camilleri, poi, a furia di essere incalzato con la storia della sicilitudine, finisce involontariamente col rendere se stesso, nell’intervista, il campione di una individualità difficilmente riconducibile (per fortuna) solamente a una presunta identità collettiva. Ma chi ha letto i due libri, o chi li leggerà, potrà trovarvi i pregi e i difetti che crede, non è questo il punto. Quello che lascia perplessi è l’uso corrente, quotidiano, che poi si finisce col fare delle tante analisi dell’identità siciliana, anche delle più lucide ed articolate. L’impressione è che la sicilitudine sia usata sovente come una sorta di inesauribile pozzo a cui attingere risposte comode e rassicuranti, consolatorie e un po’ compiaciute, se non addirittura come una specie di vexata quaestio medioevale sulla quale si esercitano retori dell’ultim’ora e filosofi tascabili. Si pensi a tutto quello che sul tema si è riusciti a cavare dalla letteratura siciliana. E indubbio che la produzione artistica in generale, e quella narrativa e poetica in particolare, siano essenziali testimonianze delle società dalle quali sono state generate e ricorrere ad esse per comprendere fenomeni storici e sociali di un’epoca o di una data collettività è oltremodo proficuo. Discorso, questo, ancora più valido se pensato proprio in relazione alla Sicilia, per la quale la produzione narrativa, a partire dagli anni dell’Unità d’Italia, si rivela uno straordinario paradigma interpretativo (secondo il critico Massimo Onofri addirittura dell’intera vicenda nazionale, tracciando la storia letteraria della Sicilia moderna una ideale controstoria d’Italia letteraria e civile). Il difetto sta allora altrove, nella qualità delle interpretazioni, o forse nella buona fede dei tanti frettolosi esegeti, assidui frequentatori di scorciatoie culturali. Se imprescindibile è da ritenersi la tradizione letteraria per trovare le chiavi di lettura di un’identità così complessa come la nostra, tuttavia da essa, spesso mistificandone i contenuti, si traggono a piene mani stereotipi e semplificazioni di ogni sorta. Basta la sicilitudine e tutto si spiega: per le più stridenti contraddizioni, per gli scempi plateali, ma anche per i delitti più banali, arriva sempre l’autoassolutoria analisi «sicilianologica», con immancabile corredo di citazione colta. Poco conta, oltretutto, che le scienze umane, sociali, economiche, possano produrre ricerche utili a letture meno fuorvianti e aleatorie: ecco i De Roberto, gli Sciascia chiamati in correità a dar man forte agli accigliati allibratori di luoghi comuni, i loro nomi risuonare nelle liturgie apologetiche; ecco che uno scrittore (Tomasi Lampedusa) e un romanzo (Il Gattopardo) sembrano essere diventati l’ultimo, se non l’unico, strumento per leggere la storia e la società, con un uso quasi «ideologico» delle pagine letterarie. Così alla migliore cultura siciliana tocca la sorte infelice delle nostre coste: bellissime, se non ci si costruisse sopra abusivamente, in attesa del prossimo condono.

Matteo di Gesù