la Repubblica - Venerdì, 3 novembre 2000 - pagina 46
di ANDREA CAMILLERI

ecco come lo ricorda il suo amico andrea camilleri
QUEL GIORNO RUBÒ MIA MADRE

Aveva imprevedibili e fanciullesche impennate Il suo libro è un capolavoro assoluto

Credo sia un caso unico nella storia dell' editoria mondiale che la correzione delle bozze di un romanzo, del quale è autore Stefano D'Arrigo, duri quasi diciannove anni e che al termine di questa portentosa e tormentata revisione, il romanzo cambi titolo e raddoppi il numero delle pagine attraverso una tale quantità di innesti che, se lasciano sostanzialmente intatta la trama e gran parte degli episodi originari, in realtà finiscono col creare un romanzo nuovo e diverso dal primo, da esso a un tempo dipendente e indipendente. Come se due gemelli nascessero a diciannove anni di distanza l' uno dall' altro, ma il secondo venisse alla luce avendo già assorbito l' esperienza della vita vissuta dal primo. Durante questo lungo percorso ricreativo, cento pagine all' incirca avranno un altro titolo provvisorio: I giorni della fera. Così infatti Elio Vittorini titolerà due capitoli de I fatti della fera quando li stamperà, nel 1960, sul Menabò. I due capitoli saranno corredati da una nota dello stesso Vittorini e da un glossario redazionale, redatto «contro lo stesso parere dell' autore». Infatti Stefano D' Arrigo si ribellò con violenza alla richiesta di Vittorini d' approntare lui stesso un glossario, né voleva che fossero altri a farlo; lo stesso atteggiamento tenne quando gli vennero inviate le bozze del glossario perché le rivedesse (quasi che «fossi la vedova di me stesso defunto», scrive all' amico Zipelli). Quelle cento pagine pubblicate dal Menabò se da una parte mostrarono in tutta la loro interezza la straordinaria forza del linguaggio di D' Arrigo e la sua stravolgente potenza visionaria (io ne rimasi letteralmente atterrito), dall' altra, a mio parere, misero una sorta d' ipoteca sul futuro romanzo. Quando infatti, nel 1975, Mondadori pubblicò Horcynus Orca, fra i tanti che ne scrissero entusiasticamente, ci furono i molti che misero mano alla bilancia e al metro lineare. In Italia esiste una particolare categoria di critici e di recensori i quali hanno una loro precisa e ragionieristica (e stitica) opinione sulla quantità catastale entro la quale uno scrittore deve mantenersi: a parer loro, Horcynus Orca era «troppo lungo». E intonavano il lamento: «Ahi! Ahi! Se fosse rimasto dentro la misura delle duecento pagine quale capolavoro avremmo avuto!». E invece, con tutte le 1257 pagine, Horcynus Orca è un capolavoro assoluto, uno dei pochi libri della nostra letteratura del ' 900 (si contano sulle dita di una mano) destinati a durare nel tempo. Di Stefano D' Arrigo sono stato, in qualche modo, amico. Dico in qualche modo perché Stefano aveva imprevedibili e addirittura fanciullesche impennate. Quando uscì il mio secondo romanzo, Un filo di fumo (del primo ero riuscito a non fargli sapere niente), non volevo mandarglielo per una ragione semplicissima: mi sentivo intimorito dalla sua grandezza. Orazio Costa, il regista mio maestro che era un grande estimatore e amico di Stefano, glielo fece avere. Due giorni appresso Stefano volle vedermi. «Orazio mi ha dato il tuo romanzo, ma non l' ho ancora letto. C' è prima una cosa da chiarire. Il glossario. Perché ce l' hai messo?». «L' ha voluto Garzanti, l' editore». «E l' hai scritto tu?». «Sì». Io mi ero completamente scordato della sua storia con Vittorini e non capivo dove volesse andare a parare. Alla mia risposta affermativa mi guardò in un modo che non so ancora definire. E certamente non volle leggere il romanzo del quale, nei successivi incontri, non si parlò mai più. La Pasqua del 1976 la passò con sua moglie Jutta e Orazio nella mia casa in Toscana. Furono giorni felici fino al momento in cui seppe che un mio amico, che abitava a due passi, aveva un ospite, un noto pittore. S' abbuiò, proclamò con violenza che per nessuna ragione al mondo l' avrebbe incontrato, non volle più uscire da casa. Il mio amico, opportunamente avvertito, venne a farci gli auguri di Pasqua nottetempo. Parlammo a bassa voce come congiurati per non svegliare Stefano che dormiva al piano di sopra. L' episodio che ricordo con autentica commozione capitò a Messina. Avevano deciso di dargli la cittadinanza onoraria e Stefano volle che Orazio e io fossimo con lui in quell' occasione. Io mi portai appresso mia madre che poi avrebbe proseguito verso il nostro paese in provincia di Agrigento. Mia madre era avanti negli anni, un pochino sorda e certe volte non ci stava con la testa. Tra lei e Stefano nacque, a prima vista, una specie d' innamoramento, non saprei come altrimenti chiamarlo. Una mattina doveva esserci una solenne cerimonia all' Università in onore di Stefano, l' appuntamento era nella hall dell' albergo per le nove e mezzo. Scesi, non vidi mia madre, dissi al portiere di chiamarla nella sua camera. «La signora è già uscita». Mi spaventai, mamma non conosceva Messina, dove diavolo poteva essere andata? Il portiere però mi tranquillizzò. «Guardi che la signora è uscita col signor D' Arrigo». La prima persona che vidi arrivando all' Università, fu proprio mia madre. Era molto contenta, mi raccontò che Stefano l' aveva fatta svegliare presto, che l' aveva portata a vedere il porto e che poi, all' Università dove l' aspettavano i giornalisti per intervistarlo, si era fatto fotografare con lei tenendola abbracciata. Qualche tempo dopo vidi una di queste foto stampate su un giornale. La didascalia diceva: «Lo scrittore Stefano D' Arrigo con sua madre»