La Repubblica 10.12.2000
Insegnare a scuola il siciliano: la proposta

Le occasioni che mi inducono a scrivere sul siciliano, argomento linguistico che professionalmente non mi compete, sono diverse. La prima afferisce alle mie occupazioni professionali. Nelle ricerche storiche m'imbatto spesso in opere scritte in siciliano, e non meno spesso incontro difficoltà a leggerle e più ancora a capire il significato di certe parole. Parlo delle mie difficoltà, ma credo che nelle stesse condizioni sia la maggior parte dei siciliani, per non parlare dei giovani per i quali il siciliano è ormai una vera e propria lingua straniera. Ma il siciliano è lingua o dialetto? Io non ho né l'autorità né la competenza per rispondere alla domanda. So tuttavia che lo parlano milioni di siciliani, con inflessioni dialettali palermitane, catanesi, ragusane, agrigentine e così via. E so pure che migliaia di intellettuali continuano a scrivere e a pubblicare libri in siciliano. Certo non si trova un libro di chimica o di fisica scritto in siciliano. Per lo più a servirsene sono i poeti. Sembrerebbe un demerito. Ma la scrittura poetica è la più emblematica e significativa. La più rivelatrice della personalità umana. Secondo le informazioni datemi da Salvatore Di Marco, solo nel corso di questo anno sono usciti almeno quindici libri di poesia siciliana. Ma certamente sono molti di più. Alcuni sono editi solo col testo siciliano. Altri, a pie' di pagina o nella pagina a fronte del testo siciliano, riportano la traduzione italiana. Cito per tutti "Lu munnu a la riversa" di Santo Lucia, poeta vissuto nel secolo XIX, a cura di Lorenzo Gurreri (Cattolica Eraclea, Edizioni Momenti, 2000). Pure questo anno, insieme ai libri di poesia, è uscito a Gela (Centro di cultura e spiritualità cristiana "Salvatore Zuppardo" editrice) "Il fascio dei lavoratori a Terranova di Sicilia". segue a pagina xii Il testo in lingua siciliana di Mario Aldisio Sammito, noto personaggio del mazzinianesimo siciliano del secolo XIX, a cura di Emanuele Zuppardo, riporta la rappresentazione dialogata di cosa fossero i Fasci dei lavoratori sorti in Sicilia nel 189293. Anche questo libro assai ben curato nella pagina a fronte del testo siciliano riporta la traduzione italiana. Probabilmente, il libro di Gela non è il solo testo di prosa pubblicato questo anno. Il problema che desidero trattare tuttavia è il perché un testo siciliano, sia in poesia che in prosa, debba essere accompagnato dalla traduzione italiana. La cosa avrebbe senso se il libro fosse destinato alla lettura fuori della Sicilia. Un milanese o un fiorentino non è in condizione di capire il siciliano. Invece, la traduzione italiana è ritenuta necessaria anche se il libro è destinato a non uscire dall'ambito isolano. Un siciliano dovrebbe leggere il siciliano senza difficoltà. Ma non è in grado di farlo. Ed è questo il dato anomalo che opera come un tarlo nella nostra formazione umana e culturale. In ipotesi, il fenomeno dovrebbe essere rovesciato. Il siciliano dovrebbe avere più difficoltà a capire l'italiano che il siciliano. In effetti, egli capisce più l'italiano che il siciliano, ma poi ha più difficoltà a essere italiano che siciliano, col risultato finale di avere difficoltà anche ad essere siciliano. Sulla difficoltà di essere siciliani, donde la sicilitudine, la isolitudine, la insularità d'animo ecc., si sono molto soffermati i nostri scrittori più famosi e più amati, Sciascia, Lampedusa, Bufalino e tanti altri ancora. Buca la fantasia dire che essere siciliani è difficile. Ma io non sono un letterato; esercito il mestiere di storico, e come storico mi interessa la ricerca del perché di questo disagio, che non è scritto nel nostro dna, ed è invece da individuare in un certo momento della storia siciliana, allorché si venne a determinare una frattura profonda, e insanabile, nella cultura siciliana; e parlando di cultura, non intendo solo quella scritta nei libri e insegnata nelle scuole e nelle università, ma anche quella antropologica, che si apprende fin dalla nascita nella famiglia e dentro società nella quale si vivono gli anni decisivi della esistenza, che generalmente precedono gli anni in cui si impara a leggere e scrivere. Il momento o i momenti di tale frattura possono essere diversi. Nella economia del presente scritto, io ne individuo uno, quello verificatosi nel Cinquecento allorché la Sicilia, sotto il dominio spagnolo, davanti al fenomeno della nascita delle lingue nazionali dei grandi stati europei e davanti alla formazione della lingua di livello nazionale anche in Italia, pur non essendo ancora uno stato nazionale, su iniziativa di alcuni suoi intellettuali parve necessario fare una scelta fra il siciliano, lingua autoctona in fase avanzata di sviluppo ma ancora povera di grandi creazioni artistiche, e il toscano, lingua che aveva dalla sua Dante, Petrarca, Machiavelli, Guicciardini, Michelangelo ecc. Scelto il toscano, mettendo ai margini il siciliano, si creò una frattura che ebbe solo l'effetto di spegnere la capacità di sviluppo del nostro dialetto, ma non di consentire agli intellettuali siciliani di imparare a scrivere in buon italiano e meno che mai produrre in italiano creativo. E si dovette attendere fino a Verga per cominciare ad avere grandi scrittori siculoitaliani, e Verga divenne Verga perché trovò il modo di coniugare l'italiano col siciliano, creando un modo di scrivere che tanto piacque agli italiani, come oggi Camilleri è Camilleri perché anche lui, come Verga, coniuga l'italiano col siciliano, creando un modo di scrivere che gli ha procurato e gli procura tanto successo. La coniugazione linguistica di Verga e Camilleri non risolve il problema della frattura fra le due culture. Il siciliano e l'italiano rimangono pur sempre due mondi separati. La Sicilia è bilingue in generale, ma fra le due lingue non c'è un rapporto di connessione reciproca. L'esempio di Pirandello è al riguardo emblematica. Pirandello è il solo grande autore con una biografia bilingue: quella siciliana, di traduttore di grandi opere classiche greche in siciliano, e quella italiana, di autore di romanzi, novelle e opere teatrali in italiano. Ma il Pirandello che prevale, anche il Pirandello teatrale, è solo quello italiano. Il Pirandello siciliano è invece completamente rimosso. Come è rimossa la scuola teatrale catanese rappresentata da Martoglio. Per non parlare di Giovanni Meli. Ma chi Giovanni Meli? Chi ne legge i poemi? Chi ne apprezza le poesie? A quando risale l'ultima edizione delle sue opere? Naturalmente, dato il mio mestiere, che non è né di linguista né di storico della letteratura ma di cultore della storia siciliana, l'esigenza che vorrei evidenziare è quella nei limiti del possibile di sanare la rottura fra le due culture, di mostrare un maggiore interesse e dare anche voce alle opere in lingua siciliana. Stavo per scrivere in dialetto, ma la lingua del Meli o quella di Buttitta e più ancora la lingua di Pirandello non sono dialetto! In breve le mie proposte sono tre. La prima, creare nei nostri atenei e in quello di Palermo in particolare una cattedra di lingua e letteratura siciliana. La cosa è immediatamente fattibile. Basta una decisione di facoltà e una ratifica del senato accademico. Non chiedo la luna. Nei nostri atenei si studiano anche con numerose cattedre e in facoltà concorrenziali fra loro il francese, il tedesco, lo spagnolo, l'inglese, l'arabo, il giapponese. E' accettabile che non si studi anche la lingua e la letteratura in lingua siciliana? Evidentemente, la mia proposta riguarda la cultura, non le tradizioni popolari. La seconda proposta è quella di promuovere la redazione di un dizionario sicilianoitaliano e viceversa, sul modello dei tanti dizionari italiani, o italiano — inglese, italianofrancese, tedesco, spagnolo, russo ecc. Nel fare la proposta tengo conto che il vocabolario del Piccitto già è quasi in fase di ultimazione. Ma tale opera serve agli studiosi, e non è disponibile per la consultazione. Ancora oggi quando dobbiamo cercare il significato di una parola siciliana siamo costretti a ricorrere al Mortillaro o al Traina, che risalgono all'Ottocento. Anche avanzando una tale richiesta non chiedo la luna nel pozzo! Mi rivolto in particolare ai colleghi linguisti specie a quelli che lavorano nel centro di studi linguistici siciliani. Una terza questione che desidero avanzare è quella dell'insegnamento del siciliano nelle scuole dalle elementari in sù. Questa non è una richiesta fattibile come le prime due, ma è la questione più importante e decisiva. Io non sono, come è noto, né separatista né sicilianista. Sono un siciliano che non può fare a meno di essere e di sentirsi un italiano e un europeo. Anzi, come intellettuale, senza essere cosmopolita, non posso fare a meno di respingere l'eurocentrismo che considera l'Europa come l'ombelico del mondo. Ma proprio perché muovo da tale posizione, considero essenziale la necessità di adottino i provvedimenti volti a superare il disagio del sentirsi forestiero in casa propria, del ritenere difficile essere siciliano, e del non poter vivere in Sicilia e del non saper vivere senza la Sicilia. Donde la fastidiosa ripetizione del verso catulliano nec tecum nec sine te vivere possum. Perché deve essere difficile sentirsi portatori di una identità siciliana? Un modo di non avvertire quella difficoltà può essere il concorrere a superare quella rottura formativa tra il nascere siciliani e il vivere da non siciliani. Il problema della identità non è solo problema siciliano. E' problema di tutti quei popoli che non vivono o che credono di non poter vivere con pienezza la propria identità etnostoricopolitica, e che pertanto si rinchiudono nella in una loro propria insularità d'animo. Anche se isola, anzi in quanto isola, la più grande e la più centrale del Mediterraneo, la condizione geopolitica della Sicilia è cambiata, e la sua insularità è divenuta 
FRANCESCO RENDA