La Stampa – Mercoledì 23 Agosto 2000 Pagina Culturale 

STORIE DI VIGÀTA E DINTORNI. Una nave sovietica, un finto medico, il Federale. E il mare in burrasca. 

Uno strano scambio di persona 

di 

ANDREA CAMILLERI 

Al tempo della guerra di Spagna, che io avevo una decina d'anni, al largo del mio paese, Porto Empedocle, passavano spesso navi mercantili sovietiche cariche di viveri e di medicinali che portavano ai «rossi» spagnoli. Ogni tanto incappavano in posti di blocco della Marina militare italiana ed erano sottoposte a perquisizioni lungariose per vedere se c'erano armi ammucciate nelle stive. Una notte scatasciò un temporale di mala intenzione, un vento arraggiato alzava onde altissime che parevano decise a portarsi a mare l'intero paese. Nel momento più scantuso di questo tirribìlio, verso le due di notte, la Capitaneria di Porto ricevette una richiesta urgente che veniva da una nave sovietica ferma a qualche miglio: avevano un malato a bordo e chiedevano l'intervento di un dottore. Dalla Capitaneria andarono ad arrisbigliare il medico condotto, Gino M., e gli dissero che c'era bisogno di lui a mare aperto. Il dottore atterrì, si sentì completamente perso: infatti era cosa cògnita che egli pativa il mal di mare in forme, come dire, estreme. Una volta che l'occhio gli era caduto per caso su un quadro intitolato Mare in tempesta gli era venuta subitanea necessità di dare di stomaco. Che fare? Pensa che ti ripensa, strumentiò quella che gli parse una buona soluzione. Andò a svegliare mio padre, parente e fraterno amico. «Peppino, io non ci posso andare, cerca di capirmi. Arriverei a bordo più morto che vivo, dovrebbero mandare un medico macari per me». «Ti capisco. Ma io che posso farci?». «Tu sei un uomo coraggioso che non si scanta del mare. Vacci tu al posto mio, gli dici che sei il medico, tanto quelli non conoscono né a me né a te. Russi sono». «Che viene a dire che sono russi? Macari se fossero ostrogoti non ci andrei lo stesso. Che ci capisco io di malati e di malatìe?». «Non c'è bisogno di capirci. Tu visiti l'ammalato...». «Sei nisciuto pazzo? Ti ho detto che...». «Lasciami finire. Lo visiti come mi hai visto fare centinaia di volte. Poi scuoti la testa, allarghi le braccia, dici che sulla nave non è possibile curarlo, che bisogna ricoverarlo all'ospedale di Agrigento. L'imbarcate e sulla banchina troverete una macchina pronta per il trasporto». Il temporale intanto incaniava, dalla strada gridavano che in porto una nave aveva rotto gli ormeggi. «Ti rendi conto che c'è un mare da lasciarci la pelle?». «Pelle o non pelle, io devo fare il dovere mio di medico» disse Gino M. con sereno coraggio ed esemplare faccia di bronzo. «Spiegami almeno come funziona lo stetoscopio» si arrese allora mio padre. Agguantata la valigetta del dottore, niscì santiando da casa e andò ad arrisbigliare a sua volta l'amico Cicco Di Mare, il quale, coerentemente col suo cognome, era un formidabile marinaio, proprietario e capitano di un piccolo motopeschereccio. Cicco Di Mare fece solo notare che la facenna sarebbe stata difficile assà, ma non si tirò narrè. Si imbarcarono e salparono: mio padre a prua di vedetta, il motorista sotto coperta e Cicco al timone. La forza del mare sballottava la piccola imbarcazione, Di Mare faticava a mantenere la rotta. Il difficile venne quando, dopo circa un'orata, arrivarono sottobordo, le ondate rischiavano di mandare il piccolo motopeschereccio a fracassarsi contro la fiancata della nave. I marinai russi, tutti in coperta, avevano calato una scaletta di corda: mio padre, dopo decine di tentativi, riuscì ad acchianarci senza rompersi la testa. Era completamente assammarato di pioggia e d'acqua di mare. Il comandante russo gli si precipitò incontro, l'abbracciò, lo baciò tre volte e lo condusse nella cabina dell'ammalato. Mio padre non aveva bisogno della laurea in medicina per farsi immediatamente persuaso che quello stava veramente male, perciò abbreviò la pantomima: gli tastò il polso, gli taliò la lingua, gli mise il termometro. Quaranta e passa. Manco mezzora dopo il povirazzo, completamente avvolto in un telone cerato, veniva con difficoltà calato nel peschereccio che Cicco Di Mare governava con colpi di timone alla disperata. Il ritorno fu peggio dell'andata, la tempesta non accennava ad abbacare. Finalmente arrivarono alla banchina dove c'era la macchina pronta. L'indomani a matino, per scrupolo di coscienza, Gino M. andò a parlare con i colleghi dell'ospedale i quali, dopo essersi complimentati con lui per il coraggio dimostrato la notte avanti, gli dissero che l'ammalato si sarebbe salvato grazie al suo intervento capitato a tempo giusto. La cosa parse finire lì. Ma il peggio doveva ancora venire. Una simanata appresso, mentre il dottore era intento a visitare un paziente, trasì l'infermiera. «Dottore, mi scusi, ma sono arrivati due signori, uno con la macchina fotografica, l'altro dice che è un russo che...». La parola «russo» agì esattamente come una parola fatata. Il medico scomparse dalla porta posteriore, senza manco levarsi il camice. Il paziente, in mutande, taliò strammato l'infermiera. «Che faccio, aspetto?». «Non mi pare cosa». Mio padre vide spalancarsi la porta del suo ufficio, comparirgli davanti l'amico stravolto e in divisa di dottore. Si preoccupò. «Che fu? Che successe?». «Persi siamo! I russi arrivarono!». A farla breve, un quarto d'ora dopo mio padre, trasuto dalla porta posteriore e indossato il camice, diceva all'infermiera, ridotta allo stato di sonnambula, di fare accomodare i visitatori. Il russo si presentò come il corrispondente dall'Italia della Pravda . Voleva raccontare ai lettori l'eroico salvataggio del compatriota che, spiegò, non era un semplice marinaio, ma un commissario politico molto in alto nella scala gerarchica. Santiando silenziosamente, mio padre si mise in posa, si fece intervistare e fotografare con un'ariata modesta, da vero eroe. Finalmente i due se ne andarono e mio padre si abbandonò sfinito su una seggia: nel corso dell'intervista gli era venuto a mente che se il russo gli spiava particolari sulla malatìa del commissario, lui non avrebbe saputo che dire. Trasì minacciosa l'infermiera. «O lei mi spiega quello che sta capitando qua o io vado dritta dritta dai carrabinera». Fortunatamente arrivò il medico, che aveva latitato nei paraggi, e arriniscì a calmarla. Alla scordatina, una mesata dopo, il rischio di una catastrofe si ripresentò. «C'è un altro russo» fece sconsolata l'infermiera appresentandosi al dottore. «M'ha fatto capire che è quello al quale lei ha salvato la vita. Che faccio?». «Fallo aspettare» disse Gino scomparendo come la prima volta e rimaterializzandosi nell'ufficio di mio padre. «Peppino, è arrivato il russo». «Bih, che grandissima camurrìa!» scattò mio padre. «Ma quanti sono sti russi?». «Peppino, abbiamo fatto trenta, facciamo trentuno. Questo è quello che io ho salvato». La scena, oramai provata, a mio padre stavolta arriniscì benissimo: indossato il camice, andò nell'anticamera, abbracciò il suo pseudo paziente e questi, in lacrime, lo baciò tre volte. Macari l'infermiera si commosse. Poi il russo, un momento prima di andarsene (partiva per Roma e da lì avrebbe proseguito per Mosca), lasciando il suo indirizzo, comunicò a mio padre che, tornato in patria, l'avrebbe proposto per una decorazione al merito. La facenna a questo punto diventava pericolosa: la cosa si sarebbe risaputa e lo scangio di persona non era più continuabile. Perdendo due nottate di sonno, il dottore (mio padre stavolta si rifiutò di collaborare) compilò per il russo una nobile letterina nella quale lo scongiurava di non proporre la decorazione al suo Governo. «Fedele al giuramento d'Ippocrate», concludeva, «io ho solo fatto, modestamente, il mio dovere». In Unione Sovietica la cosa non ebbe più seguito. In Italia, invece, sì. «Siete il dottor Giovanni M.?», spiò, qualche giorno appresso, una voce imperiosa al telefono. «Sì». «Sono il Federale. Venite domattina alle sette in federazione. Puntuale». Gli venne la sudarella. Ultimamente, al circolo, aveva contato qualche barzelletta sul Duce. Vuoi vedere che c'era stato un cornuto che aveva fatto la spia? Passò una mala nottata. L'indomani, per il sì o per il no, si presentò in orbace, fece il saluto, rimase sugli attenti. «Voi avete salvato un commissario politico comunista?» fece il Federale puntandogli contro un dito che pareva la canna di un revorbaro. Il dottore, persuaso che fosse venuta l'ora dell'espiazione, raccolse tutte le sue forze. «Sì» esalò. «L'ufficio stampa del partito mi ha fatto avere la documentazione» proseguì il gerarca. «Vi riconoscete in questa foto della Pravda ?». E gli porse il giornale. Il dottore la taliò: fortunatamente la foto era confusa, i lineamenti della faccia non si vedevano bene. «Sì». «Bravo!» disse il Federale. «È così che si comporta un vero fascista! Con generosità e sprezzo del pericolo! Vi proporrò per un encomio solenne!». Però, siccome c'è una giustizia divina, quell'encomio non gli arrivò mai.