Corriere della sera 16.06.2000 

CAMILLERI La politica del mio Montalbano 
colloquio tra MARCELLO SORGI e ANDREA CAMILLERI

E' in uscita da Sellerio «La testa ci fa dire», dialogo del direttore della «Stampa» Marcello Sorgi con Andrea Camilleri (pagg. 159, lire 15.000). Ne anticipiamo un brano. 

C' è un aspetto che colpisce di alcuni tuoi personaggi che simboleggiano lo Stato. Quando sono buoni, validi intendo, lo sono personalmente. Quando la loro identificazione con lo Stato è più forte, in genere sono esempi negativi. È un aspetto più evidente nei tuoi romanzi storici, ambientati soprattutto nella Sicilia dei Viceré. Ma si percepisce anche in Montalbano . Già. Per esempio quando arriva il funzionario dei servizi segreti e dice a Montalbano: siamo tutti e due servitori dello Stato. Montalbano gli risponde: il fatto è che noi serviamo due Stati diversi. È così: vedi, tu hai citato De Roberto. Ed in effetti noi abbiamo sempre avuto dei Viceré: che fossero prefetti o questori, poco importa. Avevano sempre le funzioni di viceré. Ora, appunto, come ci è stato spiegato magistralmente da Sonnino e Franchetti nella loro inchiesta sul Mezzogiorno, la Sicilia è sempre stata un luogo di punizione. Quindi la gente che veniva mandata giù era gente punita, che veniva a scontare una sorta di esilio. Difficile che fossero puniti per fatti ideologici: in genere, se lo erano, erano gente che aveva abusato del proprio potere. Ora, dal momento che è difficile, se non impossibile, mandar via un funzionario corrotto, è naturale che un corrotto generi corruzione. E quando arriva in un territorio corrotto, diventa come il cacio sui maccheroni. Ma il territorio corrotto per definizione è la Sicilia? Guarda, se tu leggi le prime dieci pagine del taccuino di Franchetti, date le condizioni di partenza, vien fuori che noi siciliani avremmo dovuto essere tutti dei Totò Riina. Se non lo siamo diventati, è perché abbiamo radici di onestà molto forti. Così anch'io, quando mi trovo a raccontare uno scenario di grande corruzione, se vai a guardar bene, su cinque funzionari corrotti, ne inserisco due siciliani, uno milanese e due piemontesi. Nei romanzi storici, ho descritto alcuni aspetti del popolo dell'Unità d'Italia ricavati dallo studio dei documenti dell'epoca. E bada, non per ridiscutere un processo storico, che a mio giudizio era obbligato: semmai per metterne in luce le contraddizioni, o gli aspetti paradossali. C'è un libro fondamentale, scritto da Molfese e pubblicato da Laterza, sul brigantaggio al Sud, da cui emerge che i briganti censiti all'epoca dell'Unità ammontavano a quarantamila: è abbastanza chiaro che rispetto alla popolazione dell'epoca un dato come questo è enorme, sproporzionato, assurdo. Se erano quarantamila, non erano briganti, ma un'altra cosa. Qualcosa che assomiglia di più a una sollevazione popolare, che non a brigantaggio di massa. E questo ragionamento che hai fatto sul secolo scorso lo trasferiresti tale e quale ai giorni nostri, all'Italia e alla Sicilia di oggi, allo Stato e alla mafia di oggi? Capisco che la tua domanda è insidiosa, ma sono tentato di risponderti di sì. Sì, lo trasferirei tale e quale. Se devo risponderti ricavando la risposta dai miei libri, dai miei personaggi, da Montalbano, non posso che ripeterti: sì. Prendi il processo Andreotti. È chiaro che a un certo punto si è arrivati a un sistema di rapporti tra politica e mafia. C'erano già dal dopoguerra, tra il separatismo siciliano, verrebbe da dire la parte più ridicola del separatismo, e i mafiosi di allora. C'era perfino qualcuno che s'avventurava a valutare la forza elettorale della mafia: duecentoventimila voti, calcolati chissà come. Ma ammesso che il calcolo sia stato giusto, alla fine del separatismo, questi voti dove saranno andati a finire? Si può pensare che siano andati dispersi? Certamente no. E non è azzardato immaginare che si siano trasferiti, via via, sui rappresentanti locali dei partiti di governo, e principalmente sulla dc, come l'assassinio di Lima a un certo punto s'è incaricato di dimostrare. Ricavare da questo le accuse che sono state poste alla base del processo Andreotti, formulare l'ipotesi che tutta l'Italia fosse stata governata dal capo della mafia, m'è parso, fin dall'inizio, poco convincente. Ci ho trovato lo stesso limite del ragionamento storico sul brigantaggio. Con in più il rischio, poi naturalmente verificatosi, di fare di Andreotti, con la sentenza, un santo o un martire, senza poter più discutere neppure le sfumature di una storia politica piena di ombre e durata oltre mezzo secolo. Ma non c'è contraddizione tra l'ammirazione, che tu mi hai manifestato, per Caselli, e questo tuo scetticismo sul processo Andreotti e su quel modo di fare la lotta alla mafia? No, non c'è. Te lo spiego subito. Mi sarei aspettato che tu, sicilianamente, mi dicessi che non hai alcun timore a contraddirti. C'è anche questo. Ma vedi, io non ho alcun bisogno di credere che i giudici siano infallibili per stimarli. Non li demonizzo e cerco di non idolatrarli. Poi, basta guardare un po' Montalbano, per accorgersi che a me piace la vicenda singola, l'obiettivo limitato, il perimetro circoscritto. Di Caselli ho ammirato, l'ho detto subito, la sua decisione controcorrente di andare in Sicilia, a Palermo, in una procura molto esposta, dopo le stragi di Falcone e Borsellino. Ti immagini quanta gente si sarà chiesta: chi glielo fa fare a Caselli? Ecco, mentre tanti si chiedevano chi glielo faceva fare a Caselli, lui ha preso ed è andato in Sicilia.