"Stilos" (supplemento letterario de "La Sicilia") del 15/08/2000 
 

Torno nell’800 e cerco uno scomparso

A novembre esce La scomparsa di Patò. E Camilleri dice: "Questo libro intende essere una sorta di summa di temi che mi sono cari. Però, una volta tanto, volti decisamente al divertimento. Si tratta di un’indagine portata avanti congiuntamente dalla polizia e dai carabinieri al fine di arrivare al perché della scomparsa del ragioniere Patò"

Nella sua antica casa di Porto Empedocle, dove sta trascorrendo le vacanze, Andrea Camilleri parla dei suoi prossimi libri, il primo dei quali, per Mondadori, si intitola La scomparsa di Patò, una vicenda ambientata alla fine dell’Ottocento. Ritorna così un periodo storico molto caro a Camilleri: "E' il periodo -dice- immediatamente post-unitario, quello nel quale si commettono gli errori e si stabiliscono le basi di quello che sarà praticamente il rapporto nord-sud. Per questo mi interessa, perché sono particolarmente attirato da questo periodo, che va dal '60 alla fine dell'Ottocento.

Sarà un romanzo ambientato in Sicilia?

"E dove altrimenti? Non saprei ambientare un libro in nessun altro posto, neanche a Villa San Giovanni".

La vicenda narrata ha un fondo di verità, ma-gari rintracciato in qualche cronaca d'epoca, oppure è tutto frutto della suo fantasia?

"Questo va domandato a Leonardo Sciascia, perché in realtà il libro, che non è ancora finito perché lo devo consegnare a settembre (ma che c'è già tutto, in quanto si tratta solamente di un problema di riscrittura di alcune pagine e di revisione), il libro dunque nasce dall'ultima pagina di A ciascuno il suo di Sciascia, da dove Sciascia fa dire questa battuta "E' scomparso come Patò", riferendosi ad un fatto narrato, secondo il quale un tale Patò, recitando la parte di Giuda nel 'Mortorio', come centinaia di altre volte aveva fatto, scomparve all'interno della botola che era sotto di lui. E non ricomparve mai più. Queste poche righe non so se partano da un fondamento di verità di Sciascia, ma credo di sì".

Nei suoi libri l'ordito poliziesco va sempre di pari passo con le vicende storiche, preferibilmente quelle meno conosciute, e qua e là si riscontrano divertite osservazioni di costume e rilevazioni di rivolgimenti di ruoli e complessi giochi delle parti. E' così anche nel suo ultimo romanzo?

"Sì, ma portati al paradosso. Perché questo libro intende essere un divertissement, una sorta di summa di temi che mi sono cari. Però, una volta tanto, volti decisamente al divertimento. Si tratta di un'indagine portata avanti congiuntamente dalla polizia e dai carabinieri dell'epoca al fine di arrivare al bandolo di questa matassa. Mi sono inventato una quantità di cose, partendo solo da questo esile spunto. Questo Patò, ragioniere scomparso, in realtà è il nipote di un senatore, che è sottosegretario agli interni. Per questa scomparsa si mobilita il mobilitabile. Il senatore è abbastanza chiacchierato, e pare che si serva del nipote, direttore della filiale di Vigàta di una banca, per gestire i suoi loschi traffici. Quindi, tutto è possibile sulla scomparsa di Patò. Naturalmente, la verità poi sarà rivelata da due poveracci indagatori, che partiti come il cane e il gatto all'inizio, veri nemici giurati, si ritrovano sempre più affratellati, via via che questa indagine dimostra la pericolosità delle loro carriere. Non dirà altro, perché significherebbe levare il gusto al lettore".

La Sicilia dei suoi libri, come ha rivelato Raffaele La Capria, si presenta come una terra polifonica, in cui esistono soltanto i personaggi coi loro tic linguistici, le magagne, le aberrazioni. Quanto Pirandello e Gogol ci sono in questo suo nuovo libro?

"Moltissimo, il debito a Gogol è immenso. Quello a Pirandello qui è più evidente che negli altri libri. Come dire, ora sto pagando un certo debito".

Vuole accennare alla struttura dei libro?

"Si tratta di un libro scritto in forma di dossier, anzi è esclusivamente una raccolta di documenti, di rapporti, di lettere, alcune delle quali anonime, di scritte murali".

Ma veniamo al linguaggio, che nei suoi libri è sempre sui generis, una lingua mescidata, in cui l'italiano è forzato sintatticamente dagli anacoluti dialettali, con prolifici innesti di siciliano. In questo romanzo ci sarà tutto ciò, oppure riserverà al lettore qualche sorpresa, come nel caso di La mossa del cavallo, dove compariva un ibrido di siciliano, genovese e italiano?

"Il libro non è scritto in siciliano, ma in un italiano quale alla fine dell'Ottocento lo potevano parlare un delegato di pubblica sicurezza o un maresciallo dei carabinieri. E' scritto nell'italiano aulico dell'alta borghesia. Questa volta si tratta di una ricerca che era già iniziata con La concessione del telefono".

In questa storia, a quanto pare, continuano a convivere i due Camilleri che conosciamo: quello delle storie poliziesche e quello della memoria storica. Si riconosce in questo sdoppiamento?

"Ogni indagine sulla storia è un'indagine poliziesca. Quindi, questo sdoppiamento non c'è mica tanto. Il problema è parlare di Camilleri come scrittore di gialli. Ora, io sinceramente offenderei i veri giallisti se dicessi di essere uno di loro, proprio per l'uso di pretesto che faccio del giallo; mentre il vero giallista non adopera il giallo come pretesto. E' lo stesso che chiamare giallista il Leonardo Sciascia di A ciascuno il suo o di Il giorno della civetta".

Grazie ai suoi libri, tra i lettori italiani è tornato il sorriso. Le sue storie piacciono, perché oltre ad essere ben costruite, riservano, quando meno uno se l'aspetta, delle crepe, delle sterzate che incrinano il piano della normalità, e che tra ironia e comicità, rappresentano delle vere rarità, nel panorama quaresimale della nostra letteratura, come ha osservato anche Carlo Bo. Con questa storia, il lettore potrà anche divertirsi?

"Probabilmente. Bo si è espresso in termini più generali. lo non credo di essere uno scrittore che piaccia a Bo. Lui è stato un mito della mia giovinezza, al tempo dell'ermetismo e degli Otto studi. Bo ha detto che io occupo un posto che in Italia nessuno occupava, e di questo gli sono grato. La sua dichiarazione corri sponde veramente alla verità dei fatti. Cioè a dire, l'intrattenimento medio-alto in Italia è una cosa sconosciuta. Da noi si pretende di costruire solo cattedrali, invece esistono, l'ho detto e lo ripeto, straordinarie chiesette di campagna, aggraziate. Che ti fanno fire 'Oh Dio quanto è bella, ma è un po’, cartolina!' Ma anche la cattedrale è fotografato in cartolina".

Contemporaneamente sta lavorando ad un romanzo molto laborioso, Il re di Girgenti, al quale ha messo mano da più di quattro anni.

"Il libro è ambientato ad Agrigento, nel primo quindicennio del Settecento. Si tratta di un episodio autenticamente storico. Era l'ultimo anno durante il quale la Sicilia era con i Savoia, il momento più virulento della controversia liparitana. Quindi ci furono rivoluzioni, e per sei giorni Girgenti divenne regno indipendente, con un contadino re che si chiamava Michele Zosi e che poi venne ammazzato. Questo momento mi ha intrigato. Il libro ha presentato delle grosse difficoltà per me, innanzitutto difficoltà di linguaggio. Ora, il mio linguaggio riflette quello piccolo-borghese, come nel caso di Montalbano e dei protagonisti dei romanzi storici. Il linguaggio contadino è diverso e, a sua volta, il linguaggio contadino alla fine del Seicento è ancora più diverso. Il problema è di renderlo in un modo che ne conservasse la forza, ma ne guadagnasse in comprensibilità. Questo è stato il grosso problema. L’altro problema è stata la ricerca di struttura. lo l'ho cominciato, l'ho buttato all'aria, l'ho abbandonato e l'ho ripreso, perché non mi veniva. Tutti i miei romanzi storici hanno una certa struttura, da Il Birraio di Preston, in cui c'è una ricerca temporale ben precisa, a La concessione del telefono, con il misto di epistolario e solo le cose dette. Insomma, ho bisogno sempre di dare la forma più appropriata, la giusta struttura al romanzo storico. Montalbano se ne va per i fatti suoi, nella forma più tradizionale. Finalmente, a proposito di Il re di Girgenti, credo di avere trovato la giusta struttura, e quindi spero entro l'anno di consegnarlo alla Sellerio".

La traduzione in siciliano del Ciclope di Euripide fatta da Pirandello le è servita nella sua ricerca linguistica?

"Due cose mi hanno molto aiutato all'inizio della mia scrittura: una è appunto la traduzione del Ciclope di Euripide, in cui Pirandello adopera due tipi di dialetto: il dialetto borghese, quello parlato da Ulisse, un soldato che ha viaggiato molto, uno che 'ha fatto il militare a Cuneo', come direbbe Totò, con un siciliano misto di parole: e poi il dialetto splendidamente contadino del Ciclope, che è una sorta di "massaro". Questo mi ha insegnato la diversificazione. Non è vero, quando mi dicono ‘tu ti inventi tante parole’; è solo che noi molte parole non le adoperiamo più, parole che appartengono magari aria cultura contadina. L'altro insegnamento che ho avuto risale a tanti anni fa, e mi è venuto dal racconto di Federico De Roberto, intitolato La paura e devo dire qui che non l'avevo mai detto a nessuno. Tedesco una volta mi tirò in disparte e mi disse: 'Ma tu La paura di De Roberto la conosci?'. 'Natale -risposi- è alla base.' Un racconto ambientato in una trincea del '14, dove si trovano soldati provenienti da tutta Italia, in una situazione di estrema difficoltà, in cui ognuno può lasciarci la pelle, e dove tutti i loro sentimenti, sensazioni, reazioni di fronte a questo assoluto che è la morte, vengono espressi nei loro dialetti di origine. Questo mi ha dato il coraggio di tante cose, come me l'ha dato Gadda".

Ma oltre ad avere messo mano ad una riduzione teatrale di una novella di Pirandello, sta portando a termine una biografia sul drammaturgo agri gentino.

"Io di Pirandelio ho finito, proprio l'altro ieri, la commedia richiestami da Turi Ferro per il teatro stabile di Catania, che è una splendida novella e si intitola La cattura, difficilissima a farsi in teatro, perché sono i pensieri di un tale, sequestrato da due sequestratori per chiedere il riscatto alla famiglia. Per rendere in azione queste cose, ho dovuto fare ricorso alle mie vecchie tecniche teatrali. Difficilissima, ma speriamo che riesca bene. Invece a ottobre devo consegnare a Rizzoli una biografia di Pirandello; è una biografia molto breve in un certo senso, in quanto è solo un'angolazione di una mia personale lettura umana di Pirandello. Infatti, non a caso si intitola Biografia del figlio cambiato. Ma rischia di essere un work in progress, perché per esempio io ho letto tutto quello che lui ha scritto, dal momento che oltre a scrivere l'infinità di cose che ha scritto, scriveva lettere, e tante. Fra l'altro, se Dio vuole, tutto questo finirà nel tempo, non esisteranno più epistolari di autori celebri, soppiantati dal telefono, Internet e altro, che hanno fatto scomparire questa fatica dello scrivere pagine e pagine. Però abbiamo a disposizione documenti straordinari della esistenza di tanti autori. Ecco cosa è successo: io arrivo a Porto Empedocle, entro nella cartolibreria e mi trovo davanti il libro Pirandello intimo. Sono circa cento lettere di Pirandello alla sorella Lina, che io non conoscevo e che quindi ora mi devo mettere in santa pace a controllare, se per caso non ho detto fesserie di date o altro. Non vuole essere una biografia di tipo scientifico, ma di tipo interpretativo di un'esistenza".

Con queste storie Montalbano naturalmente non c'entra. Forse, come nel caso di Manuel Vàzquez Montalbàn e anche di Santo Piazzese (il quale, a quanto pare, è riuscito in parte a liberarsi di La Marca), lei è un po' ossessionato dal suo personaggio e per questo cerca di tenerlo in disparte. Indubbiamente i suoi rapporti con Montalbano si fanno sempre più difficili, dal momento che lui adesso invecchia e bisogna anche fare i conti con la sua natura che cambia. Molti si chiedono che fine farà?

"E' vero, sono ossessionato dal mio personaggio e anch'io sono tra quei molti che si chiedono come andrà a finire. Non ho la più lontana idea di che fine farà Montalbano. Voglio dire però una cosa: che non lo farà morire. Come fatto scaramantico, far morire a settantacinque anni un personaggio che ne ha cinquanta! Mi starebbe stretta la cosa".

Dopo avere letto Un mese con Montalbano e Gli arancini di Montalbano, ci si è accorti che lei sa costruire bene i suoi racconti, i quali per loro natura potrebbero scadere in bozzetto. Ma si è notata anche una certa dissipazione di materiale e di ispirazione. Con certi racconti avrebbe potuto costruire una più vasta architettura. Sente forse l'incedere del tempo?

"L'osservazione è molto giusta, però io sono un uomo pratico, molto concreto. la domanda è: quanto tempo ancora mi resta per scrivere? Allora, a una certa età, il gusto della dissipazione ti viene. Ma se mi venisse a mancare la felicità del raccontare, allora non scriverei più. Io non fatico a scrivere anche se un libro lo riscrivo cinque o sei volte. Ma non è una fatica, è la gioia di poter raccontare meglio. Questo forse qualcuno me lo può invidiare".

In una recensione a un suo libro, Antonio D'Orrico scrisse di essere felice, ogniqualvolta si mette tra le mani un suo libro, perché si capisce appunto che raccontare per lei è una cosa naturale. Viene in mente la definizione che Nietzsche diede a proposito dell'amato Petronio: 'Uno scrittore dai piedi di vento', per la facilità della penna, la leggerezza della pagina, quasi calviniana.

"lo ho una mia opinione sulla scrittura. Per una scrittura anche alta, complessa, io mi arresto nel momento in cui scorgo il sudore, le "sudate carte". E porto sempre, a chi me lo chiede, l'esempio di una trapezista. Al circo è meravigliosa, fa il doppio salto mortale, aerea con una grazia straordinaria. Però non fa mai vedere il quotidiano esercizio, la fatica della prova. La tensione muscolare e mentale, tutto questo è dietro. Questa è la leggerezza calviniana, non significa non esserci sotto e alle spalle una preparazione, un lavoro, un assiduo esercizio quotidiano, come nel caso di un pianista, ad esempio. Ma non deve trasparire tutto questo. Secondo me è il caso del Manzoni, con la grazia scorrevole della sua prosa. O come Leopardi, "E queta sopra gli orti posa la luna": questo 'posa' è una meraviglia di Dio. Poi, ti vai a guardare tutte le varianti, 'spunta', 'sorge', tutte cancellate, per poi arrivare a 'posa'. Leggerezza, tranquillità aerea del discorso: questa è la grazia di Dio".

Salvatore Ferlita (Studioso agrigentino, è interno a Lettere a Palermo. Si occupa di scrittori siciliani)