da: "Soprattutto" – Supplemento del venerdě de "Il Secolo XIX" – 8/12/2000

SENZA STECCATI

Intervista a Andrea Camilleri

Lo scrittore del momento, il beniamino del pubblico italiano. L’unico tra i nostri narratori a reggere, anzi a sbaragliare la più agguerrita concorrenza angloamericana. Ma il maggiore merito di Andrea Camilleri sta nell’avere mostrato che successo editoriale e qualità letteraria possono andare pienamente d’accordo.

Lo conferma la sua ultima fatica creativa: un romanzo che nasce da un intento di sperimentazione e di rottura non comune alla narrativa d’intrattenimento. L’io narrante vi è totalmente assente. Al suo posto una congerie di documenti magistralmente affiancati in forma all’apparenza caotica: pagine di giornale, lettere, atti delle forze dell’ordine…

Perché questa scelta, a suo modo "eversiva"?

Poiché volevo in qualche modo scomparire, come il mio protagonista Patò, e affidare al lettore il compito di ricomporre la vicenda: tocca a lui immaginare come sono i personaggi, ricostruirseli nella fantasia. E’ in un certo senso quello che facciamo tutte le volte che leggiamo un libro. Io ho voluto soltanto enfatizzare questa operazione, portando alle estreme conseguenze una tecnica che avevo già abbozzato.

E’ una tecnica che le permette anche di "saltellare" fra un genere letterario e l’altro…

In effetti, nell’utilità della divisione in generi non ho mai creduto molto. Mi sento più vicino a quegli autori che cercano da far saltare gli steccati, come Carlo Emilio Gadda, che con il Pasticciaccio ha inaugurato la strada del poliziesco problematico, in cui si mischiano comico e tragico: un giallo "aperto", che si conclude senza lo svelamento dell’assassino.

La scelta di costruire il racconto intorno a un dossier come ha condizionato lo stile?

Mi ha costretto a rinunciare al dialetto (che è una lingua parlata) e a tentare di capire le diverse stratificazioni dell’italiano. Ci sono tre livelli nel libro: il linguaggio dei potenti, aulico, sacerdotale, quasi incompresibile; l’italiano medio, incerto e ricco di irrigidimenti burocratici; infine l’italiano goffo e maccheronico di coloro che tentano di scrivere non essendo capaci di farlo (e naturalmente sono quelli che mi risultano più simpatici).

Che cosa "appartiene" alla Sicilia a che cosa è metafora dell’Italia in questo romanzo?

Di italiano c’è la tendenza a manipolare la realtà (è il nostro sport nazionale). Di siciliano la tendenza ad amplificare tutto, a prendersi sempre molto, troppo sul serio.

I suoi romanzi però sono percorsi da una forte vena umoristica…

Ma è uno strumento di difesa! Un siciliano è sempre tentato dal coinvolgimento totale: l’ironia e l’umorismo gli permettono di guardarsi dall’esterno, di assicurarsi un po’ di controllo. L’ironia investe anche la sessualità. 

Perche?

Perché altrimenti prendono il sopravvento toni più cupi, che non mi piacciono: quelli della gelosia, della passione possessiva, della sensualità focosa. L’unica possibilità che ho di avvicinare il mito dell’eros è dissacrarlo, e i modi mi derivano dalla lettura di Vitaliano Brancati.

Questo umorismo amaro non rischia di fare terra bruciata di ogni speranza o illusione?

Non lo credo. Dai miei romanzi emerge sì una visione disillusa della realtà. Ma alla mia età (ho 75 anni) si è un po’ come bambini. E i bambini hanno delle pause di disincanto, ma per incantarsi di nuovo. E io sono un po’ così, sempre pronto a stupirmi, a sperare. Anche se so (e loro, i bambini, questo non lo sanno) che sarà ancora più amaro il disincanto successivo.

Che cosa può guidarci in questa altalena tra incanto e disincanto?

Dashiell Hammett diceva che esiste un istinto della caccia, una spinta a capire, a cercare una verità: è l’istinto del detective ma anche quello dello scienziato. Possiamo chiamarlo intuito. Ma un intuito che passa al vaglio della ragione.

Giuseppe Gallo