La Repubblica 14.11.2000

Bravo Camilleri ma la sicilia non è questa
L'ultimo romanzo, originale nell'impianto, rischia però di indulgere alla caricatura

Come già con La concessione del telefono, così anche con questa nuova prova (La scomparsa di Patò, Mondadori, pagg. 255, lire 26.000) Andrea Camilleri pare voler drasticamente modificare la formaromanzo, eliminando la voce narrante e affidando sia lo sviluppo dell'intreccio che la costruzione dei personaggi a una serie di documenti posti uno dopo l'altro in ordine cronologico senza alcun «collante» specificamente narrativo. Questa volta, anzi, lo scrupolo della finzione arriva a far sembrare il libro una raccolta di anastatiche, che riproducono i documenti così come sono (o meglio, sarebbero stati): ritagli di giornale, dattiloscritti di vario tipo, scritte murali, manoscritti... Il tutto incorniciato da una citazione da Sciascia in apertura e da una nota dello stesso Camilleri in chiusura. Il rinvio a Sciascia (da A ciascuno il suo) non è affatto esornativo; in esso, al contrario, è contenuto in nuce l'intero libro, visto che vi si accenna alla scomparsa di Antonio Patò, avvenuta durante una sacra rappresentazione della passione di Cristo. Camilleri sposta Patò nella solita Vigàta e lo fa direttore della filiale locale della Banca di Trinacria, per farlo subito sparire, il Venerdì santo del 1890, proprio come racconta Sciascia. Del fatto dà notizia un rapporto del Delegato di P.S. Ernesto Bellavia al Questore di Montelusa da cui dipende, in cui si dà conto della denuncia di scomparsa sporta dalla moglie del Patò all'indomani della rappresentazione. E di qui parte un meccanismo investigativo tanto confuso quanto complesso, che vede protagonisti il suddetto Delegato e il maresciallo dei Reali Carabinieri Paolo Giummàro, dapprima acerrimi nemici, poi amici sviscerati, almeno da quando cominciano a dover fare fronte comune contro le rispettive alte gerarchie. E già, perché Antonio Patò è nipote di un potente Sottosegretario al Ministero degli Interni, il quale, preoccupato per la sorte del parente non meno che per la possibilità di svelamento di certi loschi traffici bancari, interferisce pesantemente nelle indagini con la sua incredibile ed esilarante prosa "culta": «Petente a lei vengo, … perché voglia accivire a molcere l'ansia di un vegliardo, qual io sono, per l'improvvisa e improvvida sparizione del dilettissimo mio, infra tutti il più adeso, nepote Antonio Patò...». I due investigatori locali, mettendo pazientemente insieme pezzi assai disparati, riusciranno infine a pervenire a una soluzione a prova di bomba; ma la ragion di Stato li costringerà, per salvare il posto di lavoro e magari anche la pelle, a costruire una falsa versione che farà tutti contenti. Che dire? La maestria costruttiva di Camilleri e la sua capacità di inventare a getto continuo situazioni divertenti e inattese sono ormai ben note, così come ben nota è la sua "umiltà" da buon artigiano, qui riconfermata dal suo porsi come semplice continuatore e "chiosatore" di un minimo episodio riferito da Sciascia. E sarebbe davvero ingiusto chiedergli di più. Il fatto è, però, che i suoi romanzi vanno infine tutti a parare sul nodo dei rapporti fra potere istituzionale e malavita in Sicilia, inserendolo in una sorta di specificità antropologica dell'isola che lo motiva e insieme lo evidenzia: un vero campo minato per un narratore, il quale deve sapere che ogni sua parola, ogni suo ammiccamento, ogni suo scherzo possono agevolmente trasformarsi in interpretazione storica e in giudizio politico. Camilleri fa di tutto per scongiurare tale eventualità. Ma è proprio sicuro di riuscirci? In un mondo di "macchiette", narrato con una lingua che è a sua volta una "macchietta", il lettore non finirà con lo smarrirsi? La macchietta vive in funzione dell'originale "serio" di cui fa la parodia. Ma se tale originale non si incontra mai, nemmeno di sfuggita, non si rischierà di dar corpo e sostanza reale alla macchietta, e quindi di buttare tutto in barzelletta, inclusi i morti ammazzati, le vessazioni, le corruttele generalizzate? Se Camilleri fosse davvero un nuovo Brancati, potremmo stare tranquilli. Ma ho l'impressione che gli manchi, per esserlo, la sofferenza (e l'insofferenza) di cui trasuda la facciata ironica di un Don Giovanni in Sicilia o di un Bell'Antonio. Meglio Montalbano, allora, al quale il "genere" offre una potente difesa naturale e che perciò ben sopporta la confusione tra serio e faceto. Qui, invece, che Antonio Patò venga preso sul serio costituisce un rischio: un rischio che non vorremmo la letteratura dovesse correre.

Stefano Giovanardi