Andrea Camilleri
La gita a Tindari
Palermo, Sellerio Editore, 2000


Ormai lo sappiamo da tempo: esiste per il romanzo italiano uno sconcertante “caso Camilleri”, vale a dire una circostanza mai verificatasi prima nella nostra letteratura. È successo cioè che lo scrittore Andrea Camilleri, creativamente esploso in tarda età (essendo nato nel 1925) con una produzione di singolare abbondanza, si sia trovato ad occupare con più titoli la classifica delle vendite, giungendo a un certo momento ad occupare contemporaneamente coi suoi romanzi addirittura tutte le prime sei posizioni della narrativa italiana (v. rilevazioni di La Repubblica, 1° agosto 1998). Una situazione da lasciare stupefatti, praticamente unica anche in prospettiva planetaria. Fenomeno senza dubbio eccezionale, ma forse tanto più inatteso per il fatto che Camilleri articola le sue storie in vari filoni, ma tutti venati di giallo e uno – la serie del Commissario Montalbano – giallo a tutti gli effetti. Sicché il “caso Camilleri” risulta, involontariamente, una metafora generale del giallo, nei cui confronti – e in particolare per quello italiano – c’è oggi un notevole interesse.
Con La gita a Tindari Salvo Montalbano, commissario di polizia a Vigàta, Sicilia, giunge alla sua quinta inchiesta in dimensioni di romanzo (nel senso che sono usciti nel frattempo anche un paio di volumi di racconti). E contestualmente Andrea Camilleri alza il tiro: si addentra nei meandri delle trame mafiose e delle relative connessioni politiche. Per cui, pur sotto le splendidamente mentite spoglie del giallo aspira – ancor più chiaramente che nei precedenti – al romanzo sociale. Beninteso, i suoi intrecci (e parliamo qui solo dei Montalbano, ma il discorso vale in parte anche per altri suoi romanzi) sono dei meccanismi gialli oliati alla perfezione. Basta leggersi l’illuminante sintesi (p. 223) del metodo seguito dal commissario: “Sempre, nel corso di ogni indagine che si era venuto a trovare tra le mani, c’era stato un giorno, anzi, un preciso momento di un certo giorno, nel quale un inspiegabile benessere fisico, una felice leggerezza nell’intrecciarsi dei pinsèri, un armonioso concatenamento dei muscoli, gli davano la certezza di poter caminare per strata ad occhi inserrati senza inciampare o andare a sbattere contro qualcosa o qualcuno. Come capita, certe volte, nel paese del sogno. Durava picca e nenti, quel momento, ma era bastevole. Oramai lo sapeva per spirenzia, era come la boa della virata, l’indicazione della vicina svolta: da quel punto in poi ogni pezzo del puzzle, che è poi l’indagine, sarebbe andato da sé al posto giusto, senza sforzo, bastava quasi solo volerlo. Era quello che gli stava capitando sotto la doccia, macari se ancora tante cose, per la verità la maggior parte delle cose, restavano oscure.”
È dunque il momento nodale della illuminazione, in un caso iniziato quasi alla chetichella. La gita a Tindari si apre con l’immancabile morto ammazzato, caso su cui Montalbano è chiamato a investigare. Ciò che intraprende, come spesso, di malavoglia: (p. 17) “Il commissario non ebbe gana di aspettarlo. Prima d’allontanarsi, taliò il morto. Un picciotteddro poco più che ventino, jeans, giubbotto, codino, orecchino. Le scarpe dovevano essergli costate un patrimonio.” Siamo alle primissime pagine, ma già la connotazione è precisa, coinvolgente, del tutto attuale, in una Sicilia che – come sempre in questa serie letteraria – è tanto attuale ed esplosiva quanto, ad esempio, lo erano a suo tempo quei capolavori gialli ambientati nella Chicago o nella Los Angeles dei Roaring Twenties. Con la perfetta funzionalità del meccanismo giallo in questi romanzi – su cui è opportuno insistere – l’indagine di Montalbano comincia ad avanzare, dibattendosi subito tra le secche che le sono ormai consuete: al cadavere del “picciotto”, Nenè Sanfilippo, se ne aggiungono subito altri due, una coppia di anziani coniugi, guarda caso abitanti nello stesso condominio.
È solo l’inizio di una sequela di orrori, che il commissario si troverà a dipanare: traffico d’organi, omicidi su commissione, coinvolgimento di nomi eccellenti... Paradossalmente: la più trita cronaca quotidiana. Ma Montalbano ci s’incaponisce, pur fra certe incapacità dei collaboratori, certe pressioni mafiose, certe incomprensioni con la fidanzata Livia, e via discorrendo. E il commissario (p. 274) si accorgerà sgomento – lui, cosi compassato e ironico – che ormai siamo entrati in “un’epoca di delitti spietati fatti da anonimi che avevano un sito, un indirizzo su Internet o quello che sarebbe stato, e mai una faccia, un paro d’occhi, un’espressione.” Giungendo quasi a compiangersi, con uno sconsolato, umanissimo: “No, troppo vecchio, oramà.” Eppure è proprio lui, cosi ‘troppo vecchio” ad avere l’intuizione finale, capace di smontare i tenebrosi meccanismi responsabili di tanta ferocia. In un giallo sulle cui strutture, come sempre, l’autore evidenzia un’eccezionale padronanza.
In realtà, però, la maestria fondamentale di Camilleri consiste nel saper scrivere, perché ha il dono di farsi leggere, ha la dote suprema di farsi capire anche se “scrive strano.” Leggi ad esempio la prima riga di questo romanzo “Che fosse vigliante, se ne faceva capace dal fatto che...” e traduci già d’istinto un fulminante esordio “D’essere sveglio, si rendeva conto perché...” Questo è appunto il suo vero miracolo, il dono comunicativo che una certa invidia suscita fra certi colleghi e tanti sospetti tra i critici. Senza contare che, a saperli leggere tra le righe, ci sono in questo libro – come del resto negli altri – segnali d’ogni genere, in quantità.
Ci sono (p. 220) frecciate che, nell’apparente impianto umoristico delle trame, l’autore lancia al settore politico o sociale “...non ha notizie da ieri di suo nipote.” “Quale nipote? L’esule?” “Esule?”, ripete l’avvocato Guttadauro sinceramente perplesso. “Non si formalizzi, avvocato. Oggi esule o latitante significa la stessa cosa. O almeno così vogliono farci credere.” E così, in un sol colpo, Camilleri ci fa sapere qual è l’andazzo generale, e in proposito come la pensa Montalbano e come la pensa lui, esprimendo contestualmente un giudizio morale su una classe politica da cui ogni dabbenuomo (ma esisterà ancora l’oggetto di un simile vocabolo, ormai tramontato, che dico, rottamato?) dovrebbe prendere le distanze. Almeno per chi la vede in una certa maniera.
Ce n’è per i politici? Sì, ma anche per altri: (p. 230) “I latri e gli assassini fanno quello che gli pare e la polizia, con la scusa di mantenere l’ordine, se ne va nei campi di futbol a vedere la partita! Opuro fa la scorta al senatore Ardolì”, che messo in bocca a una donna del popolo ben esprime non a quanto potrebbe sembrare il qualunquismo, ma a quali livelli di qualunquismo, invece che di impegno, possa essere giunta la forza pubblica o comunque coloro che della legge dovrebbero essere i tutori. Insomma, chi – i politici – li fiancheggia.
Ma poi, alla fine ce n’è per tutti. Non mancano infatti strali ironici lanciati contro chi si ostina a snobbare il suo – e nostro! – genere preferito, chissà, magari i critici: (p. 261) “Certo che ne hai di fantasia” commentò Mimì che aveva ripensato alla ricostruzione del commissario. “Quando vai in pensione puoi metterti a scrivere romanzi.” “Scriverei certamente dei gialli e non ne vale la pena.” “Perché dici accussì?” “I romanzi gialli, da una certa critica e da certi cattedratici, o aspiranti tali, sono considerati un genere minore, tant’è vero che nelle storie serie della letteratura manco compaiono.” “E a te che te ne fotte? Vuoi trasìre nella storia della letteratura con Dante e Manzoni?” “Me ne affronterei.” “E allora scrivili e basta.” Non è un dire a nuora perché suocera intenda?
Frecciate del genere sono disseminate lungo tutto il romanzo, più che nei precedenti. Eppure La gita a Tindari rimane fondamentalmente un bel giallo, un’inchiesta coinvolgente, ben articolata, giustificata nei suoi tasselli, disposti al punto giusto e in adeguata sequenza. La quale, al di là del divertente linguaggio, non manca nemmeno di un’ironia interna capace di far sorridere: (p. 240): “sparò verso la più alta delle serrature. La pallottola colpì il bersaglio, rimbalzò sul metallo e sfiorò il fianco, anni prima ferito, di Montalbano. L’unico effetto che aveva ottenuto era stato quello di deformare il pirtùso, dove entrava la chiave. Santiando, rimise a posto la pistola. Ma com’è che nelle pellicole americane i poliziotti ci arriniscivano sempre a raprire le porte con questo sistema?” e insiste “ora con una spallata la porta si sarebbe certamente aperta. Si tirò narrè di tre passi, pigliò la rincorsa, desi la spallata, la porta non si cataminò. Il dolore fu talmente forte in tutta la spalla e il petto che gli spuntarono le lacrime.” E la stessa conclusione del romanzo e un drammatico finale tutto azione, beffardamente condotto come un concitato b-movie degli anni Cinquanta.
È ancora una volta, per Montalbano, quella forte componente umana che lo ha fatto accostare a Maigret. Eppure, semmai, cercandovi analogie, mi piacerebbe di più accostare Camilleri a un grande di tutt’altro genere, Federico Fellini. Per la straordinaria capacità, in entrambi, di affabulare la più banale quotidianità, cioè sostanziare in coinvolgenti trame la gretta realtà di cui leggiamo magari ogni giorno nella cronaca nera. In effetti, i suoi romanzi narrano una Sicilia che è metafora dell’idea corrente che si ha della Sicilia. Ma quella Sicilia è a sua volta la metafora autentica di ciò che è oggi il mondo, o almeno il nostro mondo, quello italiano.

Gianni Brunoro

Delitti di carta, n.7, ottobre 2000