Da La Repubblica, 19/04/2001

Il mito tra le due sponde
LA MEMORIA

HO SETTANTASEI anni, sono nato a Porto Empedocle e mi pare passata un'eternità da quando sentii parlare per la prima volta del ponte che avrebbe unito la Sicilia al resto del paese, al "continente", come si diceva una volta. Non posso parlare a nome di tutti i siciliani, ma solo a titolo personale. Dirò, allora, che da sempre sono stato favorevole alla costruzione di quel ponte che renderà la Sicilia meno isola, meno orgogliosa e forse meno malinconica. Finalmente riusciremo ad eliminare questa maledetta o benedetta sicilitudine: quel senso di isolamento e di solitudine nel quale molti di noi si sono trovati senza desiderarlo. Ma so che ad alcuni l'unione di due terre separate dal mare sembrerà un sacrilegio, un'offesa, una ferita alla sacralità dell'acqua. Capisco il senso di un disagio che ha radici nel mito. Da sempre lo stretto ha segnato il confine tra due mondi diversi. Attraversarlo significava consacrare all'avventura qualcosa di magico e di doloroso. Uscire dalla propria isola era come staccarsi da un mondo riconoscibile, fatto di abitudini, riti, intese, certezze. Di contro, entrare nel «continente» voleva dire non solo assistere all'ineluttabile cambiamento del paesaggio esteriore, ma anche esporsi alle modifiche del proprio paesaggio interiore. Ricordo che ogni volta che prendevo il traghetto avevo l'impressione di finire in un romanzo di Conrad, dove il mare è il protagonista della storia: labirinto delle nostre esistenze. Per me che partivo da Porto Empedocle, e non dalla parte interna dell'isola, il mare non era certo una novità. Ma il mare dello stretto, della cui insondabile profondità si favoleggiava, e si favoleggia ancora, aveva un sapore del tutto particolare. Era uno strappo nella continuità dell'esistenza, era un salto nel territorio dell'incertezza. Specialmente sui bambini, naturalmente predisposti alla novità, all'avventura, quella traversata di mezz'ora esercitava un fascino speciale. Alla stazione marittima di Messina si arrivava in genere di notte, immersi non tanto in un sonno profondo quanto in quella sorta di vigile assopimento cui ti costringevano i cigolanti vagoni del tempo. Per la maggior parte dei viaggiatori arrivare a Messina significava aver già trascorso diverse ore su un treno solitamente affollato, lento, arroventato dal sole. D'improvviso, quell'arrancare ritmato da soste che sembravano eterne finiva. Uno strano silenzio cadeva sulle carrozze immobili, sui viaggiatori esausti. E pian piano, accompagnato dal vociare dei macchinisti e dei manovratori, scosso dagli urti sordi dei respingenti, il treno entrava nel ventre del traghetto. Nel torpore del dormiveglia sentivo i flussi sbattere sulla scogliera, le onde insinuarsi fin sotto i vagoni, ed era allora che una mano affettuosa mi scuoteva: «Svegliati, Andrea, siamo sullo stretto». Era l'olfatto a registrare i primi segni che la traversata era iniziata. L'odore delle stive, annerite dal catrame depositato sul fondo, invadeva i vagoni. Ma, una volta sul ponte, era l'odore delle arancine di riso ripiene di ragù a riempire le narici, risvegliando l'appetito malamente soddisfatto dal «cestino» acquistato alla partenza. In quella mezz'ora di navigazione non c'era il tempo di annoiarsi o di soffrire il mal di mare. Se c'era una sensazione di disagio era tutta psicologica, mentale. Scivolavamo sopra la nera superficie di un mare abitato da mostri, da «fiere», da sirene. Improvvisamente avevamo perduto la stabilità della terra ferma. Ma è evidente che quei cattivi pensieri riflettevano la precarietà di uno stato d'animo messo in discussione dal cambiamento. E pensare che la mia terra è l'emblema stesso del cambiamento. In un ambiente geograficamente limitato si sono verificate ben tredici dominazioni e a ogni mutamento si sono levate orgogliose difese. Eppure tutto questo non ha scalfito il senso di malinconia che a volte ci coglie, semmai ha gonfiato quel fatalismo di cui spesso, e non sempre a torto, siamo accusati. Spesso, in passato, quando s'è parlato del ponte, mi sono chiesto che senso avessero certe opposizioni al progetto, certe riserve paesaggistiche, certe brutali liquidazioni. Come quella battuta sarcastica che qualcuno ricorderà: «Il ponte? Certo, così uniremo due deserti, la Sicilia e la Calabria». Per non parlare delle offese, quando s'insinuava che la costruzione avrebbe incrementato gli affari della mafia. A tutto questo mi viene fatto di rispondere che se si faranno le cose con serietà e chiarezza alla fine ne guadagnerà l'occupazione e lo sviluppo. Pirandello diceva che nel cervello dei siciliani ci sono diverse corde, tra cui quella civile e quella pazza. Io penso che ce ne siano molte di più. C'è in noi un'anima prismatica che ci rende imprevedibili nei gesti e nelle emozioni: cinquant'anni fa, quando lasciai definitivamente quelle terre, vidi soprattutto un tormentato paesaggio allontanarsi. Erano la coste siciliane che sfumavano alle mie spalle. E toccando l'altra sponda sentivo che la mia vita cambiava. Tutto il senso dell'emigrazione si concentrava in quel piccolo tratto di mare.

Andrea Camilleri