Il Manifesto 05.07.2001
Il Risorgimento nei confini di un'isola

Spero che Pietro Ingrao non me ne vorrà se mi permetto di intervenire criticamente a proposito della ripubblicazione de La bandiera degli elettori italiani, il libretto scritto nel 1876 dal suo antico nonno siciliano, Francesco e ora riproposto dalla casa editrice Sellerio. Il fatto è che, leggendolo, mi è venuto di consentire con la presentazione che ne è stata fatta su queste colonne ("Un pamphlet che parla all'Italia di oggi", titolava il manifesto del 28 giugno scorso), ma per motivi diversi rispetto a quelli espressi, a quanto leggo, da Andrea Camilleri e Pietro Barcellona in occasione della presentazione romana del volume. Più esattamente, mi è venuto di pensare a Gramsci: al Quaderno 19 ("Risorgimento italiano") e, in particolare, al lungo 24, dove si spiega il modo in cui i "moderati" riuscirono a "dirigere" il Partito d'Azione dei mazziniani e dei garibaldini anche dopo l'avvento della Sinistra al potere. L'impressione che ho avuto, infatti, è che il libretto di Francesco Ingrao stia completamente dentro questa vicenda. E che anche per il garibaldino Ingrao si possa dire che "non seppe tradurre" in lingua italiana quanto accadeva in Europa, sì da mancare il suo obiettivo di incidere significativamente sul corso della "rivoluzione passiva" italiana di quegli anni. Il perché può essere messo in questi termini. Nella sua intervista in coda al libro, Pietro Ingrao coglie esattamente nel rifiuto della "teologia dello Stato" il presupposto teorico da cui muove il suo antenato e tende a legarlo "all'esperienza grave (persino angosciante) del decennio tra il '60 e il '70 nel Sud: certamente in Sicilia". Ora, certamente le prove che di sé aveva dato il nuovo Stato unitario nel Mezzogiorno non erano brillanti: dall'aumento della pressione fiscale alla sostituzione in blocco del personale amministrativo, dall'introduzione della leva obbligatoria alla liquidazione, in uno con gli ordini religiosi, della fitta rete di attività caritative in favore dei più poveri che questi gestivano, la politica della Destra storica si era contraddistinta per l'imposizione di una "modernizzazione forzata" ("dittatura senza egemonia", avrebbe detto Antonio Gramsci), che aveva prodotto nei territori meridionali un vasto malcontento. Il punto è che - come ha messo egregiamente in luce Giuseppe Carlo Marino nella sua recente Storia della mafia (un libro che raccomando alle lettrici e ai lettori de il manifesto) - a tirare le fila di questo malcontento e ad esercitare una concreta "direzione intellettuale e morale" sui ceti subalterni non era certo il Partito d'Azione: erano piuttosto i baroni, che - soprattutto in Sicilia - avevano strutturato nei confronti del potere centrale una fortissima avversione a seguito del "tradimento" delle attese di nuova legittimazione sorte dopo l'appoggio esplicito all'avventura garibaldina. La rivolta di Palermo del 1866, evocata da Francesco Ingrao nel proemio al suo pamphlet come coraggioso tentativo del popolo siciliano di "farsi giustizia colle proprie mani" (e contraddistinta, in effetti, dalla singolare confluenza sul medesimo fronte di garibaldini, mazziniani, crispini, socialisti, borbonici, clericali e aristocratici), non era stata altro - in realtà -, che una manifestazione dell'egemonia esercitata dai baroni nei confronti dei ceti subalterni, e in primo luogo di una borghesia allora in rapida quanto violenta ascesa. E' per questo che l'appassionato attacco del garibaldino Ingrao contro "l'ingerenza dello Stato" - "questo serpe maligno che ad ogni istante si affaccia a noi", si legge nell'antico (ma in questo, ahimè, sommamente moderno) libretto - doveva incontrare il favore dell'aristocrazia siciliana: un ceto da sempre abituato a gestire il proprio potere facendo a meno dello Stato, da sempre aduso a "contrattare" con quest'ultimo le forme e i limiti della sua potestà di regolazione e sempre pronto, comunque, a strumentalizzarlo a tutela di presunti interessi "siciliani", non poteva che salutare con favore misure come il "decentramento amministrativo, l'abolizione delle sotto-Prefetture e dei Tribunali correzionali, l'autonomia dei Comuni", che nel libretto figurano come "riforme utilissime" per le quali "la Sinistra" avrebbe dovuto meritare "il plauso della Democrazia e l'appoggio di tutti i partiti liberali". Né poteva essere preoccupato più di tanto per le proposte di ampliamento del suffragio popolare: ché da sempre la classe baronale siciliana aveva dato prova di saper utilizzare la forza paramilitare della mafia come strumento di controllo capillare del territorio, da impiegare ora in funzione anticentralista ora antipopolare, ora innalzando il vessillo del "sicilianismo" ora quello dell'ordine costituito. Non fu dunque un caso se, a metà degli anni Settanta dell'Ottocento, proprio mentre Francesco Ingrao dava alle stampe a Napoli la sua Bandiera degli elettori italiani, l'alleanza tra aristocrazia baronale e borghesia mafiosa confluì politicamente, in nome della "sicilianità" offesa, nelle file della Sinistra e il 14 marzo 1876 Agostino Depretis poté inaugurare la lunga stagione dei suoi governi contando su una maggioranza parlamentare in cui numerosa era la rappresentanza siciliana. Il fatto che - come ricorda Giuseppe Carlo Marino - fossero presenti, tra le file dei deputati della Sinistra, mafiosi del calibro di Raffaele Palizzolo (alcuni anni dopo implicato nell'omicidio di Emanuele Notarbartolo, tra i primi "cadaveri eccellenti" della violenza mafiosa) era soltanto la conseguenza di un assetto di potere che vedeva nuovamente legittimata la classe dirigente siciliana come "interlocutrice" del governo centrale nell'opera di "riparto" delle potestà sovrane. La quale classe dirigente, già gratificata nel 1875 dalle conclusioni della Commissione parlamentare Borsani (secondo la quale la mafia non era che un retaggio dei tempi borbonici, della quale i ceti benestanti erano stati povere vittime e che, comunque, stava scomparendo) e successivamente "sdebitatasi" con il governo centrale favorendo il prefetto Malusardi nella sua incredibilmente rapida opera di eliminazione del brigantaggio (nove mesi appena!), avrebbe presto stipulato con la borghesia industriale del Nord quel "matrimonio con regime di rigida separazione dei beni" (V. Castronovo) che tanta (negativa) parte avrebbe avuto sullo sviluppo successivo del nostro paese. Ovviamente, non si vuole qui chiamare Francesco Ingrao a rispondere personalmente di questa vicenda. Mi preme, piuttosto, sollecitare l'attenzione sul fenomeno più generale di cui il suo libretto è espressione: vale a dire, la concreta subordinazione degli intellettuali "progressisti" alle esigenze proprie del gruppo sociale che si riconosceva nei "moderati", subordinazione impietosamente messa in luce da Antonio Gramsci nella sua analisi del Risorgimento. Affinché il Partito d'Azione riuscisse "a imprimere al moto del Risorgimento un carattere più marcatamente popolare e democratico", osservava infatti Gramsci, avrebbe dovuto contrapporre alla strategia dei moderati "un programma organico di governo che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle classi popolari, in primo luogo dei contadini". Ma per far ciò, non erano sufficienti le (giuste) rivendicazioni in favore delle donne e dei fanciulli, che pure costituiscono la parte più vitale della Bandiera ingraiana: sarebbe stata necessaria un'analisi di classe della società italiana, che al Partito d'Azione mancava completamente (e Francesco Ingrao, come ammette onestamente l'illustre nipote, non faceva eccezione). E soprattutto, sarebbe stato necessario riconoscere - come non mancò di spiegare Leopoldo Franchetti nella sua monumentale inchiesta sulle condizioni politiche e amministrative della Sicilia, anch'essa pubblicata nel 1876 - che la mafia non era un fenomeno residuale, ma il prodotto specifico di una modernizzazione segnata dall'incapacità dello Stato di imporre l'autorità della legge sull'autorità "privata"; e che, senza l'affermazione del monopolio statuale della violenza, la borghesia in Sicilia avrebbe potuto affermarsi solo come "borghesia mafiosa". Se così è, altra mi pare, allora, essere l'attualità di questo libretto. Oggi che si manifesta una nuova e preoccupante subalternità alle istanze di una borghesia che da tempo ha esaurito la sua funzione rivoluzionaria, rileggere la Bandiera degli elettori italiani potrebbe servire, piuttosto, a evitare di commettere errori analoghi a quelli d'allora. Tanto più che il fatto che molti intellettuali progressisti abbiano impugnato l'insulsa bandiera del "federalismo" - in nome del quale si sta compiendo fondamentalmente (se non esclusivamente) lo smantellamento delle funzioni progressive dello Stato sociale - mi sembra l'indizio più chiaro di una preoccupante coazione a ripetere.