Corriere della Sera 06.10.2001
CAMILLERI Fiaba del popolano che divenne re
Esce il 12 ottobre il nuovo romanzo dello scrittore siciliano: ambientato
nel 1718 e ispirato a fatti e personaggi esistiti, è per alcuni
la sua «grande opera»
La vicenda di Zosimo come quella di Masaniello
Cinque parti per 25 capitoli e un intermezzo. Con titolazioni a scandire
la vicenda tra cronaca e fiaba coi suoi «Come fu che Zosimo venne
concepito», «diventò re» e infine «morì»
intercalati da «Cenni sulla infanzia e la giovinezza» e da
«Quello che capitò negli anni appresso». O flirtando
ambiguamente col romanzo storico, richiamandosi la vicenda a un fatto sì
realmente accaduto nell’Agrigentino tra Sei-Settecento, ma così
stemperato tra «omissioni, distrazioni, tergiversazioni» dagli
storici, da obbligare il narratore (per dirla con la sua Nota conclusiva
) a scrivere «una biografia tutta inventata». La biografia
del contadino Zosimo che, nel 1718, guida la folla agrigentina a sopraffare
la guarnigione sabauda, disarmare i nobili e giustiziare sommariamente
funzionari e guardie: venendone proclamato re. Per poco, ovviamente, al
pari di tutti i capipopolo alla Cola di Rienzo o Masaniello: per mancanza
di realistici programmi politici; ma non senza esser prima riuscito «a
regalare un sogno di dignità ai suoi affamati e scalcagnati sudditi.
Un sogno : che è il picco più avventuroso e rivoluzionario
della fantasia» (Nigro). Una vicenda in cui Camilleri s’imbatte casualmente
nel 1994, restandone «strammato». E scosso dall’assenza di
ulteriori notizie. Facendo da lì, del Re di Girgenti , il suo romanzo
segreto e ambizioso. Per dirla con Salvatore Silvano Nigro: quel «gran
romanzo, che tutti aspettavamo». O, come recita il suo risvolto di
copertina che si offre peraltro quale lucidissima pagina critico-interpretativa:
«una storia». Ma anche un «cunto». E «un
récit-poème, con il suo vibrato poetico». E lo è
soprattutto dal punto di vista stilistico. Per quella scrittura che s’appropria
della vicenda: fagocitandola nel suo andamento popolaresco e insieme fascinosamente
fantastico, che in poche battute o in un pensiero trasmigra dal realistico
al visionario, tocca il comico per trasferirsi al grottesco, sorride ma
non dimentica la pietas, si tratti di situazioni narrative o della ricca,
spesso stramba e pure spiritata quanto deliziosa umanità che popola
queste pagine, che finiscono così per dispiegarsi «tra le
miserie guittesche di Callot e i capricci di Goya; tra la sensualità
dei mistici del Siglo de oro e la ferinità degli istinti».
Son sempre parole di Nigro, che ha pure il merito di sottolineare le
carte su cui stilisticamente Camilleri ha viaggiato. Perché al di
là della trasversalità delle citazioni che al solito lo scrittore
siciliano distribuisce nei suoi testi (da poterne ricostruire biblioteca
e passioni), qui il riferimento ha un «mastro» preciso. Bartolomeo
di Iacovo da Valmontone, per dirla con l’identità che il compianto
Giuseppe Billanovich ha donato all’Anonimo Romano. E quella sua Cronica
trecentesca che narra del tribuno Cola di Rienzo il cui sogno repubblicano
svanisce, «occiso per lo puopolo de Roma crudamente». Una Cronica
dai tanti «come fu che…». E con una cifra linguistica romanesca
in cui, idealmente, e con esiti felici, ben si specchiano gli «azzardi»
siculo-spagnoli di Camilleri.
Ermanno Paccagnini