L'Espresso 01.11.2001
Scrittore, perché non parli?
Non fa più opinione. Non va più in televisione. Scrive poco per i giornali. Mentre escono due grandi opere sulla nostra letteratura, indagine su un mondo in piena crisi
Dibattiti / Dov'è finita la società letteraria
Esiste una regola non scritta. Quando si celebra troppo qualcosa, vuol dire che i conti non tornano. Nel caso dei romanzieri italiani questa regola non scritta ora è davanti agli occhi di tutti.
Di Roberto Cotroneo

Con un "uno-due" formidabile l'Einaudi e la Garzanti mandano in libreria, quasi contemporaneamente, due opere mastodontiche dedicate al romanzo italiano. Garzanti due volumoni sul Novecento della "Storia della letteratura italiana"; Einaudi il primo volume di una ambiziosa opera curata da Franco Moretti, fratello di Nanni, e italianista negli Stati Uniti. In tutto migliaia di pagine che dovrebbero fare il punto anche sul romanzo italiano dell'ultimo ventennio. Ma tutto questo impegno bibliografico e molto dotto non è troppo ricambiato. Perché mai come di questi tempi i romanzieri italiani si mostrano sfuggenti e poco incisivi, scarsamente riconoscibili e poco seguiti dal pubblico. Basta guardare classifiche di libri, giornali, programmi televisivi per capire che l'era di Moravia e Sciascia, Pasolini e Calvino è pressoché definitivamente sepolta. Così, se gli scrittori entrano facilmente nelle storie letterarie, non si può dire la stessa cosa per la cronaca di tutti i giorni. Ma cosa è accaduto? E perché gli scrittori non hanno più l'autorevolezza e la capacità di fare opinione almeno quanto gli scrittori dei decenni precedenti? Franco Cordelli, scrittore a sua volta, e critico scomodo, scuote la testa: «Fino alla morte di Moravia», ripete sconsolato, «una società letteraria esisteva. E gli scrittori erano anche intellettuali. Poi è finito tutto».
Vediamo di non stare nel vago (difetto principale degli intellettuali e degli scrittori). Cosa vuol dire che oggi gli scrittori non sono più intellettuali? Lo abbiamo chiesto a uno che di queste cose se ne intende. Edoardo Sanguineti, l'ultimo degli impegnati, critico, poeta, polemista, con un'idea forte del mondo e della letteratura. Sanguineti dice: «Vuole che le dica che questo è un risultato della fine delle ideologie? Bene glielo dico. Ma le dico un'altra cosa: che la fine delle ideologie è un'ideologia a sua volta. Con tutta una serie di regole. Quegli scrittori di cui lei parla avevano un pensiero forte, per questo funzionava. Oggi gli intellettuali sono altri: sono i presentatori, sono i giornalisti». Sarà vero che la fine delle ideologie è una ideologia a sua volta. Ma se questo si traduce in una letteratura sempre più intimista, sempre più staccata dalla realtà poi non ci si può lamentare che gli scrittori contano poco. Basti guardare cosa è accaduto dopo l'11 settembre. Dove il punto di vista degli scrittori, eccezion fatta per Oriana Fallaci e Umberto Eco, è stata poca cosa, in realtà. Antonio Tabucchi, di solito schivo e riservato, ha una teoria: «Ho l'impressione che un ruolo non ce l'abbiamo mai avuto. E lasciatemelo dire: credo che dipenda anche da una classe politica poco colta, che non ha capito quanto siano utili gli scrittori per capire in un modo diverso la realtà. Così ora gli scrittori sono scomparsi quasi da tutto: dai giornali, dalle trasmissioni televisive. E guardi che la colpa è anche di una sinistra superficiale e disattenta».
Per uno scrittore impegnato come Tabucchi l'affermazione è di quelle che fanno discutere. Anche la sinistra faccia autocritica. Ma anche gli scrittori dovrebbero interrogarsi di fronte alla loro incapacità di comunicare in un modo più moderno e sintetico, davanti al fatto che per anni si sono preoccupati di promuovere soltanto i loro libri (tenuti sotto il braccio) nei talk-show, oppure occupandosi esclusivamente delle recensioni ai propri romanzi. Per non dire dei premi, che con il tempo li hanno relegati a un teatrino di quart'ordine. Così il pubblico ha cominciato a vedere negli scrittori non tanto degli osservatori acuti e privilegiati della realtà, ma dei piazzisti delle proprie opere e del loro valore: «Si sta notando da parecchio tempo», dice Giulio Ferroni, storico della letteratura: «È proprio la comunicazione che difetta, la letteratura è stata emarginata. Il pubblico dei lettori si rivolge altrove. Ma fuori d'Italia le cose non vanno in questo modo». Le sconsolate parole di Ferroni vanno a completare un lungo capitolo che il critico ha scritto per la nuova "Storia della letteratura del Novecento" di Garzanti: il capitolo dedicato agli scrittori contemporanei. Uno sforzo quasi impossibile di trovare un nesso tra autori diversissimi, scollegati tra loro, senza unitarietà. Luigi Malerba ci scherza su: «Colpa del telefono. Prima ci si vedeva tutti. Poi abbiamo cominciato a telefonarci. Ma a parte le battute, è vero che mai come oggi gli scrittori incidono poco. E sa il perché? Perché il posto degli scrittori è stato preso dai giornalisti. Sono loro a fare gli opinionisti, e lo fanno bene. Gli scrittori si sono ritirati in un minimalismo spesso sterile».
O forse è semplicemente una casualità. Ci sono epoche più ricche di talenti, ed epoche meno fortunate. Uno scrittore che non ha mai rinunciato all'impegno civile, come Corrado Stajano, autore di libri come "Un eroe borghese" è più fatalista: «I grandi maestri non ci sono più», dice, «sono invecchiati. Tacciono. Se si pensa a chi era vivo, soltanto a Milano, negli anni Sessanta e Settanta: Montale, Mattioli, Quasimodo, Enzo Paci, Musatti, Dal Prà, Giò Ponti, Sergio Solmi, Paolo Grassi... Adesso tutto si è come ristretto, le persone si sono chiuse in case prive di ponti levatoi». Il solito "Cahier de doléance"? Ma è un grido di dolore che non tiene conto di molte cose: «Oggi un giovane ambizioso e brillante, per esprimere la propria creatività ha mille possibilità, rispetto a vent'anni fa», dice Malerba. E prendiamolo un giovane brillante. Niccolò Ammaniti, 35 anni, ottantamila copie vendute del suo libro sul tema dell'infanzia, tra il favolistico e l'horror, "Io non ho paura". Premio Viareggio. Dal suo ultimo libro trarrà un film Salvatores, con la sceneggiatura dello stesso Ammaniti: «I lettori forti», dice, «sono 30 o 40 mila. Il resto è una nebulosa indistinta. È vero che la narrativa non ha più la forza di un tempo, ma perché prevale esclusivamente l'aspetto commerciale. E poi oggi per i più giovani il cinema attira moltissimo».
Altro tasto dolente: l'aspetto commerciale. Negli ultimi dieci anni le classifiche dei libri più venduti si sono moltiplicate. Al punto che l'ultimo degli scrittori impegnati, Alberto Arbasino, chiese pubblicamente se per giudicare un ristorante si dovesse tener conto del numero dei coperti per sera. Ovvero: meglio il motel Agip che Gianfranco Vissani. Un paradosso che un tempo reggeva bene. Leggende raccontano che alla vecchia Einaudi grandi autori come la Ginzburg, la Morante, Primo Levi abbiano sempre fatto una certa fatica a capire quante copie vendessero dei propri romanzi. Non era così importante, snobisticamente. Oggi conta di più. Persino troppo. Non essendoci più un metro qualitativo di qualche attendibilità. Ma il mercato è il mercato. Basta chiederlo a Camilleri, scrittore amatissimo dalle élite intellettuali quando vendeva poco, in quanto raffinato e bravo, e bistrattato dal successo commerciale in poi.
Così non si capisce più se gli scrittori opinion leader sono quelli che vendono molto e parlano molto, oppure se hanno la meglio gli altri, quelli che non vendono e non si fanno vedere: «Abbiamo bisogno di allargare i confini letterari del nostro paese, di aprirci. Specie in questo momento, la letteratura è un collettore dell'immaginario umano. E gli scrittori non devono demordere», aggiunge Antonio Tabucchi. Ma non è facile, il grande nemico, per molti, anche qui, è la globalizzazione. Nel senso letterario. La narrativa straniera si è sovrapposta a quella italiana. Leggere traduzioni è del tutto identico che leggere libri scritti nella nostra lingua. Così è per i lettori di Ian McEwan, di Javier Marìas di Michel Houellebecq, di Tracy Chevalier, e poi Paul Auster, Saramago, Sépulveda e tanti altri: «Abbiamo una lingua minoritaria, che non capisce e legge quasi nessuno. E così abbiamo perso di centralità», dice Raffaele La Capria. Ma forse sarebbe meglio guardare ai nostri confini con più severità. Un giurato del Campiello che non vuole essere citato dichiara di non ricordare un solo libro delle cinquine degli ultimi anni. Mentre Anna Maria Rimoaldi, segretaria del premio Strega, si getta anima e corpo nella Fondazione Bellonci e nel lavoro di promozione della lettura nelle scuole, piuttosto che esprimersi su un premio romano che non porta più copie. «Hanno cominciato a premiare i romanzi che vendevano. Per scongiurare la crisi», dice Malerba, «ma c'è poco da resuscitare. Non è servito neppure questo».
Ma forse il più chiaro di tutti è Ammaniti: «Diciamolo, la letteratura ormai è subalterna al cinema. Si scrive per il cinema, si pensa in termini cinematografici. E via dicendo. Però debbo dire una cosa. "Io non ho paura" l'avevo pensato come un film, come una sceneggiatura. Poi mi sono accorto che solo attraverso il romanzo avrei potuto restituire quella complessità che voleva un tema così importante. E ho cambiato obbiettivo».
Ha ragione allora Tabucchi quando dice che «la letteratura non deve riflettere la realtà ma restituire lo stato d'animo di un'epoca». Oriana Fallaci lo ha fatto a proposito del terrorismo e della guerra. Non ha cercato di fare l'esperta di Islam. Ha solo scritto quello che sentiva. Anche Eco lo ha fatto, ognuno con punti di vista differenti. «Sì, ma noi pensiamo a Eco soprattutto come a un filosofo, prima che come a un romanziere, e la Fallaci è innanzitutto una giornalista», dice Sanguineti. E allora da questo problema non se ne viene a capo. I romanzi italiani li leggono in pochi. Le storie letterarie riempiono migliaia di pagine su una storia di assenti a cui pochi dànno credito. E il dibattito è aperto. Dopo l'11 settembre il mondo è cambiato, ripetono tutti, e ovunque. Succederà qualcosa anche nell'immobile mondo letterario?