Lettere dal futuro
(ovvero dall'Italia berlusconiana)
da la primavera
di MicroMega, n. -3, 26/04/2001
Il filosofo
Lucio Polsini e la nuova lotta alla mafia
Roma,
30 novembre 2001
Caro amico,
prometto che
non ti darò più notizie del tempo perché qui è
pioggia continua, allagamenti, frane, inondazioni, smottamenti, tracimazioni.
E’ trapelato che i metereologi delle televisioni e dei giornali sono stati
chiamati a rapporto dal Ministro dell'Informazione che prima li ha accusati
di remare contro, di fare disfattismo e alla fine ha preteso e ottenuto
che, al momento delle previsioni, ogni giorno venga detto che assai presto
tornerà il sereno. Come sottofondo obbligatorio sarà riesumata
una vecchia canzone fascista, «Adesso viene il bello». La costituzione
del «Comitato Unico per la lotta alla mafia», più brevemente
CU (ossia Comitato Unico), pare che sia destinata a slittare nel tempo.
Le ragioni sono
molteplici e, a dimostrazione del travaglio (bada bene, sto usando la «t»
minuscola) nel quale si dibattono i partiti oggi al potere a proposito
della questione mafia, basterà che ti citi qualcuno degli innumerevoli
saggi e articoli che sull'argomento sono stati pubblicati in questi giorni.
Ma prima voglio informarti della precisa posizione assunta dalla già
esistente Commissione parlamentare Antimafia, il cui Presidente ha dichiarato:
«Noi non vogliamo essere presi per il CU», intendendo con ciò
che regole ben precise devono differenziare la Commissione dal Comitato.
Altre vivaci
polemiche sono state suscitate dalla proposta di assumere nel CU, quali
consulenti tecnici, Riina, Bagarella e Brusca. Chi meglio di loro, in effetti,
può intendersi di mafia? La cosa pareva conclusa positivamente quando
alcuni deputati della maggioranza hanno fatto giustamente notare che i
nomi dei designati erano tutti di mafiosi della Sicilia occidentale, mentre
quelli della Sicilia orientale erano stati proditoriamente esclusi. Parzialità
evidente, perché sono note a tutti la statura e la forza della mafia
nelle province orientali. A questo punto, fatti i dovuti calcoli e dato
lo spettante ad ogni personalità di rilievo, i consulenti tecnici
risultavano essere 302. Troppi, francamente. La questione è ancora
in alto mare.
Ad elevare il
tono delle discussioni è stato un saggio del filosofo Lucio Polsini
il quale, com'è noto, viene in genere pagato per non essere pubblicato.
Il fatto che stavolta sia stato pubblicato e pagato indica l'eccezionalità
e l'importanza dello scritto. Polsini parte da una lunga premessa, documenti
alla mano. Egli scrive che nel Nuovo Dizionario siciliano-italiano
del Mortillaro (Palermo 1860), alla voce MAFIA si legge testualmente: «Voce
piemontese introdotta nel resto d'Italia ch'equivale a camorra» e
che della voce MAFIUSU vien data questa sola definizione: «Divoramonti».
Le cose si chiariscono maggiormente, continua il filosofo, se si va a consultare
un altro vocabolario, quello del Traina (Palermo 1868), dove il mafioso
viene detto sì «bravaccio», ma anche «sbarazzino»,
e soprattutto è definito con ben 7 termini elogiativi (buono, eccellente,
ardito, valente, baldo, bello, esperto) contro solo 3 negativi (sbracione,
tracotante, spocchioso).
Le argomentazioni
che il filosofo ci propone conseguono tutte, con ferrea logica, da questa
premessa. Anzitutto: se una parola nasce in un luogo vuol dire che il suo
seme è stato piantato in quel luogo e quindi la mafia è nata
in Piemonte e solo successivamente è stata esportata nell'Isola.
Perciò bisogna usare molta prudenza nel dire che solo i siciliani
sono mafiosi. L’altro punto del saggio verte sulla domanda: perché
alla parola mafioso si è voluta usare la violenza d'adoperarla solo
in senso negativo quando le definizioni positive erano in grandissima maggioranza?
E qui Polsini
si lancia in un lungo excursus sociopolitico, che ti risparmio, concludendo
che oggi come non mai è necessario un attento revisionismo sul fenomeno
mafioso.
A questo punto
sono scesi in campo (per usare un'espressione alla moda) due autorevoli
personaggi, un politico e un giornalista. Il politico è il Senatur,
il quale afferma in primo luogo che Polsini scopre l'acqua calda perché
lui, il Senatur, quando in tempi passati chiamava il Cavaliere il «mafioso
d'Arcore» già era a conoscenza del Dizionario del Traina
e quindi intendeva appunto definire il Cavaliere «buono, eccellente,
ardito, valente, baldo, bello ed esperto». In secondo luogo, sostiene
nel suo articolo il Senatur, nulla al mondo gli farà cambiare idea
sull'origine isolana della mafia e la sua constatata ereditarietà
e contagiosità da siciliano a siciliano. E’ proprio per questo,
rivela alla fine dell'articolo, che in armonia d'intenti col Governatore
Formiconi è stata avanzata la proposta di rimpatrio forzato di tutti
i siciliani residenti e operanti in Lombardia.
Il giornalista
si chiama Francesco Tordo, catanese, notista politico di uno fra i maggiori
quotidiani italiani. Il Tordo sostiene che la Sicilia e i siciliani sono
vittime di un pregiudizio creato dagli stessi scrittori siciliani e invoca
«una sorta di guerra di liberazione contro l'imperante, dilagante,
ossessivo cretinismo sicilianista». Perché, si domanda il
Tordo con ardito colpo d'ala, «un cittadino che vuole farsi i fatti
propri è omertoso, il vestito nero di una donna non è un
segnale sexy come a Parigi ma è un sospetto di lutto?».
Il Tordo ha
scritto parole sante, amico mio. I siciliani, che hanno cercato per anni
di farsi i fatti propri, negli ultimi tempi avevano cominciato a dirazzare.
Il richiamo del Tordo è quindi più che opportuno. E qui mi
onoro ricordare che chi denunziò gli assassini del giudice Livatino
era un continentale, noi siciliani non ci entriamo. In quanto alla faccenda
del vestito nero, una mia conoscente ottantenne, vedova, con la pensione
minima, alla quale è morto un figlio sul lavoro, ha provveduto a
ordinare un abito nero a Dolce&Gabbana perché per lei il lutto
non è un sospetto, ma una certezza.
E’ intervenuto
anche Dumonti, il Ministro delle Finanze, sottolineando il grosso rischio
economico che si corre sequestrando i capitali della mafia e rendendoli
improduttivi.
Infine, proprio
oggi è apparso uno scritto del Cavaliere che racconta la sua personale
esperienza con un mafioso, tale Mangano, da lui assunto come stalliere.
Ebbene, Mangano, a contatto quotidiano con gente onesta e rispettabile,
si stava avviando sulla strada della redenzione quando è intervenuta
la Procura di Palermo a guastare tutto. Perché non estendere l'esperimento?,
si domanda il Cavaliere. Se gli esponenti della maggioranza, che son tutti
uomini di buona volontà mentre i comunisti alimentano solo l'odio,
si mettessero in casa un mafioso, o due, quante vite potrebbero essere
risparmiate, quante anime rimesse sulla retta via?
Come vedi la
questione è molto dibattuta. Ti terrò informato.
Intanto ti abbraccia
il tuo
Andrea
Camilleri