Specchio (suppl. de La Stampa), 15.12.2001
Storie di Vigàta e dintorni
La guerra al medioevo

Ai primi di maggio la mia famiglia, compresi gli zii e alcuni “parenti stritti” (in genere, cugini in secondo grado), si trasferiva nella casina di campagna dei nonni. A questa casina, che era molto grande e sorgeva sopra una collinetta, si arrivava da una trazzera di due chilometri che a percorrerla si scoraggiavano persino le mule, era tutta fossi e pietroni. Dal suo terrazzo c'era una vista straordinaria: una foresta di olivi saraceni e in fondo il mare. Le case del paìsi, allora tutte allineate in una sottile striscia che confinava con la spiaggia, dalla casina non si vedevano. Naturalmente non c'erano né luce elettrica né acqua potabile. Alla mancanza di luce si sopperiva con cannìle e lumi a petrolio, per quanto riguardava l'acqua potabile due volte al giorno il nostro curatolo pigliava lo sceccu, l'asino, lo carricava di due grossi barili e andava a riempirli a una fontanella a mezza strata col paìsi. Lo sceccu, come tutti gli animali della sua razza, era pronto a sobbarcarsi a qualsiasi fatica, ma, e va' a sapiri pirchì, questa facenna del trasporto d'acqua non gli calava, non gli andava a genio e ogni volta si scatenava una vara e propria azzuffatina tra la vestia che sparava calci e il curato che le dava vastuniate e zottate. Per lavarsi invece non c'era problema: la sera si riempivano lanceddre quartare e bummoli da un pozzo d'acqua amara che nonno aveva fatto scavare allato all'alto muro di cinta del baglio della casina: la camurria era che lanceddre, quartare e bummoli dovevano portarli sulle spalle fino al primo piano i più giovani della famiglia, tra i quali c'ero anch'io. Nel 1940 Benito Mussolini ebbe l'alzata d'ingegno di dichiarare la guerra. Manco erano passate quarantotto ore che sentimmo, erano le tre di doppopranzo, un curioso rumore d'aeroplani. Curioso perché il rumore non era quello solito degli aerei italiani e tedeschi che passavano frequenti, no, questo era diverso, pareva più raschiante, come se i motori patissero d'asma. Pigliati di curiosità, ce ne
niscimmo tutti in terrazza a taliare. E in quel momento sonò l'allarme aereo. Le sirene le avevamo sentite spesso nell'ultima misata, ma si trattava sempre di esercitazioni. Stavolta invece ci facemmo pirsuasi che la cosa era vera. Ma gli aerei non si vidivano. Poi cominciarono a sparare le mitragliatrici dell'antiaerea e quella rumorata, allo stesso tempo, ci spavintò e ci rassicurò, era la prima volta che s'appresentava la guerra.
Ma a chi sparavano? A un tratto li vedemmo. Dalla nuvolaglia all'orizzonte sbucarono sei aeroplani, in formazione, che di colpo si sparpagliarono, furono sul paìsi, sentimmo il cupo scoppio delle bombe, vedemmo isarsi al cielo dense colonne di fumo. L'attacco degli aerei (erano francesi, lo sapemmo dopo) durò pochissimo. E sostanzialmente non fece vittime: della decina di bombe sganciate quasi tutte finirono in acqua nel porto anziché sulle navi. Solo tre caddero sulle case, donna Agatina Recupero morì d'infarto, tre o quattro feriti se la cavarono con qualche giornata di spitale. Ma lo scanto fu grande. Un due orate appresso, mia madre, ch'era sul terrazzo, si mise a fare voci: ci avvertì che una carovana stava salendo la trazzera. Andammo a taliare: una trentina di pirsone, alcuni con materassi e valigie sulle spalle, arrancavano tra pirtusa e massi, in mezzo a invocazioni a Dio e al pianto dei picciliddri. Via via che s'avvicinavano, principiammo a riconoscerli, erano tutti parenti “larghi” (cugini di terzo e quarto grado) i quali, convinti di una nuova, prossima incursione aerea, avevano deciso di rifugiarsi nella casina dei nonni. Vennero di prescia sgombrati tre magazzini e due dispense del pianoterra; altre due camere furono apprestate al primo piano dove abitavamo noi. A fare una mano a mia nonna c'erano abitualmente due cammarere, per l'occasione furono mobilitate macari la mogliere e la figlia del curatolo. Per quella sera tutti ebbero da mangiare e da dormire. I guai cominciarono la mattina del giorno appresso. Nella casina c'erano due gabinetti, uno al pianoterra e l'altro al piano di sopra. Quando mi svegliai e volli andare a gabinetto, trovai nel corridoio una lunga fila in attesa darrè alla porta chiusa. Un cugino spiegò:
“Dintra c'è u zù Colonnello”.
“S'è portato appresso sgabello, carta, pinna e calamaro. Malo segno”, aggiunse una cugina.
Lo zio (era chiamato così, ma era un parente largo), colonnello in pensione, era un sissantino inappuntabile, sempre col monocolo, sarà stato alto non più di un metro e mezzo. Era un poeta in preda a un'ispirazione che l'aggrediva irresistibilmente quando doveva andare al gabinetto. Vi si inserrava dintra e bonanotti ai sonatori. Avevano voglia gli altri a supplicare, a gridare il loro bisogno, ad aggredire la porta con pugni e con calci. Niente, oltre tutto qualche giorno avanti aveva comunicato d'aver messo mano al “carme” più impegnativo, quello che gli avrebbe dato gloria imperitura. S'intitolava: “Dio”. Allora, vista la mala parata, scesi al piano di sotto. Macari qua c'era la fila. Una fila, come dire, normale, calma, rassegnata, ma pur sempre fila. Ebbi una bella pinsata:
“Vado nella vigna”, dissi.
Tre o quattro màscoli mi seguirono, lo stesso fecero altri màscoli del piano di sopra. Da allora diventò un'abitudine e le viti quell'anno vennero su che era una cosa spettacolosa. Ogni tanto lo zio Colonnello m'agguantava per un braccio, mi spingeva in un angolo e mi spiava a voce vascia, da cospiratore:
“Secondo te, che differenza c'è tra vetusto e venusto?”.
Qualche tempo dopo, la Francia firmò l'armistizio e tutti ci facemmo pirsuasi, inspiegabilmente, che ogni pericolo era passato. I parenti larghi un giorno prepararono i bagagli e arrotolarono i materassi per tornarsene in paìsi: la carovana del rientro si sarebbe formata verso le sei del doppopranzo, quando la scattìa del sole era meno forte. Stavamo tutti in terrazza, in quel cechoviano silenzio che precede l'addio, quando il predetto silenzio venne incrinato da una lontana rumorata d'aerei che si avvicinavano.
“Saranno nostri”, disse un cugino largo.
“Però questo rumore non l'ho mai sentito”, affermò una cugina stritta.
“La sirena d'allarme non ha suonato”, fece deciso lo zio Colonnello. “I militari sanno quello che fanno. E quindi non c'è pericolo”.
In quel momento si scatenò il finimunno, Tutte le batterie contraeree, i cannoni, le mitragliatrici di bordo delle navi militari aprirono il fuoco.
Avemmo il tempo di contare una decina e passa di grossi aerei (inglesi, macari questo lo sapemmo dopo) prima di correre a rifugiarci in cantina. E stavolta il bombardamento fece danno, ci furono morti e feriti. In serata s'arrampicarono due nuovi ospiti., lo zio Ingegnere e la sua giovane mogliere la quale si era scantata assà e, dato ch'era incinta, doveva scansare le emozioni. Macari per loro venne trovata una cammaruzza. A cena, l'Ingegnere, taliando torno torno e vedendo le cannìle e i lumi a pitrolio murmuriò sdignato:
“Ma qui siamo ancora al medioevo! Vi porterò io la luce!”.
La mattinata appresso, mia nonna, ch'era fimmina di polso, pigliò in mano la situazione: diede turni precisi per l'uso della cucina, stabilì l'orario dei pasti (il tavolo da pranzo, per quanto enorme, non era più un grado di contenerci tutti quanti) e soprattutto proibì allo zio Colonnello di andare a gabinetto prima delle nove. A quell'ora i màscoli erano da tempo scesi in paìsi per il loro travaglio quotidiano e le fimmine già rimettevano in ordine le loro cammare. Lo zio Colonnello protestò, disse che, avendo il mattino l'oro in bocca, il meglio della sua ispirazione si manifestava tra le sette e le nove, dopo principiava la fase calante. Ma con nonna non ci fu verso e lo zio Colonnello prese ad aggirarsi sconsolato casa casa.
“Il carme ne risentirà”, murmuriava.
Dopo un para di jorni, lo zio Ingegnere cominciò la sua guerra personale contro il medioevo che si era evidentemente, macari lui!, fermato nella casina dei nonni. Un giorno arrivò con un camioncino e quattro scaricatori di porto disoccupati. Minacciando a ogni momento di rovesciarsi, il camioncino percorse la trazzera e si fermò sotto casa. Trasportava un'elica enorme a quattro pale che con molta difficoltà venne issata sul terrazzo. L'Ingegnere stette tutto il giorno a pigliare misure e a fare complicati calcoli, ogni tanto s'infilava l'indice in bocca e poi lo isava in aria per controllare da che parte veniva il vento. Il giorno appresso il camioncino trasportò un palo altissimo, i soliti scaricatori e due muratori. Il palo fu cementato in terrazzo, l'elica venne infilata in cima e il bello è che si mise subito a firriare macari se il vento era poco. Il giorno appresso ancora portò una quantità di accumulatori, fili, prese, lampadine, interruttori. L'Ingegnere ci travagliò una simanata intera ma, alla fine, la luce elettrica splendette nella casina sconfiggendo l'oscurità medioevale. Però le cose, in coscienza, non stavano così. Tutta la luce di cui ogni cammara poteva disporre consisteva in una lampadina che spandeva una luminosità pari a quella della lux perpetua nei loculi cimiteriali. Mio nonno non volle sentire ragioni, nella cammara di mangiari pretese che restassero lumi e cannìle che, al confronto della miserevole lampadina, facevano una luce che pareva di sole. La guerra dell'Ingegnere passò a una seconda fase. Riuscì a mettere una pompa elettrica nel pozzo d'acqua amara, l'acqua veniva convogliata in un grande cassone sistemato sul tetto e da lì andava nei lavandini. Usciva un filo sottilissimo e indeciso, perché il lavabo si riempisse di due dita bisognava aspettare un quarto d'ora. Ma tutti ne fummo orgogliosissimi, un altro duro colpo era stato inferto al medioevo.
Finché un giorno gli inglesi tornarono. Fu un brutto e lungo bombardamento, due aerei, colpiti, caddero in mare, cinque o sei case furono polverizzate. E stavolta gli aerei, invece di andarsene via mare, pigliarono la strada della campagna. Vale a dire che passarono bassissimi sulla nostra casina, una rumorata spaventosa. Dalla cantina li sentimmo, con sollievo, allontanarsi. Nel silenzio che seguì, avvertimmo un sinistro crepitio.
“Qualcosa ha pigliato foco, Vado a vedere”, disse uno zio e si susì allarmato per acchianare al piano di sopra.
A quel punto il Colonnello parlò, balbettando.
“Fe...fermati, non è fo...fo...foco. E' la din...din...dintera”.
Lo scanto gli faceva battere i denti. E la sua dentiera produceva questo rumore di una vampa di foco che sta pigliando. Stavamo tutti per risalire quando ci giunse nuovamente un motore d'aereo. Uno solo. Se fece più vicino poi, all'improvviso, sentimmo mitragliare la nostra casina.
Terrorizzati, ascoltammo vetri che si spaccavano, porte che si raprivano da sole, schegge che cadevano come pietrate da ogni parte. Poi l'incursione finì.
“Ma che vuole questo grannissimo cornuto?”, si spiò più tardi mio nonno taliando in danno al tetto, al terrazzo, alle finestre, alla facciata.
Quattro jorni appresso, gli inglesi tornarono. Fecero le stesse intifiche cose della volta precedente e poi se ne andarono passando sopra la casina.
“Vvvuoi...vvvedere che ma...macari sta...volta il cor...nuto...tototorna?”, spiò ad alta voce il Colonnello.
E infatti il cornuto (ormai lo chiamavamo familiarmente accussì il pilota inglese) tornò. E ci fece una bella sorpresa. Prima mitragliò il mitragliabile e dopo sganciò una bomba che aveva evidentemente sparagnato per noi. Ci parse a tutti che la casina si sollevasse e poi ricadesse a terra scricchiolando. Quando, giarni come morti e con le gambe di ricotta, risalimmo dalla cantina, ci accorgemmo che la bomba era fortunatamente caduta vicino casa facendo un grosso pirtuso nella vigna.
“Ma pirchì ce l'ha con noi questo cornuto?”, si rispiò perplesso mio nonno.
“Ora te lo spiego”, disse mio padre che quel giorno non era andato in ufficio perché aveva qualche linea di febbre.
Facemmo circolo attorno a lui.
“Vedete?”, continuò mio padre. “Il cornuto mitraglia verso una precisa direzione. E la bomba l'ha sganciata vicinissima al suo obiettivo”.
“E quale sarebbe?”, spiammo tutti assieme, come in un coro di tragedia greca.
In tono con l'intonazione tragica della nostra domanda, mio padre levò un braccio, tese l'indice, indicò l'elica che girava:
“Quella”, disse.
E ci spiegò che evidentemente il pilota, vedendolo, aveva pensato che nella nostra casina c'era qualche fabbrica, qualche officina militare e si era amminchiato a volerla distruggere.
Passammo una serata in discussioni drammatiche, l'Ingegnere non intendeva smantellare l'impianto del quale era orgoglioso e alcuni parenti erano con lui. Mia nonna decise di mettere la questione ai voti. Vinsero, con molto scarto, i favorevoli allo smantellamento. Il medioevo tornò nella casina dei nonni, in compenso però il pilota inglese non ci mitragliò e non ci bombardò più.

Andrea Camilleri