Ai primi di maggio la mia famiglia, compresi gli zii e alcuni “parenti
stritti” (in genere, cugini in secondo grado), si trasferiva nella casina
di campagna dei nonni. A questa casina, che era molto grande e sorgeva
sopra una collinetta, si arrivava da una trazzera di due chilometri che
a percorrerla si scoraggiavano persino le mule, era tutta fossi e pietroni.
Dal suo terrazzo c'era una vista straordinaria: una foresta di olivi saraceni
e in fondo il mare. Le case del paìsi, allora tutte allineate in
una sottile striscia che confinava con la spiaggia, dalla casina non si
vedevano. Naturalmente non c'erano né luce elettrica né acqua
potabile. Alla mancanza di luce si sopperiva con cannìle e lumi
a petrolio, per quanto riguardava l'acqua potabile due volte al giorno
il nostro curatolo pigliava lo sceccu, l'asino, lo carricava di due grossi
barili e andava a riempirli a una fontanella a mezza strata col paìsi.
Lo sceccu, come tutti gli animali della sua razza, era pronto a sobbarcarsi
a qualsiasi fatica, ma, e va' a sapiri pirchì, questa facenna del
trasporto d'acqua non gli calava, non gli andava a genio e ogni volta si
scatenava una vara e propria azzuffatina tra la vestia che sparava calci
e il curato che le dava vastuniate e zottate. Per lavarsi invece non c'era
problema: la sera si riempivano lanceddre quartare e bummoli da un pozzo
d'acqua amara che nonno aveva fatto scavare allato all'alto muro di cinta
del baglio della casina: la camurria era che lanceddre, quartare e bummoli
dovevano portarli sulle spalle fino al primo piano i più giovani
della famiglia, tra i quali c'ero anch'io. Nel 1940 Benito Mussolini ebbe
l'alzata d'ingegno di dichiarare la guerra. Manco erano passate quarantotto
ore che sentimmo, erano le tre di doppopranzo, un curioso rumore d'aeroplani.
Curioso perché il rumore non era quello solito degli aerei italiani
e tedeschi che passavano frequenti, no, questo era diverso, pareva più
raschiante, come se i motori patissero d'asma. Pigliati di curiosità,
ce ne
niscimmo tutti in terrazza a taliare. E in quel momento sonò
l'allarme aereo. Le sirene le avevamo sentite spesso nell'ultima misata,
ma si trattava sempre di esercitazioni. Stavolta invece ci facemmo pirsuasi
che la cosa era vera. Ma gli aerei non si vidivano. Poi cominciarono a
sparare le mitragliatrici dell'antiaerea e quella rumorata, allo stesso
tempo, ci spavintò e ci rassicurò, era la prima volta che
s'appresentava la guerra.
Ma a chi sparavano? A un tratto li vedemmo. Dalla nuvolaglia all'orizzonte
sbucarono sei aeroplani, in formazione, che di colpo si sparpagliarono,
furono sul paìsi, sentimmo il cupo scoppio delle bombe, vedemmo
isarsi al cielo dense colonne di fumo. L'attacco degli aerei (erano francesi,
lo sapemmo dopo) durò pochissimo. E sostanzialmente non fece vittime:
della decina di bombe sganciate quasi tutte finirono in acqua nel porto
anziché sulle navi. Solo tre caddero sulle case, donna Agatina Recupero
morì d'infarto, tre o quattro feriti se la cavarono con qualche
giornata di spitale. Ma lo scanto fu grande. Un due orate appresso, mia
madre, ch'era sul terrazzo, si mise a fare voci: ci avvertì che
una carovana stava salendo la trazzera. Andammo a taliare: una trentina
di pirsone, alcuni con materassi e valigie sulle spalle, arrancavano tra
pirtusa e massi, in mezzo a invocazioni a Dio e al pianto dei picciliddri.
Via via che s'avvicinavano, principiammo a riconoscerli, erano tutti parenti
“larghi” (cugini di terzo e quarto grado) i quali, convinti di una nuova,
prossima incursione aerea, avevano deciso di rifugiarsi nella casina dei
nonni. Vennero di prescia sgombrati tre magazzini e due dispense del pianoterra;
altre due camere furono apprestate al primo piano dove abitavamo noi. A
fare una mano a mia nonna c'erano abitualmente due cammarere, per l'occasione
furono mobilitate macari la mogliere e la figlia del curatolo. Per quella
sera tutti ebbero da mangiare e da dormire. I guai cominciarono la mattina
del giorno appresso. Nella casina c'erano due gabinetti, uno al pianoterra
e l'altro al piano di sopra. Quando mi svegliai e volli andare a gabinetto,
trovai nel corridoio una lunga fila in attesa darrè alla porta chiusa.
Un cugino spiegò:
“Dintra c'è u zù Colonnello”.
“S'è portato appresso sgabello, carta, pinna e calamaro. Malo
segno”, aggiunse una cugina.
Lo zio (era chiamato così, ma era un parente largo), colonnello
in pensione, era un sissantino inappuntabile, sempre col monocolo, sarà
stato alto non più di un metro e mezzo. Era un poeta in preda a
un'ispirazione che l'aggrediva irresistibilmente quando doveva andare al
gabinetto. Vi si inserrava dintra e bonanotti ai sonatori. Avevano voglia
gli altri a supplicare, a gridare il loro bisogno, ad aggredire la porta
con pugni e con calci. Niente, oltre tutto qualche giorno avanti aveva
comunicato d'aver messo mano al “carme” più impegnativo, quello
che gli avrebbe dato gloria imperitura. S'intitolava: “Dio”. Allora, vista
la mala parata, scesi al piano di sotto. Macari qua c'era la fila. Una
fila, come dire, normale, calma, rassegnata, ma pur sempre fila. Ebbi una
bella pinsata:
“Vado nella vigna”, dissi.
Tre o quattro màscoli mi seguirono, lo stesso fecero altri màscoli
del piano di sopra. Da allora diventò un'abitudine e le viti quell'anno
vennero su che era una cosa spettacolosa. Ogni tanto lo zio Colonnello
m'agguantava per un braccio, mi spingeva in un angolo e mi spiava a voce
vascia, da cospiratore:
“Secondo te, che differenza c'è tra vetusto e venusto?”.
Qualche tempo dopo, la Francia firmò l'armistizio e tutti ci
facemmo pirsuasi, inspiegabilmente, che ogni pericolo era passato. I parenti
larghi un giorno prepararono i bagagli e arrotolarono i materassi per tornarsene
in paìsi: la carovana del rientro si sarebbe formata verso le sei
del doppopranzo, quando la scattìa del sole era meno forte. Stavamo
tutti in terrazza, in quel cechoviano silenzio che precede l'addio, quando
il predetto silenzio venne incrinato da una lontana rumorata d'aerei che
si avvicinavano.
“Saranno nostri”, disse un cugino largo.
“Però questo rumore non l'ho mai sentito”, affermò una
cugina stritta.
“La sirena d'allarme non ha suonato”, fece deciso lo zio Colonnello.
“I militari sanno quello che fanno. E quindi non c'è pericolo”.
In quel momento si scatenò il finimunno, Tutte le batterie contraeree,
i cannoni, le mitragliatrici di bordo delle navi militari aprirono il fuoco.
Avemmo il tempo di contare una decina e passa di grossi aerei (inglesi,
macari questo lo sapemmo dopo) prima di correre a rifugiarci in cantina.
E stavolta il bombardamento fece danno, ci furono morti e feriti. In serata
s'arrampicarono due nuovi ospiti., lo zio Ingegnere e la sua giovane mogliere
la quale si era scantata assà e, dato ch'era incinta, doveva scansare
le emozioni. Macari per loro venne trovata una cammaruzza. A cena, l'Ingegnere,
taliando torno torno e vedendo le cannìle e i lumi a pitrolio murmuriò
sdignato:
“Ma qui siamo ancora al medioevo! Vi porterò io la luce!”.
La mattinata appresso, mia nonna, ch'era fimmina di polso, pigliò
in mano la situazione: diede turni precisi per l'uso della cucina, stabilì
l'orario dei pasti (il tavolo da pranzo, per quanto enorme, non era più
un grado di contenerci tutti quanti) e soprattutto proibì allo zio
Colonnello di andare a gabinetto prima delle nove. A quell'ora i màscoli
erano da tempo scesi in paìsi per il loro travaglio quotidiano e
le fimmine già rimettevano in ordine le loro cammare. Lo zio Colonnello
protestò, disse che, avendo il mattino l'oro in bocca, il meglio
della sua ispirazione si manifestava tra le sette e le nove, dopo principiava
la fase calante. Ma con nonna non ci fu verso e lo zio Colonnello prese
ad aggirarsi sconsolato casa casa.
“Il carme ne risentirà”, murmuriava.
Dopo un para di jorni, lo zio Ingegnere cominciò la sua guerra
personale contro il medioevo che si era evidentemente, macari lui!, fermato
nella casina dei nonni. Un giorno arrivò con un camioncino e quattro
scaricatori di porto disoccupati. Minacciando a ogni momento di rovesciarsi,
il camioncino percorse la trazzera e si fermò sotto casa. Trasportava
un'elica enorme a quattro pale che con molta difficoltà venne issata
sul terrazzo. L'Ingegnere stette tutto il giorno a pigliare misure e a
fare complicati calcoli, ogni tanto s'infilava l'indice in bocca e poi
lo isava in aria per controllare da che parte veniva il vento. Il giorno
appresso il camioncino trasportò un palo altissimo, i soliti scaricatori
e due muratori. Il palo fu cementato in terrazzo, l'elica venne infilata
in cima e il bello è che si mise subito a firriare macari se il
vento era poco. Il giorno appresso ancora portò una quantità
di accumulatori, fili, prese, lampadine, interruttori. L'Ingegnere ci travagliò
una simanata intera ma, alla fine, la luce elettrica splendette nella casina
sconfiggendo l'oscurità medioevale. Però le cose, in coscienza,
non stavano così. Tutta la luce di cui ogni cammara poteva disporre
consisteva in una lampadina che spandeva una luminosità pari a quella
della lux perpetua nei loculi cimiteriali. Mio nonno non volle sentire
ragioni, nella cammara di mangiari pretese che restassero lumi e cannìle
che, al confronto della miserevole lampadina, facevano una luce che pareva
di sole. La guerra dell'Ingegnere passò a una seconda fase. Riuscì
a mettere una pompa elettrica nel pozzo d'acqua amara, l'acqua veniva convogliata
in un grande cassone sistemato sul tetto e da lì andava nei lavandini.
Usciva un filo sottilissimo e indeciso, perché il lavabo si riempisse
di due dita bisognava aspettare un quarto d'ora. Ma tutti ne fummo orgogliosissimi,
un altro duro colpo era stato inferto al medioevo.
Finché un giorno gli inglesi tornarono. Fu un brutto e lungo
bombardamento, due aerei, colpiti, caddero in mare, cinque o sei case furono
polverizzate. E stavolta gli aerei, invece di andarsene via mare, pigliarono
la strada della campagna. Vale a dire che passarono bassissimi sulla nostra
casina, una rumorata spaventosa. Dalla cantina li sentimmo, con sollievo,
allontanarsi. Nel silenzio che seguì, avvertimmo un sinistro crepitio.
“Qualcosa ha pigliato foco, Vado a vedere”, disse uno zio e si susì
allarmato per acchianare al piano di sopra.
A quel punto il Colonnello parlò, balbettando.
“Fe...fermati, non è fo...fo...foco. E' la din...din...dintera”.
Lo scanto gli faceva battere i denti. E la sua dentiera produceva questo
rumore di una vampa di foco che sta pigliando. Stavamo tutti per risalire
quando ci giunse nuovamente un motore d'aereo. Uno solo. Se fece più
vicino poi, all'improvviso, sentimmo mitragliare la nostra casina.
Terrorizzati, ascoltammo vetri che si spaccavano, porte che si raprivano
da sole, schegge che cadevano come pietrate da ogni parte. Poi l'incursione
finì.
“Ma che vuole questo grannissimo cornuto?”, si spiò più
tardi mio nonno taliando in danno al tetto, al terrazzo, alle finestre,
alla facciata.
Quattro jorni appresso, gli inglesi tornarono. Fecero le stesse intifiche
cose della volta precedente e poi se ne andarono passando sopra la casina.
“Vvvuoi...vvvedere che ma...macari sta...volta il cor...nuto...tototorna?”,
spiò ad alta voce il Colonnello.
E infatti il cornuto (ormai lo chiamavamo familiarmente accussì
il pilota inglese) tornò. E ci fece una bella sorpresa. Prima mitragliò
il mitragliabile e dopo sganciò una bomba che aveva evidentemente
sparagnato per noi. Ci parse a tutti che la casina si sollevasse e poi
ricadesse a terra scricchiolando. Quando, giarni come morti e con le gambe
di ricotta, risalimmo dalla cantina, ci accorgemmo che la bomba era fortunatamente
caduta vicino casa facendo un grosso pirtuso nella vigna.
“Ma pirchì ce l'ha con noi questo cornuto?”, si rispiò
perplesso mio nonno.
“Ora te lo spiego”, disse mio padre che quel giorno non era andato
in ufficio perché aveva qualche linea di febbre.
Facemmo circolo attorno a lui.
“Vedete?”, continuò mio padre. “Il cornuto mitraglia verso una
precisa direzione. E la bomba l'ha sganciata vicinissima al suo obiettivo”.
“E quale sarebbe?”, spiammo tutti assieme, come in un coro di tragedia
greca.
In tono con l'intonazione tragica della nostra domanda, mio padre levò
un braccio, tese l'indice, indicò l'elica che girava:
“Quella”, disse.
E ci spiegò che evidentemente il pilota, vedendolo, aveva pensato
che nella nostra casina c'era qualche fabbrica, qualche officina militare
e si era amminchiato a volerla distruggere.
Passammo una serata in discussioni drammatiche, l'Ingegnere non intendeva
smantellare l'impianto del quale era orgoglioso e alcuni parenti erano
con lui. Mia nonna decise di mettere la questione ai voti. Vinsero, con
molto scarto, i favorevoli allo smantellamento. Il medioevo tornò
nella casina dei nonni, in compenso però il pilota inglese non ci
mitragliò e non ci bombardò più.
Andrea Camilleri