Il Venerdì di Repubblica, 5.1.2002
FAVARA. Benvenuti nella città più abusiva che c’è

Favara (Agrigento). Il fotografo chiede ai due operai che lavorano su uno dei tanti scheletri di cemento: ”Vi dispiace se faccio una foto?”. E da lassù, la risposta: ”Si ci dispiace”.
Non che gli abitanti di Favara siano scortesi, anzi. Solo non bisogna parlargli di edilizia e di politica.
Per esempio: se chiedi ad uno dei pensionati zolfatai, al circolo di piazza Cavour, come va con gli operai edili e come mai la sede della camera del lavoro è quasi sempre chiusa, lui risponde: ”che ci vuole fare? Ma se crede le posso cantare una canzone, la canzone dei zolfatai”. E canta a squarciagola.
Favara, 32 mila abitanti, è un’emula della Pentesilea di Calvino, la città che ha solo periferie: un folle agglomerato di sobborghi concentrati, nati tutti abusivi, immensa escrescenza sul piccolissimo corpo della vecchia città – unica non abusiva, un tempo forse bella – fatto di piazza, Chiesa Madre, castello (ex casino di caccia di Federico II) e una decina di palazzi nobiliari. Trentaduemila abitanti, ma case per 110 mila. In media quattro case per ogni famiglia. Come se in Italia ce ne fossero per 240 milioni di persone.
Case iniziate e non finite, quasi tutte senza intonaci, abitate parzialmente (mettiamo: il pianterreno, e sopra lo scheletro in attesa di figli e nipoti che non arriveranno mai).
Lo scrittore Andrea Camilleri, in un’intervista a Salvo Fallica sull’Unità, parlava di queste città tutte abusive, vicino Agrigento, dove vince il politico che promette sanatorie. Ribadisce: “Pensavo ad un piccolo centro vicino Selinunte: Ma era una metafora di tante realtà uguali nell’agrigentino”. Il Corriere della sera (Francesco Merlo) gli ha risposto sostenendo la tesi: se una città è tutta abusiva, allora non è più abusiva, e il candidato sindaco non può certo promettere che abbatterà le case degli elettori.
Favara, che è teoria colata in pratica, dice che il dibattito non è all’ordine del giorno: nessun sindaco si sognerebbe di abbattere alcunchè, qui per sua iniziativa. E non perché sarebbe un suicidio elettorale, ma perché dovrebbe abbattere anche le case dei parenti, degli amici, forse la sua medesima.
Questo è scontato, dai tempi in cui il primo cittadino di Favara era Gerlando Vita, geometra democristiano, il cui motto fu: “mura e futtitinne” (costruisci e non preoccuparti). D’altronde molti dei progetti li firmava lui.
Cosa c’è dentro queste case che formano un panorama tanto violento? I signori Giovanna e Gaspare Favana (proprio così, una n al posto della r) accettano, dopo molti tentativi andati a vuoto, di farci visitare una tipica casa favarese, la loro. E scopriamo che ciò che può lasciare increduli, raccontato, è la pura e generalizzata verità: la casa, a due piani, consta di un enorme garage a pianterreno, diviso in due stanzoni. In uno abita l’automobile dei signori Favana, nell’altro loro stessi.
C’è cucina (a bombola: a Favara non arriva ancora il metano), due letti coperti da una tenda improvvisata, un tavolo di lavoro (per lei: li sguscia i fagioli), una piccola falegnameria (per lui, nei momenti liberi dal lavoro “socialmente utile”). Visto che siamo forestieri, tuttavia, i padroni di casa ci portano a vedere la casa di sopra, che, invece, è pavimentata in marmo, con mobili in legno massello, cucina super attrezzata, due bagni, televisore gigante e una grande quantità di soprammobili e tappeti immacolati, fotografie e arredi di gusto borghese.
È una casa ideale, di rappresentanza, casa da mostrare. La vita vera scorre in garage.
Il povero signor Favara, che non ha avuto un’esistenza facile, tutto questo l’ha costruito negli anni, in gran parte lui stesso, investendo i soldi guadagnati all’estero (in Germania come diecimila compaesani). Ha comprato il terreno e ha fatto la casa. Come tutti. Non c’è fogna? “No ma c’è il pozzo nero e viene il camion del comune a spurgarlo…” Come dire: non è problema. La luce c’è, il gas è nella bombola, il telefono c’è. L’acqua è poca, ma questo vale per tutti. Possibile? Non è tutto abusivo?
“Basta aver presentato una domanda di condono”, spiega l’architetto Luigi Sferrazza, “che si ha diritto non solo a non avere abbattuta la casa, un rischio che non esiste, ma anche alle utenze e ai servizi comunali”. Come dire: le case non ci sarebbero, sulla carta, essendo non ancora condonate. Ma una dichiarazione che mai verrà presa in esame, in una pila di migliaia e migliaia, consente di vivere normalmente. Si paga pure l’Ici? “certo”, risponde il sindaco, professor Carmelo Vetro. 
“Qui si segue la strada del realismo. Le case ci sono, i servizi si danno e si dovrebbero pagare anche le tasse”. E le pagano? Su una previsione d’entrata di 2 miliardi e mezzo di ICI, 26 milioni: non male.
Essendo, la casa, il sogno (o l’incubo) d’ogni favarese, è capitato che se ne costruissero quattro volte più del necessario, pensando al futuro. Con scale grezze, esterni grezzi, nessun abbellimento esterno. Ma tante: a volte si è solo cominciato a costruire, per poter chiedere il condono (con Craxi nell’85 e con Berlusconi nell’94). “ Ma i giovani”, dice il sindaco che è professore e se ne intende, “qui non ci vogliono abitare, e comunque, non in quelle case. Hanno altri gusti, altri aspirazioni”.
E allora non si può abbattere il surplus? Il viso del sindaco si contrae, come avesse sentito una sconcezza.
“Non diciamo cose…” E lei che farebbe, allora? “cambieremo il look. Con intonaci, un piano del colore, un miglioramento dell’estetica insomma. E i servizi, che d’altronde abbiamo già portato quasi in tutta la città.
E poi punteremo sul turismo.
Quando ci fu il condono dell’85, per la verità, si era già tentato di migliorare il look. In tutta la Sicilia si presero professionisti, si finanziarono piani di riassetto, si assunse personale per redigere gli studi. I professionisti furono pagati centinaia di milioni, i piani non furono mai resi operativi, il personale assunto da subito fu usato per altri incarichi. E ora si ricomincia, con condoni regionali per l’edilizia sulla costa. Ogni volta “si prende atto” dell’esistente, con realismo.
Per chi viene da fuori c’è qualcosa che turba più del look. La casualità degli interventi ha portato anche una nevrastenia urbanistica. Può capitare di trovarsi un palazzo in un posto inconsueto, che ti spunta davanti alla macchina, con la strada che gli gira intorno. O salite senza fine, con esito nel nulla. E’ un look che agita, sottilmente inquieta.
“E infatti”, conferma l’architetto Sferrazza, “Favara è uno dei paesi che ha più tossicodipendenti, più marginali. Non c’è cinema, non c’è teatro, non c’è quasi niente. Ma dica lei, si può vivere nell’orrore e non essere contagiati”. Favara ha scuole in edifici abusivi, il servizio idrico in un palazzo abusivo mezzo costruito. Persino il municipio, se non abusivo, ha il modulo edilizio dell’abuso.
Ci sono stati giudici qui? E che facevano? “Ad un ex pretore competente per gli abusi edilizi” racconta Giuseppe Arnone di Legambiente, “ hanno dato la cittadinanza onoraria. Lui la esponeva in ufficio. Scrissi, in un libro, perché la aveva ottenuta. Ha tolto il quadretto dietro la scrivania”. Arnone sta ad Agrigento, ma ha trovato il look di Favara anche qui: “Una quarantina di ville di favaresi sul lungomare, costruite tutte con la licenza per opificio industriale. Le ho denunciate: ora sono sotto sequestro”.
A Favara i cittadini più illuminati si lamentano: “Voi venite qui, guardate le case e scrivete che siamo animali. Io già lo so che un altro articolo mi farà venire la bile”, dice una ragazza che lavora al consultorio familiare. La dottoressa Paola Vita (che ha intitolato il consultorio a George Sand) ribatte: “Bisogna dire le cose come stanno. Io giro per le case e la stragrande maggioranza è costruita secondo questa idea delirante: garage attrezzato dove si vive e casa di rappresentanza sopra. La prima volta che vado mi mandano su, a lavarmi le mani. Dalla seconda volta vado direttamente in garage, ormai la casa l’ho vista”. La colpa, dicono tutti, non è certo del cattivo gusto dei favaresi. Semmai di chi ha consentito che potessero esercitarlo liberamente (e anche di chi ha contribuito a creare quest’estetica, a far credere che una casa elegante deve essere come quelle d’Incantesimo). Generazioni di sindaci, di giudici, di carabinieri, di registi. E generazioni di mafiosi: Favara, città del cemento, è sede della metà delle aziende di costruzioni di tutta la provincia. Pulite? Risponde il sindaco: “Sono tante. Quindi c’è il pulito e il non”. In che percentuale? “Più il non”.
Ma non è questo il problema, non qui in paese: l’abusivismo di Favara è individuale, a suo modo onesto: è un’usanza colpevolmente consentita.
E, anno dopo anno, si osserva un fenomeno strano, che potrebbe stare in un racconto di Calvino: i favaresi le case abusive non le vedono più. La città abusiva ridiventa invisibile, come sarebbe teoricamente, sulla carta: non esiste. I favaresi si affacciano dalla balconata al seminario, da dove si vede la povera Chiesa Madre agonizzante, che affanna sopraffatta dal cemento, e dicono orgogliosi: “Bella Favara eh?”.
Attilio Giordano