Il
Tirreno, 7.5.2002
Il mistero della scrittura
Andrea Camilleri alla Scuola Normale parla dei suoi libri
PISA. Ci sono voci e voci, si sa. Possono distinguersi per timbro o
per registro, ma sono veramente rare quelle capaci di dimostrare quella
legge dell'armonia, che vuole che per ogni nota prodotta, ne vibrino all'unisono
delle altre, e riescano a farle risuonare chiaramente a chi ascolta.
E poi ci sono scritture e scritture. E anche questo si sa. A me la
voce di Andrea Camilleri, profonda, roca, vibrante, nella sala Bianchi
della prestigiosa Scuola Normale, ha fatto venire voglia di rileggere tutti
i suoi romanzi, per riascoltare tutte le note che sono stata capace di
percepire.
Bisognava proprio essere lì per avvertire tutta la sacralità
che aleggia intorno ad uno scrittore che racconta cosa sia il narrare e
lo faccia con quella leggerezza che raggiunge solo chi, faticosamente,
lotta ogni giorno con quello che per Vittorio Sereni è il «male
del reticolato».
La presenza di Camilleri, ospite di una delle conferenze che si tengono
al pomeriggio del venerdì alla Scuola Normale, non è fatto
nuovo e già questo costituisce un'eccezione come ha tenuto a precisare
Settis, che, presentandolo, ha sottolineato l'interesse che il suo precedente
intervento su Pirandello, aveva suscitato. Interlocutore brillante dello
scrittore siciliano è stato il filosofo Aldo Giorgio Gargani, che
ha saputo costruire stimolanti occasioni di dibattito individuando i motivi
pregnanti della scrittura di Camilleri.
Protagonisti: la narrazione e il mistero che ne è alla base.
Una sorta di evento inspiegabile «...perché chi racconta è
già predestinato alla scrittura - dice lo scrittore -. È
solo la paura di sottoporsi ad un giudizio che può bloccare, curvare
la curva del destino, ma non divaricarla, a meno di non allontanarsi da
se stessi».
E sulla dimensione oscillante tra realtà ed astrazione che caratterizza
i suoi racconti, ci spiega ancora Camilleri, che si tratta di un'abilità
che «si raggiunge solo con l'esercizio, la perdita delle remore,
con il coraggio che serve per andare avanti nella ricerca. Ma non sempre
c'è questo coraggio. Quando scrivi così, come nel finale
del Re di Girgenti, dove per indicare la presenza dei paesani che assitono
alla morte di Zosimo ne evochi il solo respiro, la comunicazione diventa
più difficile. Ma quello che si chiede a questo punto al lettore
è una sorta di plusvalore, di valore aggiunto, di sforzo così
come il centrometrista s'impegna per guadagnare faticosamente una frazione
di secondo che migliori il suo scatto».
E noi che l'abbiamo ascoltato ci sforzeremo di fare quello scatto.
Patrizia Di Giuseppe