«Mi piace trovarmi qui a parlare dei miei libri», esordisce
Andrea Camilleri nella sala Cosseddu dell'Ersu di Cagliari. Prima di partire
per Nuoro, ha davanti un programma intenso: pranzo alla mensa universitaria
e quindi l'incontro con gli studenti durante il quale, con Giuseppe Marci,
s'indaga «La Paura di Montalbano» e «Il re di Girgenti»,
ultimi libri pubblicati del commissario di Vigàta e dei romanzi
storici. Andrea Camilleri è alto, elegante e un po' stanco. Si anima
di un largo sorriso quando parla del suo lavoro, forse perché lo
scrittore è un uomo libero. «Rinuncio ormai per limiti anagrafici,
per stanchezza e noia agli incontri ai saloni, alle domande inutili. Tutto
quello che faccio è per puro piacere personale. Qui ho la sensazione
di essere tra persone che mi conoscono, non tra estranei». A chi
gli chiede di Sciascia risponde: «Più mi allontano da lui
come scrittore e più mi manca. Vorrei trovarmi a casa con lui e
parlare, che so, della giustizia oggi e certo bisognerebbe liberare il
tavolo da bicchieri, bottiglie... portaceneri», e quando qualcuno
rammenta la presunta incoerenza dello scrittore siciliano risponde «che
"Il giorno della civetta" è un romanzo civile, dove si parla correttamente
di mafia per come era la mafia all'epoca di Sciascia. Son dieci anni che
è morto». Quanto poi al rischio di nobilitare letterariamente
i boss mafiosi, Camilleri spiega che «con la mafia, in Sicilia le
corna ce le siamo rotti tutti, e continuiamo a rompercele. Ma Sciascia
pose sul tappeto un problema: quello delle regole del gioco».
E qui racconta un episodio noto, l'unica volta nella sua vita che ebbe
un incontro con un boss mafioso: tre ore chiusi a parlare in una stanza,
Camilleri aveva venticinque anni. Il boss gli spiegò le regole del
gioco: «Se io e voi ci troviamo in una strada, disarmati entrambi,
e io vi dico che vi dovete inginocchiare davanti a me, e vi spiego le ragioni
per cui è meglio che lo facciate. E voi però non lo fate.
Allora io vi devo ammazzare. Ma se vi ammazzo avrò perso la guerra».
«Sempre assassini sono stati - spiega Camilleri - ma voi pensate
che oggi si possa parlare? Prima si spara e poi si ragiona».
L'intervista vis à vis è un gioco di sovrapposizione
tra Andrea Camilleri e Salvo Montalbano, dove l'attualità cerca
ragioni nella cognizione del dolore del commissario tanto amato. Il breve
racconto «Un cappello pieno di pioggia» vede Montalbano spedito
d'ufficio dal Questore a Roma per presentare al Sottosegretario «un
sistema d'alleggerimento di certe pratiche burocratiche riguardanti l'immigrazione
clandestina». Il commissario parte malvolentieri, consapevole che
l'incontro politico sarà un fallimento. Infatti, «Montalbano
niscì dal colloquio con la certezza assoluta che era stata nuttata
persa e figlia fìmmina: quello restava fermo nella sua piniòne
che gli immigrati erano una specie di malattia infettiva dalla quale bisognava
quartiarsi».
- Come sta Montalbano? Ha il «core pisante» mentre passa
una legge sull'immigrazione che prende le impronte digitali agli extracomunitari?
«Montalbano ha tanti motivi di disagio in questi ultimi tempi.
E quindi sta facendo una sorta di grosso consuntivo della sua esistenza.
Non so se questo sfocerà in un romanzo, ma credo di sì, è
troppo legato alla realtà quotidiana per poter non intervenire,
anche su certi fatti della polizia, certe leggi, certe cose. Quindi è
in una situazione di serio disagio».
- Camilleri racconta la società vista da sud, la complessità
del meridione. Da "siciliano con un forte senso dello stato", come lei
ama definirsi, dove va l'Italia in questo momento?
«Mah! (fa una pausa, ndr) Oggi in Italia viviamo in una fase
di fortissima contrapposizione che crea, inevitabilmente, delle tensioni.
Le tensioni non sono i momenti migliori per una nazione. Uno stato va avanti
bene quando non ci sono forti contrapposizioni. Il problema vero italiano,
è che tutto quello che è capitato, è capitato in regime
di perfetta democrazia. Cioè a dire, ci troviamo di fronte a una
maggioranza di cittadini italiani che ha votato in un certo modo e una
minoranza di cittadini che hanno votato in un altro modo. Ora perché
c'è la tensione? Perché da parte della minoranza si pensa
che alcune regole del gioco democratico rischiano di essere modificate
dalla maggioranza. Tutto qua. Non è poco. Però se veramente
tutti abbassassimo i toni. Tutti, senza dire all'altro "abbassa i toni"
e tu non li abbassi, ma li abbassassimo tutti contemporaneamente, questo
darebbe luogo ad una possibilità di pacata discussione e pacata
riflessione. Andiamo a finire che le persone non capiscono più niente.
È come in quelle trasmissioni televisive, quando parlano tutti assieme
gridando, e tu, a casa tua, pigli e cambi canale, che se non altro ti vedi
un film e capisci quello che dicono. No?».
- Quest'Italia divisa si rispecchia anche nei suoi romanzi e nel suo
personaggio, che, per quanto defilato porta avanti le sue battaglie?
«Certo che si rispecchia in lui. Credo che Montalbano, dopo molte
riflessioni, sia riuscito a chiarire a se stesso prima di tutto che il
problema è quello della non generalizzazione dei fatti. Cioè
a dire, se qualche poliziotto sbaglia, eccede, non è la prima volta
che succede (altra pausa, ndr) e non sarà neanche l'ultima. Il problema
è che la cosa serenamente vada giudicata da chi di ragione, senza
che a priori ci sia un'alzata di scudi a favore. Prima conosciamo come
sono andati i fatti, vediamo. Faccio un esempio semplicissimo: il giorno
dopo l'avviso di garanzia ad alcuni poliziotti per Genova, parlo di pochi
giorni fa, c'è stato un eminente uomo politico italiano che ha detto:
"Però dall'altra parte non ci sono stati avvisi di garanzia". Il
giorno dopo sono arrivati anche per gli altri gli avvisi di garanzia. Ci
voleva tanto ad aspettare ventiquattro ore prima di mangiarsi - come si
dice dalle parti mie - cavalli e carretto e aizzare una situazione? Una
volta Leonardo Sciascia, rivolto a un suo amico, perfezionò un luogo
comune, dicendo "Ma perché non rifletti prima di pensare?". Ecco
io vorrei che tutti riflettessero prima di pensare».
- Lei adesso esce con un nuovo libro dedicato al teatro, che tanta
parte ha avuto nella sua vita. E nei suoi romanzi il teatro entra continuamente,
al punto che Montalbano riflette, con leggerezza, sull'impossibilità
del tragico a proposito di Amleto. Cosa metterebbe in scena, oggi?
«Non mi occupo di regia da anni, ma metterei in scena volentieri
"La vedova allegra". Non l'ho mai fatto e lo ritengo un capolavoro. Credo
che si possa mettere in scena come fece al cinema Erich Stroaim. Cioè
a dire che può essere anche una tragedia, sotto l'apparente leggerezza».
- Come altri rappresentanti della cultura, lei denuncia il rischio
di omologazione, lo spettro della censura, la cultura ridotta a spettacolo
deprimente. L'urlo degli intellettuali è "resistere". Come si fa?
«In un solo modo: facendo ciascuno seriamente il proprio lavoro,
che è la cosa migliore. Cioè a dire, io penso che se ognuno
non invadesse il campo dell'altro, minimamente, riacquisteremmo un senso
di dignità di ciascuno di noi, che comporta automaticamente il senso
della resistenza. È compreso nel prezzo, come si dice. Compri uno,
"dignità" e acquisti resistenza, rifiuto dell'omologazione, una
quantità di cose».
- Anche se poi è difficile in un momento in cui lei stesso è
costretto a spiegare una cosa elementare, e cioé che la Mondadori
trae profitti dai suoi libri.
«Purtroppo lo devo spiegare a chi in malafede lo dice. Non c'è
il minimo dubbio che è in malafede chi scrive, come è stato
scritto su "Libero", che "Berlusconi paga Camilleri". Berlusconi non mi
paga, paga i suoi giornalisti, i suoi funzionari. Io sono un signore che
riceve soldi, e molti, perché i lettori mi comprano, passano i soldi
dei libri alla Sellerio, alla Rizzoli o alla Mondadori e la Mondadori mi
dà il quindici per cento di quello che guadagna, la Rizzoli mi dà
il quindici e la Sellerio mi dà il dieci. Perché, poveraccia,
quella vende i libri a basso costo e quindi fa benissimo a darmi il dieci».
- Però lei l'ha lasciata, la Sellerio.
«Ma no, ci torno l'anno prossimo. Posso avere piccole infedeltà
coniugali ma il matrimonio, in sé, è un'altra cosa».
- È qui per il premio Deledda. Che ne dice di un Montalbano
in Sardegna?
«Montalbano in Sardegna non si farebbe trasferire neanche a cannonate.
Una volta essere trasferiti in Sardegna era una punizione».
- Sa, coi tempi che corrono...
«No. Non si farebbe trasferire perché i sardi sono così...
Per tanti punti simili e per tanti punti, così stellarmente diversi
dai siciliani che Montalbano si troverebbe completamente privo di codici
di riferimento. Mandiamolo da turista, in Sardegna».
Daniela Paba