"Ma Andrea, così chi ti legge?" si chiedeva Leonardo Sciascia
di fronte al pastiche siculo-italiano di Camilleri. Per l'autore del Giorno
della civetta, amante di una lingua nitidamente illuminista, le contaminazioni
di lungua e dialetto dell'autore del commissario Montalbano erano difficili
da digerire. Eppure, uno dei tratti più sconcertanti del caso Camilleri
è che, lungi dall'avere eretto un ostacolo, proprio quella miscela
linguistica è stata una delle ragioni del suo successo. Vale dunque
la pena cominciare proprio di qui, cercando di capire le ragioni di questa
singolare scrittura. A dispetto delle apparenze, direi che la linea Dossi-Gadda
non c'entra. L'intellettualismo espressionista annienta il mondo, mentre
il siciliano di Camilleri ne procura un affettuoso accesso alla pagina.
Sbaglierebbe chi sentisse le tessere dialettali come zuccherini o belletti.
Quel saporoso italiano regionale, continuamente interferito dal diletto,
è invece la vera lingua di Camilleri.
Forse il segreto del successo di Montalbano sta proprio qui: nell'avere
declinato il thriller nelle domestiche atmosfere della provincia italiana.
Si badi che nei suoi libri non si parla né di Catania, né
di Palermo, ma di una Sicilia inventata eppure realissima, fatta di piccoli
centri, per di più arretrando l'orologio narrativo a 30-40 anni
fa, in un'Italia premoderna, municipale, dove si parla come si mangia.
Ma dietro queste apparenze rassicuranti c'è un Camilleri che
destabilizza, sperimenta linguaggi, insomma uno scrittore che collega Pirandello
al postmoderno.
Franco Brevini