Se essere italiani significa... Antonio Tabucchi non vuol saperne, della
nazionale di calcio, perché non vuol saperne di un Paese che non
ha impedito la nascita di un partito che «utilizza impunemente»
l’invocazione popolare «Forza Italia». Così, in una
invettiva pubblicata ieri dall' Unità , l’autore di Sostiene Pereira
elenca tutte le ragioni per cui lascia volentieri «questa italianità»:
«Se essere italiani significa ingoiare la notizia che la pallottola
che ha ucciso Carlo Giuliani è stato un calcinaccio... Se essere
italiani significa indossare la bandiera a stelle e strisce… Se essere
italiani significa guadagnare miliardi per dare dei calci a un pallone...
Se essere italiani significa accettare che un signore che possiede il 90
per cento dell’informazione italiana, compresa la Rai...». E via
dicendo: se essere italiani significa tutto questo, «lascio questa
italianità a Voi». Compresa la sorte della nazionale di calcio.
Anche l’Italia del Trap, come l’Italia degli scrittori selezionata per
il Salone del Libro di Parigi, diventa un «caso politico»?
O meglio: se mai la nazionale dovesse vincere i Mondiali, sarebbe una vittoria
berlusconiana? Forse il dubbio comincia a insinuarsi tra gli intellettuali
di sinistra.
Ma se per Parigi, Andrea Camilleri, con Vincenzo Consolo, si schierò
accanto a Tabucchi, ora, in occasione del torneo nippo-coreano, il padre
del commissario Montalbano non esita a dissociarsi. E non certo perché
Camilleri sia un tifoso incondizionato. Anzi, ammette tranquillamente di
non aver acceso la televisione per guardare Italia-Messico. Ma perché,
dice, «quella di Tabucchi è una dichiarazione molto seria,
ma non c’entra niente con il fatto sportivo. E poi mi domando: se in passato
fossi stato un antisocialista, sentendo bussare alla porta, non avrei potuto
gridare ‘‘Avanti’’?». In fondo, poi, nel calcio anche l’Unità
(dei giocatori) fa la Forza.
Paolo Di Stefano