Considerato abitualmente - e del tutto a torto - un genere «minore»,
quello del romanzo poliziesco è viceversa uno dei filoni più
ricchi, originali e significativi della storia della letteratura. Sulla
tuttora prevalente valutazione limitativa, pesano alcuni pregiudizi assai
difficili da sradicare.
Anzitutto, l’idea che la narrativa «alta» non possa che
essere «seria», e dunque anche un po’ noiosa, mentre notoriamente
il racconto «giallo» è di lettura piacevole e coinvolgente.
E poi la convinzione che, a parte alcune pur rilevanti eccezioni (i soliti
citatissimi Edgar Allan Poe e Dashiell Hammett), i maggiori autori non
si siano cimentati con soggetti di questo tipo, preferendo tematiche più
impegnative.
In realtà, entrambe queste opinioni si rivelano assai poco fondate,
non soltanto perché da tempo si è capito che la «serietà»
di un testo (ma anche di un’opera cinematografica o teatrale) non si può
far dipendere dal coefficiente di noia che lo accompagna, ma anche perché
si è dovuto constatare che la costruzione di un intreccio basata
sull’enigma risale ben oltre la narrativa americana dell’Ottocento. Prova
ne sia, fra tutte, quello che resta l’archetipo tuttora insuperato (e probabilmente
ineguagliabile) del racconto giallo, vale a dire l’«Edipo re»
di Sofocle, talmente perfetto da far coincidere la figura del detective
con quella dell’assassino.
Assecondando questa linea di interpretazione, e dunque contribuendo
meritoriamente a riscattare questo genere letterario dalla subalternità
nella quale è tuttora prevalentemente tenuto, la rivista «MicroMega»
dedica interamente il numero che è da oggi in libreria al tema «Il
giallo e l’impegno».
[...]
Scorrendo l’indice del fascicolo, qualcuno potrà sorprendersi
per la scelta compiuta, dopo la martellante campagna che la rivista ha
compiuto nei numeri precedenti in difesa di alcuni diritti di cittadinanza
e in aspra polemica contro il governo Berlusconi. Magari si potrà
anche temere che la «normalizzazione», già in atto nei
programmi Rai e in molti altri settori, abbia finito per colpire anche
una fra le più forti e autorevoli voci di dissenso, quale è
appunto il bimestrale diretto da Paolo Flores d’Arcais.
Niente di tutto ciò. Confermando che l’intrattenimento intelligente
e l’impegno politico non sono affatto in contraddizione fra loro, i racconti
pubblicati riescono ad assortire con grande efficacia la suggestione di
un modo di raccontare suggestivo e a tratti anche spassoso, con un «sottofondo»
di critica politica graffiante, in qualche caso anche dura e intransigente,
nello stile, insomma, che ha reso ormai molto popolare la rivista e colui
che la dirige. Ne scaturisce un «Almanacco» di rara godibilità,
con alcuni «pezzi» di valore assoluto (Camilleri, Tabucchi
e Ravera, soprattutto), e più ancora con un profilo complessivo
di raro equilibrio fra la passione del «giallo» e la lucidità
dell’«impegno».
Insomma, un fascicolo nel quale la letteratura recupera appieno quel
carattere di «infinito intrattenimento» (per dirla con Maurice
Blanchot) e quella funzione sociale che sempre si è dimostrata capace
di resistere ad ogni forma di sopraffazione. Qualcosa che rievoca alla
mente le parole con le quali il poeta Femio, che pure era stato costretto
a cantare per i Proci traditori, riesce a placare la spietata vendetta
di Ulisse: «Avrai rimorso, dopo, se uccidi l’aedo che canta per gli
dei e per gli uomini».
Chissà che, nella stagione di resa dei conti che si preannuncia,
con l’obiettivo di «punire» giornalisti e intellettuali per
qualche ragione scomodi, anche i potenti di oggi tengano conto di questi
versi omerici.
Umberto Curi