Sarà capitato anche a voi (se posso rubare l'incipit di una vecchia
canzone) di entrare in una cartoleria dell'Italia settentrionale e di chiedere
incautamente una "carpetta". A me è andata così: il cartolaio,
che era un tipo arguto, mi ha detto, con un sorriso di acidula sufficienza,
che se volevo una piccola carpa dovevo andare dal pescivendolo. Al che
io ho ribattuto - con tutta la ferma fierezza di un insegnante di Italiano,
ancorché meridionale - che la carpetta era a buon diritto un articolo
di cartoleria, essendo una piccola cartella generalmente di cartoncino,
provvista o meno di lembi, e adibita di solito alla raccolta di documenti.
Gli ho spiegato poi (con risentita condiscendenza) che il termine, in uso
quasi esclusivamente nel Mezzogiorno, deriva dallo spagnolo carpeta, ed
è vocabolo assai più preciso di cartella, che invece potrebbe
dar luogo a qualche disguido. Ovviamente, il cartolaio non avrebbe fatto
lo spiritoso se non avesse perfettamente compreso quello che cercavo. Un
po' come certi inglesi che fanno finta di non capire gli stranieri (e perfino
quelli dotati di una formidabile arte mimica) che non pronunziano bene
la loro lingua.
D'altronde, anch'io non avevo alcuna intenzione di usare un termine
più generico solo perché nel Settentrione ne fanno a meno,
dato che esso è facilmente consultabile in alcuni dei più
diffusi dizionari della nostra lingua comune (ad esempio, il Garzanti).
Trovo anzi che certe nostre parole o alcuni modi di dire più appropriati
di quelli generalmente in uso nel resto del paese vadano caparbiamente
difesi e conservati. Carnezzeria, ad esempio, che a Palermo designa in
modo più corretto ciò che altrove meno adeguatamente si chiama
macelleria anche se gli animali non vi vengono macellati. Mi dispiace anche
che certe nostre espressioni a cui dovremmo essere affezionati cadano in
disuso per una sorta di conformismo burocratico. Il vecchio caro "scarrozzo",
che lasciava trapelare la reminiscenza di un mondo perduto in cui ancora
si viaggiava in carrozza, oggi è stato soppiantato da un asettico
"passo carrabile".
Se consultiamo il Grande Dizionario della Lingua Italiana della Utet
(opera monumentale avviata dal compianto grande linguista siciliano Salvatore
Battaglia) troviamo alla voce "scarrozzo" una citazione di A. Leone tratta
da "Lingua nostra" del 1977: «Espressioni come "andare con una macchina
seria"...o "lasciare libero lo scarrozzo" (cioè il passo carraio)
hanno un'estensione limitata, avendole io udite o lette rispettivamente
a Canicattini Bagni (Siracusa) e a Palermo».
In letteratura, il sapore locale, un certo sound folcloristico e pittoresco,
ha fatto la fortuna di alcuni scrittori particolarmente abili nel creare
dense atmosfere vernacolari. In una nota in appendice a Un filo di fumo,
in occasione della sua ristampa presso Sellerio, Andrea Camilleri ricordava
che nel 1980 il primo editore, Livio Garzanti, gli aveva chiesto un glossario:
«Comprendendo le sue taciute ragioni, principiai a compilarlo di
malavoglia; poi, a poco a poco ci pigliai gusto e me la scialai».
A suo dire, a diciassette anni di distanza dalla prima pubblicazione, il
dizionarietto era «diventato superfluo». Al contrario, quello
che prima era uno scrupolo di leggibilità e intelligibilità
s'era nel tempo trasformato nel corredo prammatico di un vero e proprio
genere. Nel glossario camilleriano troviamo parole come "basola" che sono
italianissime (il DevotoOli riporta le voci basolato, basolatore, basolo
o basola) o espressioni come "carico di undici" che sono del tutto accessibili
(se non condivise) a qualunque latitudine o longitudine da tutti i giocatori
di briscola. Incontriamo anche il termine "coffa" che pur venendo dall'arabo
quffa era arcaicamente usato anche fuori dalla Sicilia a indicare il corbello,
e poi è rimasto, con un modesto scarto semantico, nel gergo marinaresco.
Per non dire poi di aggettivi come "sciroccato" e "squieto" che sono comprensibilissimi,
al punto che bisogna fare uno sforzo per considerarli davvero termini dialettali.
Anche nell'ultimo toccante romanzo di Giosuè Calaciura, Sgobbo,
troviamo un piccolo glossario che probabilmente all'autore sarà
piaciuto poco o punto. Il curatore della Baldini & Castoldi ritiene
di dover spiegare parole come "appattare" che anche senza un particolare
talento filologico ogni lettore capisce bene derivare da patto. Quando
poi traduce "feto" con fetore, sfiora davvero la tautologia. E "impannarsi"?
Chi non deduce (pur senza essere velista o francesista) che si sta parlando
di qualcosa che si ferma, si guasta, non va in porto?
Passi per "annacare", che non tutti saprebbero ricavare dal desueto
naca (culla), il quale è peraltro un termine tipicamente meridionale
di origine greca. Passi, a limite, per "scorce", che somiglia moltissimo
a scorze, ma potrebbe proprio per eccesso di affinità sollevare
un dubbio sulla possibilità di essere un «falso amico».
Sorvoliamo su "pampine" che in Italiano è pampino (e in Toscana
pampano), cioè quasi la stessa parola. Non si può che insorgere
però alla voce "semenza", che è italiano della più
bell'acqua. E francamente spiegare "sgobbo", visto che comunemente usiamo
l'infinito sgobbare, è anche peggio del camilleriano appunto su
"travagliu" (che non solo richiede minime conoscenze del francese e dello
spagnolo, ma ci riporta pure scolasticamente a Leopardi e al probo Renzo
manzoniano).
Questi glossari servono a poco, proprio perché si ostinano a
rimarcare una diversità che sovente è fittizia. Talvolta
sembrano addirittura trattare il lettore come uno sciocco ("buttana" vuol
dire puttana: chi l'avrebbe mai immaginato?) o uno sprovveduto o un analfabeta
(Camilleri spiega "signo", con buona pace - oltre tutto - dell'arcinoto
sogno di Costantino, e "trigliole", che in un contesto culinario è
parola che non lascia adito a sospetti).
Camilleri e Calaciura bisogna invece goderseli (scialarseli) senza
troppe spiegazioni. Perché la scuola ci ha insegnato almeno questo:
che le note a piè di pagina spesso uccidono il piacere della lettura.
Marcello Benfante