Nel giro di tre anni, il siciliano Domenico Cacopardo (classe 1936)
si è fatto notare come uno dei nostri migliori giallisti: specialmente
con il libro d’esordio, “Il caso Chillè” (1999).
Di Cacopardo, che ci è capitato di definire l’anti-Camilleri,
per la sua propensione verso una prosa scarna, priva del minimo narcisismo,
colpisce l’organizzazione compulsiva delle pagine per frasette brevi, con
continui a capo; solo di rado intervallate da un periodare più continuo
(ma mai più complesso). Un tipo di prosa burocratica, notarile;
un procedere narrativo sapientemente fondato sulla continua atonìa:
il contrario, insomma, di una prosa ritmata e colorita, fatta di accenti
forti e deboli.
L’effetto è assicurato: si allontana al massimo l’eventualità
che il narratore traspaia dietro i fatti narrati; né, in alternativa,
chi scrive si propone di caricare di un’esplicitezza emotiva, soccorsa
dalla ritmazione del periodo, i fatti stessi; come, ad esempio, accade
nel Verga.
E’ la distanza, sino alla soglia dell’ostentata indifferenza, lo stigma
originale del narratore. Figura di una disillusa percezione della vita,
oscura nelle sue vere radici (né è da sottovalutare, anche
se largamente metamorfico, un certo pirandellismo di fondo da parte di
Cacopardo). Così nei suoi gialli, come in questo recente “Giacarandà”,
romanzo storico ambientato nella Sicilia borbonica durante il biennio 1747-1748.
Mentre si dovrà notare – ironia della sorte – che ancora una volta,
se pur mutato genere, occorrerà parlare di anti-Camilleri: tanto
è prosciugato e tutto in levare, anche qui, lo stile di Cacopardo,
a fronte dell’esuberanza anche troppo vitale, e magari anche un po’ troppo
compiaciuta di sè, del Camilleri provatosi (non felicemente) nel
romanzo storico, anch’esso settecentesco, con “Il re di Girgenti”.
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Giovanni Pacchiano