DICE di essere «emozionato», ma non lo sembra affatto. Più
che altro appare sornionamente contento. Perché una Laurea honoris
causa in Lingua e letterature straniere è qualcosa di cui essere
decisamente fieri. Andrea Camilleri l´ha ricevuta ieri allo Iulm
di Milano che proprio in questi giorni ha modificato la titolazione della
sua Facoltà in Lingue, letterature e culture moderne, per cui lo
scrittore siciliano, come ha sottolineato il rettore Giovanni Puglisi «è
moralmente il primo laureato». Ha scelto una lectio dottoralis intitolata
«Girando intorno a Babele», per parlare di lingue. Inizia con
una citazione biblica (Genesi 11. 1. 9), ma si allontana subito dalla maledizione
divina, da quel momento di rottura in cui si è frantumata l´unità
per analizzare l´importanza della parola, in qualsiasi idioma. Sottolinea
che spesso nemmeno parlare la stessa lingua facilita la comprensione: «All´Onu
si esprimono tutti convenzionalmente in inglese, ma non sono riusciti a
dare nemmeno una definizione di terrorismo». Lui per primo deve rispondere
a domande sul suo utilizzo della lingua, in bilico tra dialetto e italiano.
Le ascolta e quando sembra che stia per partire con una lunga spiegazione
si blocca su un aneddoto che lo fa tutt´ora sorridere. «Una
volta stavo su un treno in uno scompartimento con una coppia. Lui era un
piemontese doc, con una faccia da Macario e stava leggendo un libro di
Bruno Vespa. Lei ne leggeva uno mio, io l´avevo proprio di fianco
ed era difficile fissarla per capire se trapelava qualche sorta di gradimento
dalla sua espressione. Dopo un po´ lui alza la testa e le dice secco:
"Non so come fai a leggere quella roba, come la capisci?" e lei imperturbabile
spiega che semplicemente la faceva ridere, bastava farsi trascinare dalla
storia. Proprio prima di scendere ho detto loro che ero l´autore,
lui è sbiancato, lei mi ha rincorso per avere l´autografo
e "far arrabbiare ancora di più mio marito". Io cerco di facilitare,
se uso termini siciliani, li faccio intuire quando non li spiego esplicitamente».
Si sofferma su una parola specifica, «tampasiare» che già
suona dolce, e in effetti corrisponde a un´occupazione molto piacevole
come spiega Camilleri: «Quel pigro svegliarsi tardi la mattina, girare
per casa in disordine dedicarsi a fondamentali attività come raddrizzare
un quadro, fissare una cartolina senza leggerne il contenuto...».
Una delizia e si capisce dal suo sguardo, forse altri autori si preoccuperebbero
che tutto questo sottotesto si perdesse nelle moltissime traduzioni (in
tutte le Nazioni tranne Russia, Cina e Paesi Arabi), ma lui allarga le
braccia e spiega che «dipende dai traduttori e a un certo punto bisogna
anche fidarsi. Alcuni scelgono a loro volta parole dialettali, come quelli
francesi, altri prima riportano tutto in italiano e poi passano alla loro
lingua. Molti mi inondano di fax per sottopormi le loro perplessità
e a me fa piacere, significa che sono scrupolosi». Riceve questa
prestigiosa Laurea in una città che non ha mai usato nei suoi romanzi,
ma dove ha vissuto a lungo: «Lavoravo qui come regista Rai, in corso
Sempione, ho avuto grandissimi amici milanesi. Anche il mio "amigo de l´alma"
stava in questa città, Flaminio Bollini, regista pure lui. Qui ci
sono due dei miei editori e mia moglie ha vissuto qui per 20 anni. Più
di così». Poi, inevitabili, arrivano le domande su Montalbano,
il futuro, gli amori, persino la tenuta del commissario più popolare
d´Italia, ma anche stavolta Andrea Camilleri se la ghigna: «Non
saprei, il suo papà ha 77 anni suonati io mi chiedo chi si stancherà
per primo». Sette milioni di copie vendute in Italia, libri come
«L´odore della notte» che hanno toccato le 525 mila copie
(per non parlare di «Gli arancini di Montalbano» che con le
diverse edizioni ha fatto ben 800 mila copie). Numeri che incoraggiano
la definizione di «padre del bestseller italiano» e che lui
maneggia a memoria, preciso e tranquillo, come fossero solo cifre e non
la dimensione di un successo di cui ricorda le origini. «Noi che
amiamo il genere giallo dobbiamo molto ad autori milanesi come De Angelis
e Scerbanenco. Loro per primi hanno ambientato assassini in città
reali, da noi a quei tempi non si parlava di grandi delitti. Parevano eccessivi.
Livio Garzanti che pure guadagnava molto sui titoli di Scerbanenco, evitava
di incontrarlo e diceva "Io non so cosa passi per la testa di quello lì".
Loro ci diedero coraggio. Però io non ambienterò mai un libro
a Milano, non la conosco nel modo che serve per tirane fuori il sapore».
Giulia Zonca