La Stampa, 16.10.2002
Lo Iulm laurea Camilleri. Ma il suo commissario non arriverà mai a Milano

DICE di essere «emozionato», ma non lo sembra affatto. Più che altro appare sornionamente contento. Perché una Laurea honoris causa in Lingua e letterature straniere è qualcosa di cui essere decisamente fieri. Andrea Camilleri l´ha ricevuta ieri allo Iulm di Milano che proprio in questi giorni ha modificato la titolazione della sua Facoltà in Lingue, letterature e culture moderne, per cui lo scrittore siciliano, come ha sottolineato il rettore Giovanni Puglisi «è moralmente il primo laureato». Ha scelto una lectio dottoralis intitolata «Girando intorno a Babele», per parlare di lingue. Inizia con una citazione biblica (Genesi 11. 1. 9), ma si allontana subito dalla maledizione divina, da quel momento di rottura in cui si è frantumata l´unità per analizzare l´importanza della parola, in qualsiasi idioma. Sottolinea che spesso nemmeno parlare la stessa lingua facilita la comprensione: «All´Onu si esprimono tutti convenzionalmente in inglese, ma non sono riusciti a dare nemmeno una definizione di terrorismo». Lui per primo deve rispondere a domande sul suo utilizzo della lingua, in bilico tra dialetto e italiano. Le ascolta e quando sembra che stia per partire con una lunga spiegazione si blocca su un aneddoto che lo fa tutt´ora sorridere. «Una volta stavo su un treno in uno scompartimento con una coppia. Lui era un piemontese doc, con una faccia da Macario e stava leggendo un libro di Bruno Vespa. Lei ne leggeva uno mio, io l´avevo proprio di fianco ed era difficile fissarla per capire se trapelava qualche sorta di gradimento dalla sua espressione. Dopo un po´ lui alza la testa e le dice secco: "Non so come fai a leggere quella roba, come la capisci?" e lei imperturbabile spiega che semplicemente la faceva ridere, bastava farsi trascinare dalla storia. Proprio prima di scendere ho detto loro che ero l´autore, lui è sbiancato, lei mi ha rincorso per avere l´autografo e "far arrabbiare ancora di più mio marito". Io cerco di facilitare, se uso termini siciliani, li faccio intuire quando non li spiego esplicitamente». Si sofferma su una parola specifica, «tampasiare» che già suona dolce, e in effetti corrisponde a un´occupazione molto piacevole come spiega Camilleri: «Quel pigro svegliarsi tardi la mattina, girare per casa in disordine dedicarsi a fondamentali attività come raddrizzare un quadro, fissare una cartolina senza leggerne il contenuto...». Una delizia e si capisce dal suo sguardo, forse altri autori si preoccuperebbero che tutto questo sottotesto si perdesse nelle moltissime traduzioni (in tutte le Nazioni tranne Russia, Cina e Paesi Arabi), ma lui allarga le braccia e spiega che «dipende dai traduttori e a un certo punto bisogna anche fidarsi. Alcuni scelgono a loro volta parole dialettali, come quelli francesi, altri prima riportano tutto in italiano e poi passano alla loro lingua. Molti mi inondano di fax per sottopormi le loro perplessità e a me fa piacere, significa che sono scrupolosi». Riceve questa prestigiosa Laurea in una città che non ha mai usato nei suoi romanzi, ma dove ha vissuto a lungo: «Lavoravo qui come regista Rai, in corso Sempione, ho avuto grandissimi amici milanesi. Anche il mio "amigo de l´alma" stava in questa città, Flaminio Bollini, regista pure lui. Qui ci sono due dei miei editori e mia moglie ha vissuto qui per 20 anni. Più di così». Poi, inevitabili, arrivano le domande su Montalbano, il futuro, gli amori, persino la tenuta del commissario più popolare d´Italia, ma anche stavolta Andrea Camilleri se la ghigna: «Non saprei, il suo papà ha 77 anni suonati io mi chiedo chi si stancherà per primo». Sette milioni di copie vendute in Italia, libri come «L´odore della notte» che hanno toccato le 525 mila copie (per non parlare di «Gli arancini di Montalbano» che con le diverse edizioni ha fatto ben 800 mila copie). Numeri che incoraggiano la definizione di «padre del bestseller italiano» e che lui maneggia a memoria, preciso e tranquillo, come fossero solo cifre e non la dimensione di un successo di cui ricorda le origini. «Noi che amiamo il genere giallo dobbiamo molto ad autori milanesi come De Angelis e Scerbanenco. Loro per primi hanno ambientato assassini in città reali, da noi a quei tempi non si parlava di grandi delitti. Parevano eccessivi. Livio Garzanti che pure guadagnava molto sui titoli di Scerbanenco, evitava di incontrarlo e diceva "Io non so cosa passi per la testa di quello lì". Loro ci diedero coraggio. Però io non ambienterò mai un libro a Milano, non la conosco nel modo che serve per tirane fuori il sapore».
Giulia Zonca