Giura che no, la notte non lo sogna mai, anzi non si sogna mai Montalbano.
Ma se interrogato sul suo commissario preferito, Zingaretti lo schivo non
riesce a nascondere un'espressione sognante per descrivere la maschia passione
che nutre per Salvo Montalbano. Un vero alter ego, anche se l'attore ci
tiene a spiegare che vabbé la schizofrenia degli attori, ma insomma,
siamo dei professionisti, sappiamo dove finisce l'uno e inizia l'altro...
Resta il fatto che lui è veramente il commissario. Uno fatto un
po' all’antica come lui, uomo d'onore che si farebbe ammazzare per mantenere
la parola data, così orgoglioso che se «si incorna a fare
una cosa, non ci sono santi», così irascibile da praticare
l’«umore nivuro» e la rabbia che ne scaturisce come una delle
belle arti, così nettamente coniugato al maschile da provare un
senso di vertigine quando sente «odore di fimmina e di letto».
Pensare che, fosse stato per i suoi amici, Luca Zingaretti non sarebbe
mai diventato Salvo Montalbano. «Appena seppero che il ruolo sarebbe
stato mio, mi hanno tempestato di telefonate, accorate fino all'insulto:
"Non oserai dire di sì. Ce lo rovini"».
Incurante degli appelli («però con amici così stai
tranquillo, non hai bisogno di nemici»), Luca Zingaretti è
andato dritto per la strada su cui si era incaponito: diventare il commissario
Montalbano. Personaggio incontrato, per caso, tra gli scaffali di una libreria,
perché l’autore, Andrea Camilleri, era stato anni prima suo professore
all'Accademia di arte drammatica. «L’ho comprato come si comprano
le cose degli amici: per affetto e simpatia. E con quello stato d'animo
l'ho letto». Altro che simpatia, amore a prima vista è stato.
«Sono rimasto fulminato, volevo comprare i diritti. Ero certo di
poter essere lui. Poi ho saputo che li aveva presi Carlo Degli Esposti
per la Palomar, e mi sono autocandidato». Ma già loro avevano
pensato a lui. Vedendolo in una Piovra qualcuno aveva suggerito: «Guardate
quel cattivo, ha gli occhi buoni».
Essere o non essere Salvo Montalbano, dunque, è un dilemma che
mai ha toccato Zingaretti. Neanche quando i giornali titolavano «Zingaretti
dice addio a Montalbano», solo perché lui stava prendendosi
il tempo di leggere le nuove sceneggiature («Ma perché poi
non avrei più dovuto farlo? Anthony Hopkìns, il più
grande attore vivente, ha forse avuto paura di rifare per la terza volta
Hannibal? Lui sarà per sempre Hannibal, anche lo avesse fatto una
volta sola»). Con i quattro nuovi episodi che Raiuno manderà
in onda a partire da lunedì prossimo, gli incontri Zingaretti-Montalbano
toccheranno quota dieci (per la cronaca, George Clooney è stato
il dottor Ross per quasi cinque stagioni di E.R e nessuno si è scandalizzato).
Ogni volta l’attore con gli altri 50 della troupe ha passato dieci settimane
in Sicilia, con base a Marina di Ragusa. E in quei tre mesi diventa più
difficile capire dove finisce Montalbano e dove inizia Zingaretti. «Vivendo
lì, mi sembra di essere veramente Montalbano che cammina per la
strada, che va a fare la spesa. Certo mi chiamano Luca, sono io, ma è
come se fossi lui. Saluto tutti, tutti mi salutano: sanno chi sono. È
una strana sensazione, piacevole: come se mi vedessi in un'altra vita».
Si ferma, ci pensa un po’ su. «Oddio, spero che non capiti solo a
me, ma ogni tanto mi succede di camminare per la strada e pensare di essere
un altro. Oppure di immaginarmi a Parigi e comportami come se ci fossi
veramente. Ecco, io quando vado a fare la spesa a Marina di Ragusa sento
di essere Montalbano».
Non è stato sempre facile per il romano Zingaretti muoversi
in Sicilia. «Ho avuto un rapporto diffìcile con questa terra.
Subito ne ho percepito la violenza, non tanto quella reale, ma quella della
natura, gli odori, le luci. Poi anni fa successe un fatto tragico: ammazzarono
due miei amici, un regista e un attore, un delitto pasoliniano, massacrati
di botte su una spiaggia. Per un periodo non ci sono più andato,
sono tornato per lavoro, con lo Stabile di Catania, poi per una Piovra
». Ora è diventato un po' siciliano anche lui. «Girare
lì è fondamentale: acquisto un altro ritmo interiore, che
non è la lentezza. È come quando chiudi un libro di Montalbano:
ti resta il sorriso sulle labbra per mezz'ora, quel sapore di capperi,
basilico, origano, quel retrogusto di mare». Qualcosa che i lettori
del commissario di Vigàta conoscono bene. «I fan di Montalbano,
loro sono peggio dei talebani. Se sgarri sei finito. Lo dissi al regista
Alberto Sironi: dobbiamo restituire l'anima». Non è stata,
dice, la sola difficoltà. «Quando metti in scena un personaggio
tratto da un romanzo tu sai non solo quello che dice, ma anche quello che
pensa». Per esempio, che il questore Bonetti-Alderighi non gli stia
simpatico si intuisce, ma il lettore sa anche che quando lo guarda «contempla
l'inquietante capigliatura del suo superiore, abbondantissima e con un
grosso ciuffo in alto, ritorto come certi stronzi lasciati in campagna».
«Ecco, appunto».
Confessa, Zingaretti, che lui a un certo punto era pronto ad arrendersi
al commissario. «Dopo tre mesi di lavoro, appena mi sono ritrovato
la prima volta sul set ero rattrappito». Così, ed era la seconda
volta dall’inizio della storia, ha chiamato Camilleri. «Sto in pena,
Andrea, io mi ritiro». «Butta tutto, rilassati e lascia che
esca», gli ha consigliato lo scrittore.
E lì la Sicilia gli è venuta in aiuto. La casa di Marinella
(che nella fiction è un insieme di più case, la terrazza
sul mare sta a Punta Secca, la camera da letto a un chilometro più
in là a Marina di Ragusa), con alle pareti i quadri dei pittori
della scuola di Scicli: Guccione, Polizzi, Sarnari. «Ho voluto conoscere
Piero Guccione, sono stato nel suo studio. Mi sono innamorato di questa
Sicilia, ho pure pensato di comprarmi un casale. Poi non l'ho fatto perché
lì non puoi avere una casa dove non abiti».
A Montalbano, oltre all'amore per l'aspra terra ragusana, ha rubato
la parlata. «Da romano odio quelli che scimmiottano malamente il
romanaccio. E i siciliani, poveretti, già si sono sorbiti ogni storpiatura
possibile. Così ho lavorato duro e ora lo dico senza modestia: molti
siciliani giurerebbero che sono uno di loro, magari quello di Messina pensa
che io sia palermitano e quello di Palermo di Enna».
Per quanto Luca cerchi di mantenere le distanze da Salvo, le cose si
fanno delicate quando prende in mano un libro del suo eroe. «Lo ammetto,
non è più come prima. Sono coinvolto e ora son più
critico. Per esempio, mi dispiace quando Salvo litiga con Livia, se la
tratta male. Io sono uno dei pochi sostenitori del personaggio di Livia.
La dipingono come la sfígata, una piattola che sta lì e sopporta
tutto da questo disgraziato di uomo. Invece no, lei ha accettato questo
amore a distanza perché sta bene anche a lei, il rapporto è
paritario. Insomma, stare con una rompicoglioni non è da eroe! ».
In questo non è molto Montalbano: dalla sua donna non ama allontanarsi.
Ma come il commissario nelle conferenze stampa diventa pazzo, non riesce
a star fermo, si impappina, così l'attore, certo con più
compostezza, si agita di fronte alle domande troppo personali. Meglio tornare
su Montalbano. E fare la domanda più ovvia. «"Zingaretti sono"?
No, non l'ho mai detto. Suona troppo male».
Stefania Ulivi