Il Venerdì di Repubblica, 8.11.2002
Belvedere
Montalbano? Come Meazza è
Il commissario siciliano dimostra che, per farsi capire, spesso è meglio parlare in dialetto.
E fa ripensare a quella volta che Gianni Brera prese le difese del grande giocatore

Erano passate poche ore dal 28 sera di quel lunedì d’ottobre, quando poco meno di 10 milioni di persone erano rimaste attentissime e divertite davanti alla prima puntata della nuova serie del Commissario Montalbano”, e già si era accumulata una piccola massa di riconoscimenti critici, di consensi popolari sulla trasmissione.
Investivano tutto e tutti, quei giudizi critici benevoli, quegli entusiasmi popolari: a cominciare dall’attore protagonista Luca Zingaretti, bravo come sempre; dal regista , Alberto Sironi, bravissimo e inventivo come non mai; per interessare anche l’architetto (non ne ricordiamo il nome) che si è inventata una Sicilia insieme desolata e splendidamente barocca, come poche altre volte si era vista sul piccolo e sul grande schermo; per finire con il cane Orlando, intelligente e ubbidiente, proprio come serviva. E non parliamo poi degli attori, delle altre attrici: bravissimi tutti, bravissime tute.
Giacchè siamo a tanto, aggiungiamo un sentito, favorevole apprezzamento anche a noi. Riguardo il dialetto, riguarda quel “siciliano stretto” in cui le avventure di Montalbano (al telefono “Montalbano sono”) sono state scritte e recitate. E per produrre il quale, gli autori di Montalbano hanno girato per i teatrini popolari della Sicilia.
Naturalmente quando si parla di dialetto – se ne parla con tono di approvazione – si corre un grandissimo rischio. Il rischio di impegolarsi in discussioni senza fine sull’opportunità di cedere al dialetto o di usare sempre, comunque, la lingua italiana. Che è tanto bella. Come si sa. Come perfettamente sappiamo.
Ma un’opera di fantasia quale Montalbano certamente è (sia reso onore ad Andrea Camilleri), deve innanzitutto risultare credibile a prima vista. Alle prime battute che gli attori recitano. E siccome  i personaggi interpretati da quegli attori appartengono a quella Sicilia splendidamente barocca, dove quel dialetto è di casa, in dialetto devono esprimersi.
Oltre ad esprimersi, si capiscono tra di loro, prima e meglio, quando parlano in dialetto. Rivelano – a chi li sa ascoltare – una superiore, insospettabile intelligenza dei loro rapporti, delle loro realtà: rustiche e modeste quando si vuole, ma per loro fondamentali.
Mi rendo conto (proprio adesso) di essere incappato in quella benedetta dissertazione fra “lingua” e “dialetto” alla quale ho accennato prima, ed alla quale mi sento, mi so, tuttora impreparato. Il lettore potrà riferirsi, se vuole, a qualche esempio classico di dottrina: sorprendete ed inimitabile.
Per esempio quel che ebbe a dire Gianni Brera a proposito di Giuseppe Meazza, il popolarissimo giocatore della Nazionale, che dava gli ultimi calci al pallone in qualche squadra secondaria. Lui, che aveva giocato nell’Ambrosiana-Inter. E che aveva ancora tutta la sua classe.
Si aveva a che fare, in quell’anno, in quel Campionato (eravamo negli anni 40) con squadre che avevano tutte adottato il “sistema” inglese, che comportava il marcamento dell’uomo sull’uomo. Non si trovava più un compagno di squadra libero per passargli la palla.
Meazza intuì che un modo ci doveva pur essere e si provò a praticarlo: si trasferiva da sinistra a destra, o da destra a sinistra, con la palla tra i piedi, e intanto le marcature saltavano. Allora lanciava un lunghissimo passaggio trasversale diagonale al compagno infine liberatosi e accadeva (sul campo) quel che doveva accadere.
Si diceva – sempre in quegli anni del secolo scorso- che Beppino Meazza era sì un calciatore mirabile, ma non intelligente, purtroppo. Non sapeva esprimersi in un italiano passabile. Intervenne allora il principe dei cronisti sportivi, Gianni Brera, per dire:” E certo, se voi lo interpellate in italiano, intelligente non risulterà; ma provate a chiedergli di spiegare, e di spiegarvi, come si fa a far saltare la difesa del “sistema”, e di spiegarvelo nel suo dialetto meneghino: allora vedrete quanta e quale intelligenza ha”.
Beniamino Placido