Erano passate poche ore dal 28 sera di quel lunedì d’ottobre,
quando poco meno di 10 milioni di persone erano rimaste attentissime e
divertite davanti alla prima puntata della nuova serie del Commissario
Montalbano”, e già si era accumulata una piccola massa di riconoscimenti
critici, di consensi popolari sulla trasmissione.
Investivano tutto e tutti, quei giudizi critici benevoli, quegli entusiasmi
popolari: a cominciare dall’attore protagonista Luca Zingaretti, bravo
come sempre; dal regista , Alberto Sironi, bravissimo e inventivo come
non mai; per interessare anche l’architetto (non ne ricordiamo il nome)
che si è inventata una Sicilia insieme desolata e splendidamente
barocca, come poche altre volte si era vista sul piccolo e sul grande schermo;
per finire con il cane Orlando, intelligente e ubbidiente, proprio come
serviva. E non parliamo poi degli attori, delle altre attrici: bravissimi
tutti, bravissime tute.
Giacchè siamo a tanto, aggiungiamo un sentito, favorevole apprezzamento
anche a noi. Riguardo il dialetto, riguarda quel “siciliano stretto” in
cui le avventure di Montalbano (al telefono “Montalbano sono”) sono state
scritte e recitate. E per produrre il quale, gli autori di Montalbano hanno
girato per i teatrini popolari della Sicilia.
Naturalmente quando si parla di dialetto – se ne parla con tono di
approvazione – si corre un grandissimo rischio. Il rischio di impegolarsi
in discussioni senza fine sull’opportunità di cedere al dialetto
o di usare sempre, comunque, la lingua italiana. Che è tanto bella.
Come si sa. Come perfettamente sappiamo.
Ma un’opera di fantasia quale Montalbano certamente è (sia reso
onore ad Andrea Camilleri), deve innanzitutto risultare credibile a prima
vista. Alle prime battute che gli attori recitano. E siccome i personaggi
interpretati da quegli attori appartengono a quella Sicilia splendidamente
barocca, dove quel dialetto è di casa, in dialetto devono esprimersi.
Oltre ad esprimersi, si capiscono tra di loro, prima e meglio, quando
parlano in dialetto. Rivelano – a chi li sa ascoltare – una superiore,
insospettabile intelligenza dei loro rapporti, delle loro realtà:
rustiche e modeste quando si vuole, ma per loro fondamentali.
Mi rendo conto (proprio adesso) di essere incappato in quella benedetta
dissertazione fra “lingua” e “dialetto” alla quale ho accennato prima,
ed alla quale mi sento, mi so, tuttora impreparato. Il lettore potrà
riferirsi, se vuole, a qualche esempio classico di dottrina: sorprendete
ed inimitabile.
Per esempio quel che ebbe a dire Gianni Brera a proposito di Giuseppe
Meazza, il popolarissimo giocatore della Nazionale, che dava gli ultimi
calci al pallone in qualche squadra secondaria. Lui, che aveva giocato
nell’Ambrosiana-Inter. E che aveva ancora tutta la sua classe.
Si aveva a che fare, in quell’anno, in quel Campionato (eravamo negli
anni 40) con squadre che avevano tutte adottato il “sistema” inglese, che
comportava il marcamento dell’uomo sull’uomo. Non si trovava più
un compagno di squadra libero per passargli la palla.
Meazza intuì che un modo ci doveva pur essere e si provò
a praticarlo: si trasferiva da sinistra a destra, o da destra a sinistra,
con la palla tra i piedi, e intanto le marcature saltavano. Allora lanciava
un lunghissimo passaggio trasversale diagonale al compagno infine liberatosi
e accadeva (sul campo) quel che doveva accadere.
Si diceva – sempre in quegli anni del secolo scorso- che Beppino Meazza
era sì un calciatore mirabile, ma non intelligente, purtroppo. Non
sapeva esprimersi in un italiano passabile. Intervenne allora il principe
dei cronisti sportivi, Gianni Brera, per dire:” E certo, se voi lo interpellate
in italiano, intelligente non risulterà; ma provate a chiedergli
di spiegare, e di spiegarvi, come si fa a far saltare la difesa del “sistema”,
e di spiegarvelo nel suo dialetto meneghino: allora vedrete quanta e quale
intelligenza ha”.
Beniamino Placido