La Repubblica, ed. di Palermo, 17.2.2002
Gli spinosi casi del dottor Agrò
I tormentoni del sostituto procuratore creato da Cacopardo. Ex magistrato, lo scrittore originario di Letojanni racconta una Sicilia tra gattopardi e cattiva amministrazione

Notando che nei suoi "gialli" Sciascia procedeva come un gambero dalla lucidità analitica del prologo all'inesplicabilità dell'epilogo, Moravia concludeva che lo scrittore siciliano era ben lungi dall'essere quell'illuminista che tutti dicevano. Ma in questo giudizio, basato peraltro su un'acuta osservazione, c'erano due equivoci: che i romanzi di Sciascia non erano gialli, e che gli illuministi non erano positivisti (e anche i positivisti forse non erano poi così faciloni come si sono voluti dipingere).
Ancora una volta dobbiamo rammaricarci che la lezione di Sciascia sia andata perduta, che il suo pessimismo della ragione abbia prodotto l'ottimismo della razionalizzazione, ossia la riduzione del mistero esistenziale a mystery paraletterario, dell'enigma tragico a passatempo enigmistico, del romanzo come ricerca della verità a genere d'intrattenimento. Cosicché il giallo - che in Sciascia era strumento ermeneutico di perlustrazione conoscitiva della società - è divenuto un pretesto assai meno nobile, una comoda struttura narrativa d'evasione in cui poter calare una realtà sproblematizzata, privata delle sue profonde contraddizioni.
Anche - e soprattutto - in Sicilia questo fenomeno di disinnescamento del potenziale inquietante dell'inchiesta poliziesca ha subito una vertiginosa accelerazione. Se Bufalino si era esercitato in divertissement godibili e raffinati, pervasi da un sorriso ironico e da una grazia ludica, Camilleri ha sfornato bestseller a un ritmo vorticoso, dimostrando un incontenibile esubero di talento (in qualche misura sprecato). All'orizzonte è poi apparso Domenico Cacopardo, nato a Torino nel 1936, ma originario di Letojanni, che ad alcuni è sembrato un antiCamilleri per il suo stile asciutto, anodino, tecnicolegale, quasi burocratico. Ma anche Cacopardo, pur attingendo alla sua esperienza di magistrato e quindi alla scabrosità della cronaca giudiziaria, s'inserisce con tutto agio nel filone del giallo consolatorio, in cui l'assurdo della vita, del potere, della giustizia si dispiega in modo indolore, come un vuoto che l'indagine può colmare, una frattura del senso che la scrittura, col suo andamento piano e ordinato, da dossier, può sanare.
In ciò Cacopardo è piuttosto un paraCamilleri: l'alternativa non c'è, i due casi letterari sono complementari, legati da un'intrinseca analogia, al di là dei diversissimi esiti stilistici. In altri termini, anziché un autaut, la coppia Camilleri-Cacopardo appare come un etet: come delle endiadi, insomma, per parafrasare il titolo della prima inchiesta del dottor Agrò. All'estro facondo di Camilleri, al rigoglio della forma, alla sapidità composita della sua lingua, Cacopardo contrappone una scrittura controllatissima e asettica che è certamente il risultato di una consapevole spoliazione del testo. Più che l'icastico hardboiled, troppo lontano dalle nostre coordinate mentali mediterranee, è Simenon, probabilmente, il modello. Ma lo scrittore belga, pur deprivando il suo stile di ogni orpello fino a renderlo nudo, conferiva alla pagina una straordinaria forza evocativa, per cui la parola disadorna si ammantava di un fascino e di un'atmosfera inconfondibili. Cacopardo invece tende a una medietà senza connotazioni, a un grado zero della scrittura, al meccanismo seriale (non a caso l'ultimo romanzo, Cadenze d'inganno, si chiude con un post scriptum che è in un appuntamento neofeuilletonistico con il lettoreconsumatore).
Agrò è tutto nei dettagli, non ha una vita interiore che non sia tic o tormentone. Cacopardo, che è anche autore di varie raccolte di poesie, ha appreso sapientemente le tecniche di quella che appena ieri era detta letteratura di massa, a partire dal topos dell'eterna fidanzata. Anche il risvolto sentimentale, appena screziato da un erotismo anch'esso calibratissimo, è il recupero sdrammatizzato di un paradigma di alto profilo: la sensualità grottesca di Brancati, il suo gallismo provinciale basato sull'arcana irraggiungibilità dell'universo femminile, si trasforma infatti in Cacopardo in una divagazione tattica della trama, un trascolorare nel rosa mediante un'aggiunta oculata di dongiovannismo abulico.
La Sicilia così cessa di essere metafora di una condizione esistenziale, di un processo storico, di un contesto politico, e diviene metonimia, cioè scambio di nome, in cui l'astratto prende il posto del concreto, e il contenitore del contenuto. La mafia non è che un generico milieu, il riferimento ambientale un vago folclore, i mali della res publica un incartamento da esaminare con metodica acribia. L'entertainment di Cacopardo è ben costruito, estremamente leggibile, destinato molto 
probabilmente a insidiare il successo di Camilleri, o meglio ad associarsi ed integrarsi ad esso, ma è un altro segnale ambivalente di vitalità e decadenza di una Sicilia quasi interamente affidata alla sua diaspora, ormai incapace tanto dell'eresia solitaria dei gattopardi che di quella, ancora più sconvolgente, degli antigattopardi.
Marcello Benfante