Stilos, supplemento letterario de La
Sicilia, 19.3.2002
Palermo celebra la lingua nuova
Un convegno accademico l'8 e il 9 marzo per fare il punto su una vicenda
letteraria che ha dell'incredibile. E per studiare l'opera di un autore
che ha plasmato un originale linguaggio e creato il genere del novel
storic
L'ultimo tragediatore parla la lingua nonna
Promosso da Sellerio e Credem, il convegno siciliano ha rivelato un
autore moderno e innovativo.
La sua vera rivoluzione e` stata l'esaltazione del linguaggio e la
sua natura mimetica: non solo la trama, ma anche l'idioma dev'essere realistico
di Gianni Bonina
Nella dotazione di Camilleri acquista sempre maggiore peso la pedulliana
«arma del comico», connotativa della vocazione più schiettamente
ultimonovecentesca. In Camilleri l’ésprit comico rigenera
il pirandelliano «sentimento del contrario» in un risentimento
del conformismo dentro il quale l’umorismo – nella sua scala di valori
puntata fino al sardonismo, passando per la satira e il dileggio – viene
brandito come strumento di censura e di cesura: al potere costituito nell’un
caso, al proprio coinvolgimento nell’altro. Il convegno dell’8 e 9 marzo
a Palermo (voluto da Sellerio, Credem e università) ha fissato una
linea di orizzonte sulla quale ingradare Camilleri. E se un pannello è
stato piantato, necessario alla veduta d’insieme della sua opera, questo
è giustappunto l’elemento comico, che è principio normativo
della commedia, nella cui chiave di matrice teocritea la rappresentazione
della realtà sottende la sua irrisione e involge quindi la sua sconfessione.
Così, mentre Nino Borsellino ha potuto osservare che nei romanzi
storici di Camilleri «agisce il teatro comico», l’italianista
spagnola Blanca Muniz ha precisato che il potere teme storicamente proprio
la commedia e le sue impertinenze versicolari: perché, possiamo
specificare noi, non c’è bachtinamente mezzo di critica che sia
più apotropaico dell’allegoria, ancor più quando è
tramata di echi carnascialeschi. In un quadro dove il comico, come è
stato osservato, è «il dispositivo del rivoluzionario»,
Natale Tedesco ha dunque precisato che «Camilleri non è scrittore
esotico né penitenziale, ma scrittore che carnevalizza la letteratura
sapendo di dare fastidio a chi vuole una letteratura quaresimale».
Nunzio La Fauci ha ritenuto di individuare in questa voce quella del «tragediatore»,
il modello più aggiornato del mimo greco. Il quale, con la satira
aristofanesca, menippea e plautina, mette capo a una intemerata capacità
politica, carica com’è della forza di intridere la realtà
con i colori del linguaggio preso dalla parlata comune. A disturbare il
manovratore non è quanto viene detto ma il come. Questa
espressività matura nel tempo fino a quando, in età barocca,
la stagione che segna il primato della lingua sulla parola, ovvero della
forma sul contenuto, il concettismo decreta l’affermazione dell’ingegno
a detrimento dell’intelletto, l’arguzia sulla grevità, la retorica
sulla grammatica. E Silvano Nigro ha colpito nel segno individuando in
Camilleri una malcelata e malvista anima barocca: «A furia di calarsi
in tale dimensione Camilleri ha risolto preterintenzionalmente la morte
di Zosimo, involato con un aquilone, nei modi indicati dalle metafore di
Tesauro nel suo Cannocchiale aristotelico, giocato sui casi di morte
dei sovrani, che risultano simili alla trovata reinventata da Camilleri».
La fantasia barocca pastorizza dunque inconsapevolmente un Camilleri letterato
«arguto» nella cui coscienza si depositano non solo i grumi
della tradizione classica ma anche i succhi del retaggio manzoniano, che
a Palermo sono stati secreti uno per uno da Ermanno Paccagnini, riuscito
a rintracciare le tante connessioni che da Camilleri, con la mediazione
di Sciascia, rimandano a Manzoni in un procedimento di acquisizione delle
comuni sollecitazioni: l’ironia e l’indignazione – al punto che Sergio
Valzania ha sorpreso nel Re di Girgenti il senso di una «critica
letteraria», cioè una riscrittura, dei Promessi sposi.
«Camilleri – ha detto Paccagnini – ha praticato nel Re di Girgenti
un pastiche giocando con tante carte: annalistica, novellistica
decameronesca, Legenda aurea, oralità popolare». Sul
lato della pronuncia linguistica, il complesso dei conferimenti presenti
soprattutto nel Re di Girgenti, il mastodonte dell’opus camilleriano,
ha suggerito alla canadese Jana Vizmuller-Zocco il nome di «singlossia»,
l’opposto della disglossia, che pure, per la diversificazione dei piani
linguistici, presiede l’estetica di Camilleri.
E’ a questa altezza del dibattito che è caduto in taglio il
tema del dialetto, snodo strategico della vicenda camilleriana. Ancora
la Vizmuller-Zocco ha notato che due lingue diverse se non possono convivere
nella società, dove una prevale sull’altra, possono invece farlo
in un individuo. E in questo senso, in Camilleri l’italiano non è
da addensare in posizione antitetica al dialetto ma da organizzare in un
sistema di sincronie che tiene connotazioni eterogenee nelle quali un entusiasta
Angelo Guglielmi ha potuto cogliere la natura di una convenzione, attribuendo
a Camilleri una doppia consapevolezza: «Sa che gli urge una lingua
e mette in campo un’ipotesi di scrittura saldamente scorretta e opportunamente
indebitata col dialetto; e sa inoltre che il romanzo è la lingua
in cui è scritto: il plot è solo il traliccio su cui
la lingua si distende». Guglielmi riconduce questo approccio alla
pratica teatrale esercitata dallo scrittore, provvidenziale per «trattare
le parole come attori, mettendole in piedi e lasciandole parlare».
Se dunque è la lingua il fatto nuovo dell’esperienza camilleriana,
essa è però declinata più sul terreno dell’italiano
che del dialetto, ciò che designa il rilievo ortonimo nel paesaggio
sperimentalista di autori tutti licenziati dalla scuola del Gruppo 63:
in Camilleri è il dialetto al traino dell’italiano secondo un procedimento
che riflette l’idiomazia siciliana. La quale è infatti sempre tentata
dall’italiano: paradossalmente il parlante siciliano, nella lingua d’uso,
quando vuole farsi sentire o capire ancor meglio, si esprime in italiano;
o almeno si sforza di farlo. Cosa ha dunque fatto Camilleri? Ha reso il
linguaggio più mimetico e realistico della narrazione, da un canto
privilegiandolo e da un altro individuando l’esatto spirito idiolettico
siciliano sul quale ha intonato la propria corda narrativa, che se è
apparsa ex choro è stato in virtù appunto di questa
sua spinta innovativa. Tale acquisizione permette di spiegare perché
oltre ai personaggi anche il narratore e l’autore implicito si esprimono
ad orecchio, quello che, perché autentico, restituisce l’ambiente
accendendolo di punte icastiche.
La scelta di termini dialettali quando nulla giustifica l’omissione
del corrispettivo italiano (per esempio «trasiri» per entrare)
si legittima alla luce di una rivoluzionaria accezione narratologica: l’italiano
sicilianizzato anziché il siciliano italianizzato, distinzione deducibile
dal premio di una pronuncia sull’altra. Nel primo caso il siciliano, contastorie
istruito, si rifugia nel dialetto quando perde la proprietà dell’italiano
o trova questo meno efficace; nel secondo il siciliano, contastorie ignorante,
si rinserra comunque nell’italiano, pure al prezzo di anacoluti e allitterazioni.
Camilleri concepisce una fusione dell’uno nell’altro calco, ma dando conto
che solo i suoi personaggi entrano in qualche modo, non sempre e non tutti,
nel gorgo del siciliano italianizzato mentre il narratore e l’autore implicito
sottostanno alla prima guazza, quella che rende l’italiano la lingua di
partenza, la lingua che è prima pensata, poi parlata e, solo quando
inciampa, tradotta. Camilleri l’ha detto più volte: «Sono
uno scrittore italiano nato in Sicilia». Uno scrittore che allo sguardo
ha preferito l’udito, l’usta alla vista, e che si è creato un catalogo
di funzioni sensoriali ordinandole secondo una gerarchia di percezioni
rovesciate, in capo alla quale troneggia la parola; di più: ha fatto
della sinestesia la figura cardinale, prevalente anche sulla tradizionale
metafora, che è pressoché assente nel suo dettato.
Se le cose stanno così, ha fatto bene La Fauci a scomodare Contini
per parlare di «plurilinguismo» in riferimento a una «molteplice
unità» che distingue l’opera di Camilleri, dove l’italiano
– si badi: l’italiano e non il dialetto – fa non già da lingua madre
quanto addirittura da «lingua nonna». «Il vero protagonista
dei libri di Camilleri – ha detto La Fauci – è lui stesso e il successo
che ha raggiunto è giustificato da meriti formali, ciò che
era la grande ambizione degli avanguardisti»: esaltare il romanzo
non per la fabula ma per la lingua. Camilleri c’è riuscito
scommettendo su un’intuizione: scrivere come si pensa consente un più
compiuto e spiccato effetto di realtà, il barthesiano effet de
réel, qui perseguito a titolo pieno, stilistico e narratologico.
Angelo Morino, il consulente per lo spagnolo del Re di Girgenti,
ha parlato di «ossessione» di Camilleri, perché deciso
a tenersi nel glutine della verosimiglianza portando a braccetto storia
e letteratura – tanto che Gioacchino Lanza si è divertito a rintracciare
i punti di identità tra personaggi del Re di Girgenti e figure
storiche. Quando questa corrispondenza viene stabilita, il risultato è
di abitare le sfere dell’epica, sicché Blanca Muniz ha parlato di
«disposizione ritmica di tipo epico», strada sulla quale ci
raggiungono in fretta gli argomenti della lingua e dell’elicitazione politica.
Blanca Muniz ha perciò gemellato il Carvalho di Montalbán
e il Montalbano di Camilleri, fratelli d’inchiostro in ciò, che
«entrano in sintonia con percezioni inconfessate volendo sfuggire
al groviglio dell’esperienza quotidiana e cercare una lingua che li salvi»,
in linea con la lezione del Gadamer secondo il quale «ogni incontro
con le cose è di natura linguistica».
Allora, tra epica e storia è la prima cui indulge Camilleri,
perché sa, come ha sottolineato Valzania, che «la storia non
dice la verità, ma una verità», dimodoché essa
assume il carattere della versione diventando per questa via letteratura.
Due storici avveduti come Francesco Renda e Salvatore Lupo non hanno avuto
difficoltà a concedere che la letteratura ha spiegato la storia
meglio degli storici e che è stata la letteratura a sollevare la
questione meridionale e fare conoscere il Risorgimento. Paradossalmente
il maggiore riconoscimento a Camilleri (storico con gli scarponi chiodati,
la mano mai ferma e gli occhi sulla storia fatta dai libri più che
sui libri di storia; narratore che, come ha detto Guglielmi, «prende
il mondo per il collo e lo costringe a confessarsi») è venuto
a Palermo proprio dagli storici siciliani più rigorosi del momento.
Ai quali è risultato evidente che il Camilleri più riconoscibile
non è il serial auctor di Montalbano ma il gerofante del
novel
storic, il genere nel quale l’invenzione incrocia la storia e di cui
lo scrittore siciliano ci appare l’ultimo fuochista.