La Repubblica,
ed. di Palermo, 20.3.2002
Così il rito mattutino è diventato letteratura
«Verso le due del pomeriggio che di gente in giro ce n'è
poca, perché va a casa e ritorna più tardi, io libero il
tavolinetto dal vaso dei fiori, apro la borsa e lo apparecchio: metto le
due sottotazze, i due cucchiaini d'argento, due tovaglioli, infine prendo
il termos e verso il caffè caldo caldo nelle tazzine». A prima
vista sembrerebbe tutto normale: il solito rito che si consuma dopo il
pranzo nelle nostre case. Se non fosse che il caffè in questione
è destinato alla bocca di un defunto, Turiddu, al quale la moglie
Rita, nella ricorrenza dei morti, non fa mai mancare la tazzina fumante.
Cosa ancora più strana, il caffè ad un certo punto non c'è
più: Turiddu redivivo se l'è scolato, con somma gioia della
moglie. «Più lo mandi giù e più ti tira su»,
verrebbe da dire in questo caso, citando la celebre reclame.
A raccontarci questa storia bizzarra è Saro Fronte, originario
di Ispica, autore della raccolta di racconti intitolata "Cafè di
Sicilia" (Terzo Millennio Editore, 8 euro) e caratterizzata dal fatto che
un unico filo conduttore tiene insieme le vicende narrate: quello della
tazzina di caffè appunto, simbolo quasi di una certa sicilianità,
di un modo tutto isolano di intendere la vita e di ragionarne. E se per
un attimo ci allontaniamo dalle pagine di Saro Fronte (ricche di spunti
narrativi e percorse da alcuni stilemi alla Camilleri) per prendere in
considerazione quelle di alcuni grandi scrittori siciliani, ci si renderà
conto che il caffè, sia come bevanda che come luogo di incontro
e di chiacchiera, assume un'importanza e una centralità tale da
trasformarsi inevitabilmente in qualcosa di emblematico e rappresentativo.
Come nel caso di Luigi Pirandello che, nella novella L'imbecille,
fa del caffè un luogo in cui anche un semplice scambio di battute
tra avventori può trasformarsi in scorata riflessione sulla caducità
della vita: «Scusi - dice uno dei protagonisti - lei non è
di Costanova, è vero?» Risponde l'interlocutore: «No,
sono di passaggio». E l'altro: «Siamo tutti di passaggio, caro
signore». Ma l'autore agrigentino si spinge oltre, ambientando il
dramma L'uomo dal fiore in bocca proprio in un «caffè
notturno con tavolini e seggiole sul marciapiede»; caffè che
diventa teatro degli sproloqui e delle amare meditazioni di un uomo giunto
ormai al capolinea della vita. Dal caffè malinconico di Pirandello
si passa a quello di Francesco Lanza nei Mimi siciliani, luogo di
ritrovo per sfaccendati e bellimbusti che «assiepano come vespe i
tavoli». Ad ereditare il caffè di Lanza sembra essere Vitaliano
Brancati, anche se nelle sue pagine si trasforma in ricettacolo di inconcludenti
scambi di battute su presunte prestazioni dei vari don Giovanni della domenica,
e fucina di tormenti amorosi e carnali. C'è poi il caffè
ironico e dissacratore di Antonio Pizzuto il quale, in Si riparano bambole,
fa sentire il «rumorino di maioliche tentennanti» e fumanti
di caffè. È l'ora della «gran sosta attesa» in
casa di Pofi, il protagonista del romanzo: è tutto un «rumoroso
sorbire», e il caffè si trasforma in un pretesto per inscenare
riti e usanze di un'alta borghesia ormai allo sfacelo.
Ma c'è anche il caffè contraddittorio e antitetico di
Leonardo Sciascia, ora bevuto dal vice commissario di polizia de Il
cavaliere e la morte a più riprese, a scopo quasi terapeutico:
«Prese, una dopo l'altra, due tazze di denso caffè. Dicevano
che il caffè acuisse i dolori; ma a lui dava la lucidità
per sopportarli». Ora gustato con estremo piacere dal capitano Bellodi
de Il giorno della civetta: «... e bevve, bollente, un caffè;
un caffè che il carabinierebarista gli faceva speciale, nella speciale
quantità di caffè e abilità di farlo che un napoletano,
com'era il carabinierebarista, poteva impiegare per riscuotere la speciale
stima di un superiore».
Scrive invece Angelo Fiore nel racconto I sordomuti, presente
nella raccolta intitolata Un caso di coscienza: «Un caffè
mal tenuto, quantunque di recentissima fondazione: i camerieri, negligenti,
servono in ciabatte, quando servono; l'acqua un brodo; il caffè,
amaro». Quel caffè tutte le domeniche diventa il luogo di
ritrovo di «una tribù di sordomuti», studiati dal protagonista
della storia nella loro strana gesticolazione e visti come strani «esemplari
umani».
Impossibile non parlare di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: il caffè
può creare malumore nel principe Salina, per via di una macchiolina
sul candido panciotto; «caffè forte con i biscotti di Monreale»
assaporato da padre Pirrone, ma soprattutto caffè come luogo dell'ispirazione,
dalla forte carica evocativa. Infatti Tomasi di Lampedusa, come del resto
Ernest Hemingway nei caffè parigini, ha scritto parte de Il Gattopardo
seduto ai tavolini del Bar Mazzara.
Ma c'è anche il caffè come luogo affabulatorio e di sottigliezze
analitiche e filosofiche nelle pagine di Sebastiano Addamo che descrive
quei bar che si affacciano sulla via Etnea, e che richiamano in un certo
modo quelli brancatiani. E arriviamo infine ai narratori dei nostri giorni:
Andrea Camilleri, ne Il corso delle cose concentra tutte le dicerie,
le maldicenze, le allusioni nel «caffè di Masino». «Che
si diceva, stasera, al caffè?» è la domanda ricorrente
nelle pagine dello scrittore di Porto Empedocle, fatta per essere tenuti
al corrente dei pettegolezzi che facevano il giro del paese. In Santo Piazzese
invece il caffè diventa più ironico e sofisticato, accompagnato
com'è da un sottofondo jazz di «My funny Valentine, versione
Chet Baker per voce angelica e tromba. Il massimo per una rasatura veloce».
Salvatore Ferlita