ACME

Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia

dell'Università degli Studi di Milano

Volume LV- Fascicolo II- Maggio-Agosto 2002

 

IL LABORATORIO DEL CONTASTORIE

Intervista ad Andrea Camilleri

A cura di Serena Filipponi

Andrea Camilleri incanta oramai con la sua abile penna milioni di lettori in tutto il mondo. Si dice spesso che la qualità distintiva della sua scrittura vada rintracciata nella lingua, quell’inedito impasto siculo-italiano con frequenti escursioni nei più vari dialetti peninsulari ed anche, a volte, in alcuni idiomi stranieri sottoposti a manipolazioni reinventive. Una lingua dunque complessa, pluristratificata e polifonica, che pur riesce a raggiungere un pubblico nient’affatto di nicchia. Una lingua, ancora, fortemente connotata in senso regionale, che pur riceve l’entusiastico consenso non solo degli abitanti di Sicilia, ma anche dei non siciliani d’Italia e del mondo. Come si spiega tutto ciò?

Queste problematiche irrisolte del “caso Camilleri” hanno motivato la scelta di analizzare gli aspetti formali della scrittura dell’autore in una tesi di laurea dal titolo Lingua e metalingua nei romanzi di Andrea Camilleri, redatta sotto la guida del professor Andrea Masini, ordinario di Linguistica Italiana. Il lavoro di ricerca si è focalizzato sullo studio delle osservazioni metalinguistiche fatte per bocca di personaggi e narratori di tutti i romanzi camilleriani editi fino all’anno 2000 incluso. Ne è emerso con forza l’alto grado di consapevolezza linguistica di un autore che gioca con brillante spigliatezza fra le varianti geografiche, sociali e situazionali di codici plurimi ed eterogenei (siano essi lingue o dialetti), per giungere a creare, attraverso la continua ed insistita commistione di registri alti e bassi, burocratici e popolari, una lingua ibrida (o, per dirla con l’autore, bastarda) dal forte potere espressivo. L’operazione formale di Camilleri è dunque tutt’altro che folclorica. I regionalismi non vengono recuperati al fine di una nostalgica rivalsa etnica, ma sono bensì strumento per una sperimentazione d’avanguardia. Che questa ardita soluzione formale riesca poi a raggiungere un ampio uditorio, lo si deve ad una serie di meccanismi esplicativi che facilitano la comprensione di una lingua che sulle prime può respingere. Fra questi, il più evidente e più usato è proprio l’inserzione di osservazioni metalinguistiche, le quali cooperano in maniera agile a rendere trasparenti epressioni oscure o ambigue. L’accesso all’universo linguistico camilleriano necessita di una disponibilità da parte del lettore alla faticosa conquista di un codice bizzarro ma, al tempo stesso, accattivante. All’acquisizione di questa lingua altra, segue poi la gratificazione del riconoscimento, il piacere di sentirsi partecipi di un mondo che si è imparato a decrittare.

Alla conclusione del lavoro di tesi è parso stimolante interpellare l’autore, perché egli potesse in prima persona rendere ragione delle proprie scelte linguistiche. Incontrare Andrea Camilleri è stato come assistere in prima fila all’ipnotica e suadente performance di un grande attore. Le straordinarie doti affabulatorie dello scrittore, evidenti in ogni sua opera, risultano, se possibile, ancora più vivide quando lo si conosca di persona. L’abile contastorie (come egli ama definirsi) pare non stancarsi mai di raccontare e raccontarsi, inframmezzando alla affermazioni concettuali un inesauribile repertorio di esempi ed aneddoti di vita, secondo quel fare divagatorio e pragmatico caratteristico della sua modalità espressiva. Non è stato dunque sempre possibile circoscrivere il colloquio alle sole questioni linguistiche, come si aveva intenzione di fare esclusivamente per il limitato tempo a disposizione. Le divagazioni dal tema centrale, peraltro, non hanno potuto fare altro che arricchire di molto la conversazione, come è naturale accada quando si parli con un uomo dalla vita professionale ed artistica lunga, intensa ed eterogenea. L’incontro (avvenuto il 5 febbraio 2002 nell’abitazione romana dell’autore) ha in qualche modo permesso di aprire uno squarcio nel laboratorio artigianale camilleriano.

Ne è emersa innanzitutto l’imprescindibile importanza della lunga esperienza di registra teatrale dell’autore in relazione alla particolare fisionomia assunta dalla sua scrittura.

E’ stato poi interessante scoprire come Camilleri sia stato educato fin dall’infanzia ad un certo gioco con le parole, non solo in senso ludico e comico, ma anche poietico. La lingua è strumento principe di pensiero. La creatività formale è mezzo di resitenza all’omologazione. Il gioco con la parola sembra avere la facoltà di alludere ad altri mondi (linguistici) possibili.

Da ultimo è parsa bella la rivendicazione da parte dell’autore dell’autentica necessità delle proprie scelte linguistiche, mai esaustivamente riconducibili ai giudizi di questo o quel critico, sempre irriducibilmente libere rispetto alle aspettative dei lettori. A chi gli chiedesse perché egli usi proprio quel particolare ed inconsueto impasto linguistico, Camilleri risponderebbe nel modo più semplice ed onesto: “perché non so fare altrimenti, è l’unico modo in cui so scrivere”.

A.C.: In questo momento mi arriva un fax dalla casa editrice tedesca Lubbe che dice: “Caro Camilleri, siamo lieti di comunicarle che i suoi romanzi hanno raggiunto un milione di copie vendute”. Allora, me lo dice come si spiega un simile successo in una traduzione che non è che sia peraltro esemplare?

S.F.: Io sapevo che lei apprezza soprattutto le traduzioni francesi. Ancora non è riuscito a spiegarsi il motivo di questo successo all’estero?

A.C.: Non tanto, almeno per queste edizioni di Lubbe. Però, per esempio, le edizioni tedesche di Wagenbach, con traduzione di Moshe Kahn, sono di altro livello. Cioè c’è un tentativo di pigliare il poro lettore tedesco e metterlo di fronte alle stesse o quasi difficoltà nelle quali si viene a trovare il lettore italiano con la mia scrittura.

S.F.: Lei che lingue conosce?

A.C.: Nessuna. Il siciliano. Conosco il francese. Allora, non è così semplice la cosa…

S.F.: Infatti il problema più spinoso è proprio spiegarsi come mai una soluzione linguistica così originale riesca a raggiungere anche realtà a noi lontanissime quali, per esempio, quella giapponese. La sua opera, se non erro, è stata tradotta in Giappone, in America…

A.C.: In America ancora non abbiamo questo risultato. Vede, queste sono le bozze di stampa rilegate che loro mandano ai librai, ai critici..etc. Queste escono in America a fine aprile in un’edizione lussuosa. Mi hanno anche mandato 1800 biglietti (io ne ho firmati già 1500) perché poi, quando rilegano il libro, loro li inseriscono dentro e fanno la sorpresina… Questa stupida usanza che si è diffusa anche in Italia di chiedere: “Mi firma il libro?”.

S.F.: Nell’intervista rilasciata a Simona Demontis, Elogio dell’insularità[1], lei dice: “io non mi riesco a spiegare questo successo all’estero, perché credo che la cifra di uno scrittore risieda proprio nella sua voce”. Allora com’è possibile che accada tutto ciò?

A.C.: Appunto!

S.F.: A me sembra affascinante l’ipotesi di Nunzio La Fauci[2] che dice: “Camilleri dissimula il complesso labor limae che sta alle spalle del suo linguaggio. Egli dice di aver preso di peso il parlato familiare di casa sua e di averlo trasposto tale e quale nei suoi romanzi. Ma la lingua di Camilleri è ben più di questo; è una finissima costruzione letteraria. Il lessico è siciliano, ma la morfologia è quasi interamente italiana. Si tratta di un siciliano italianizzato. E’ una lingua apparentemente esclusiva, l’autore sembra dire ‘e chi è siciliano mi capisce’. In realtà, poi, fa in modo che l’osticità diventi trasparenza, fornisce al lettore gli strumenti perché egli possa appropriarsi del codice, entrare in un mondo. Lancia dunque un messaggio inclusivo: ‘anche tu che non sei siciliano, lo diventerai e mi capirai’. Io credo che le numerosissime osservazioni metalinguistiche presenti nei suoi romanzi assolvano proprio a questa funzione, siano cioè lo strumento principe per attuare questo processo di fagocitazione del lettore all’interno di un universo linguistico sui generis. I suoi libri richiedono una lettura partecipata, il lettore deve conquistarsi i mezzi per decodificare un linguaggio che sembra a prima vista di difficile accesso. Una volta fatto ciò, cioè entrati in possesso del codice, ci si sente gratificati dal piacere di riuscire, attraverso la lingua, a penetrare in un mondo, in una mentalità, in una forma mentis, in un sistema di pensiero prima precluso. Si crea così una comunione intima fra lettore e testo. Si ha il piacere di ritrovarsi in quello che si è già appreso, con in più la curiosità di poter fare nuove scoperte. Vi è dunque un forte processo di partecipazione. Oltre a tutte le caratteristiche linguistiche più evidenti e immediatamente godibili da cui il lettore può trarre piacere: l’ironia, i registri colloquiali, il tono accattivante dell’oralità…

A.C.: Che è fondamentale…

S.F.: Lei è d’accordo sul fatto che la lingua sia il motivo principale del suo successo?

A.C.: In Italia sì. Ma poi c’è la domanda: come mai piaccio in altri paesi, dove però gran parte di questo si perde? Un milione di copie vendute in Germania sono un milione di copie…

S.F.: Come fa ad appurare la qualità delle traduzioni conoscendo solo il francese?

A.C.: Ma, vede, è chiaro che se vado a pigliare il libro giapponese (hanno già tradotto 2 o 3 romanzi) io non so neanche da che parte lo devo aprire; invece altre lingue sono più accessibili. Il tedesco bene o male mia moglie lo parla, io parlo il francese. Per capire eventuali traduzioni spagnole, uno spagnolo lo si trova all’angolo della strada, non c’è nessun problema…Io credo che ci sia di vero in quello che lei dice una sorta di gioco della complicità da parte del lettore. Cioè a dire, una volta, 3 o 4 anni fa, viaggiai con una coppia di torinesi purosangue. La signora a un certo punto tirò fuori Il birraio di Preston e cominciò a leggerlo. (Non mi avevano riconosciuto). Arrivata a un certo punto sbottò a ridere. Allora il marito, che era seduto di fronte a lei, disse: “Io non riesco a capire come tu ce la fai a leggere un libro simile”. E lei disse: “Che significa un libro simile? Perché tu l’hai letto?”. E il marito disse: “Ho letto le prime quattro pagine e mi sono bastate”. Allora si scatenò un piccolo litigio familiare. La signora disse: “Perché sei pigro! In tutte le tue cose tu sei un pigro e quindi ti rifiuti di entrare in questo gioco!”…

S.F.: Che, ad un primo impatto, può respingere…

A.C.: E infatti dice: “No, tu sbagli. Se fossi andato oltre le prime pagine, ad un certo punto ti si sarebbe dischiuso un mondo”. E qui fece un esempio strepitoso. Doveva essere una professoressa di geometria, o qualche cosa di simile. Disse: “Come i frattali…Quando vedi la riproduzione che nostro nipote ha portato a casa delle due torri, di primo acchitto non ci capisci nulla. A un certo punto, guardando attentamente,…pruum!…entri dentro l’immagine, ti si schiude il tutto”. In quel momento io ero arrivato a Livorno. Presi l’impermeabile e dissi: “Signora le auguro buon viaggio e buon divertimento perché io sono l’autore del libro” e mi buttai giù dal treno. Lei mi seguì e disse: “Me lo firmi! Me lo firmi, così faccio arrabbiare di più mio marito!”. Però questa signora aveva dato alcune chiavi, cioè a dire una sorta di cosa criptata che vale la pena in qualche modo risolvere. Bisogna acquisire un codice e cominciare pian piano ad usarlo. Questa faccenda del codice io l’avevo, come posso dire, in qualche modo provata, sperimentata non su di me, ma quando facevo il produttore della serie televisiva di Eduardo De Filippo, la prima volta che Eduardo entrò in televisione. Eduardo, quando cominciammo a lavorare sui suoi testi, cominciò a modificare delle parole, scegliendo quelle del dialetto che più si avvicinavano alla lingua italiana. Io gli dissi: “Eduà, ora vi viene lo scrupolo, dopo dieci anni che avete rappresentato gli stessi testi in teatro?!”. “Eh, li facevo in teatro, la gente veniva sapendo quello a cui si sarebbe trovata di fronte…Qui è televisione, Camillè!”. Cambiava il mezzo, quindi lui si sentiva in dovere di intervenire in questo modo, cioè a dire o facendo emergere la spiegazione dal contesto, o addirittura sostituendo alcune parole con altre.

S.F.: Comunque scegliendo sempre parole del dialetto, più vicine all’italiano, questo sì, ma sempre dialettali?

A.C.: Però sempre dialetto. Allora, qui c’è un punto di partenza che va esaminato per quella che è la scelta dialettale. Se lei legge la prefazione (probabilmente l’avrà letta, non voglio fare come quel professore all’università: “Lei naturalmente non sa…”, “No, professò, io naturalmente lo so”), dicevo, lei avrà letto la prefazione che Pirandello scrisse alla versione siciliana di Liolà. A un certo punto dice: “Io scrivo in dialetto girgentano, che è quello che, fra tutti, più si avvicina alla lingua italiana”. Non ha idea della quantità di lettere che io ricevo di signori siciliani di una certa età fortemente arrabbiati per l’uso del mio dialetto. Dicono: “Lei finge di essere siciliano, in realtà non lo è perché non adopera il dialetto siciliano, ma un dialetto para-siciliano”. A parte il fatto che io, come scrittore, adopero il dialetto come mi pare e piace, non seguendo le regole grammaticali dell’abate Meli…Questi lettori mi rimproverano: “Lei dice u, ma u non si dice, si dice lo, lo zio; e quindi si dice anche figghio, figghia”. Ma non è vero neanche lontanamente. Da noi si dice figlio, figlia, si dice lu, addirittura si dice il, le, la. Chi mi rimprovera di non fare un uso corretto del dialetto siciliano, si rifà al dialetto locale della sua zona. Pirandello, nella sua tesi di laurea Suoni e sviluppi di suoni nella parlata di Girgenti, dimostra che il suono varia addirittura a tre chilometri di distanza. Per esempio, se da Agrigento lei va a Licata (35-40 Km di distanza all’interno della stessa provincia), nessuno le dirà mai chiave o chiodo; le diranno a’ ciave, o’ ciodo. Altro esempio: la r spesso nel dialetto catanese si elide. Pensi a Brancati: “Voi come vi chiamate, federale?” “Scammaca, signor federale, Scammaca con la r”. Si chiamava Scarmacca. Allora è inutile andare a cercare nella lingua dei miei romanzi una fedeltà a un dialetto che io non intendo, per principio, mantenere.

S.F. : Anche perché lei non fa letteratura dialettale…

A.C. : Infatti, e qui entriamo nel vivo della questione…

S.F. : Lei dice che non le sembra di dover nulla a Gadda, nonostante il suo esempio l’abbia liberata da esitazioni…

A.C. : Sì, un certo coraggio di Gadda.

S.F. : Intendeva dire che dopo Gadda diventa improponibile la classica distinzione fra letteratura dialettale, da un lato, e letteratura in lingua italiana dall’altro?

A.C. : Diventa assolutamente improponibile, e diventa addirittura ridicolmente improponibile per chi la propone. Però rimane vero che non sono uno scrittore che scrive in dialetto. La punta più estesa di uso del dialetto, o di pseudo-dialetto, da parte mia è ne Il re di Girgenti, romanzo in cui c’è stato un caso di autentica necessità, perdoni la citazione insita nella frase. Cioè a dire, io non potevo scrivere il libro che in quel modo. Quando io scrivo Montalbano posso dire: “Beh, questo lo chiarisco”; ciò accade perché non voglio aggiungere enigma ad enigma; in un giallo è un po’ crudele, sadico e anche masochistico pigliare il lettore e metterlo di fronte al problema della lingua, oltre al problema del giallo in sé. Infatti chi legge attentamente i due tipi di libri miei, vede che nei romanzi storici io mi sento assai più libero di sperimentare il mio linguaggio che non nella serie di Montalbano.

S.F. : E’ anche per questo motivo che intende abbandonare o mandare in pensione il commissario Montalbano?

A.C. : No. Credo che sia una stanchezza di tutti gli scrittori seriali che non abbiano il respiro e la forza di un Simenon, per esempio, o di un Dürrenmatt. Ho parlato a lungo con Vazquez Montalbàn. Ci troviamo di fronte a una noia mortale, ne abbiamo le scatole piene di questi personaggi. Il romanzo storico mi diverte di più perché posso fare delle operazioni di struttura che non mi posso permettere entro le ferree regole del giallo.

S.F. : Si tratta, dunque, di una maggiore libertà di sperimentazione strutturale, non anche linguistica?

A.C. : Soprattutto strutturale. Le spiego come scrivo. Di un libro, quale che esso sia, storico o giallo, io non ho le idee chiare e lucide quando comincio a scrivere. Io ho un progetto. Ed è un progetto come lo fa un architetto quando deve costruire una villetta. Dice: “Allora, questo è il terreno che ho a disposizione. Lei vuole la vista verso il mare, e allora devo procedere in questo modo…”. C’è dunque un progetto entro il quale agire. Per esempio, per me è fondamentale (possono sembrare fesserie e probabilmente lo sono, ma sono cose per me indispensabili per poter scrivere) sapere di quanti capitoli consta il romanzo. Cioè: entro quanti capitoli riesco a chiudere la vicenda? Questo prima ancora di scriverla. Cioè a dire: questa storia è una storia che sta dentro una stanza, non dentro un salone. Se sta dentro un salone è un errore perché vuol dire che l’ho allargata troppo, c’ho messo delle cose in più per raggiungere la dimensione del salone. Sono cose elementari, da capomastro, però io ne ho bisogno prima di cominciare a scrivere. Io non lavoro mai immaginando un solo libro o un solo racconto; ho sempre due o tre progetti. Arrivato a un certo punto, uno prevale perché il suo disegno è più definito. Quando parlo di struttura mi riferisco con un termine improprio (perché oggi struttura si adopera in un altro senso), mi riferisco, dicevo, alla forma del libro. Il birraio di Preston è tutto un gioco sull’alterazione dei piani temporali narrativi. Se lei piglia La mossa del cavallo (che è una sorta di piccolo manifesto al lettore, ma non viene capita in questo senso; cioè a dire o t’impadronisci, o ritorni a riprenderti un certo linguaggio o sei escluso dal gioco e rischi di essere condannato per un delitto che non hai commesso), lì c’è un’altra struttura. Un’altra struttura c’è ne La concessione del telefono, con l’alternarsi di cose dette e cose scritte. Questo mi interessa. Allora io, autore, fino a che punto c’entro ne La concessione del telefono? Desidero non entrarci, desidero raccontare dei fatti attraverso documenti scritti, rigorosamente finti, e attraverso dialoghi misteriosamente intercettati in un’epoca nella quale non esisteva possibilità di intercettazione.

S.F. : Questa volontà della voce narrante di occultarsi si ritrova, estremizzata, anche ne La scomparsa di Patò.

A.C. : C’è spesso e volentieri. Mi piacerebbe scrivere sempre dei dossier. Rimasi impressionato da un romanzo giallo che lessi quasi bambino. In realtà non era un romanzo, era un dossier, in cui le ultime dieci pagine erano sigillate e quindi il lettore aveva lo stesso numero di prove e di indizi che aveva l’indagatore.

S.F. : Per questo motivo le piace la struttura a dossier, perché implica una lettura partecipata? Il lettore deve crearsi in maniera autonoma i propri parametri interpretativi.

A.C. : Certo. Mi piace il fatto che io descrivo una stanza, tu vedi il personaggio, te lo immagini come vuoi tu.

S.F. : Del resto anche quando c’è una classica voce narrante (e, per inciso, di solito a livello narratologico i suoi romanzi sono piuttosto tradizionali, con narrazione in terza persona), essa ha una fisionomia particolare. E’ estremamente solidale coi personaggi…

A.C. : …estremamente solidale…

S.F. : …assume su di sé e fa propri i loro dialetti, le loro loquele. Parla come i personaggi ma è al contempo in grado di distanziarsene, gioca con la propria competenza linguistica; un po’ come fa Montalbano, il quale fa il verso al linguaggio burocratico quando si rivolge ai funzionari statali e mima il linguaggio popolare quando parla con i personaggi umili. Una voce narrante che è essa stessa persona.

   A.C. : Sì, certo, è vero. Quando io per spiegare il mio linguaggio mi riallaccio alle origini familiari, non racconto una falsità. E’ vero l’episodio del parlare in dialetto e parlare in italiano di casa mia, è proprio di tutta la piccola borghesia siciliana. Ora si va perdendo, si parla solo in italiano. Però c’è una componente alla quale io sono stato allevato. E la componente è quella dell’invenzione della parola. Se devo dire da quali letture sono stato allevato da parte dei miei familiari, mia madre non mi ha mai raccontato una favola in vita sua, non ho mai saputo cosa fossero le favole; e, meno che mai, me le raccontava mia nonna. Mia nonna mi leggeva e commentava Alice nel paese delle meraviglie, lettura inconsueta per l’epoca. Allora lei capisce tutto lo scherzo del ‘ghigno senza gatto’, del ‘gatto senza ghigno’, il cappellaio matto, la lepre marzolina. Mi viene in mente anche quella che era una poesia (che è stata poi tradotta in mille modi diversi), La caccia allo squero. Era un non-sense, in cui però ognuno riusciva ad inventarsi un senso, ammesso che si adattassero gli stereotipi di un certo tipo di poesia a quelle parole di non senso. Ma ne potevi adattare altre e giungere ad altri significati possibili. Mia nonna mi diceva: “Una nave che esce dal porto camminando con passo scozzese / che è lo stesso che prendere un morto e pagarlo alla fine del mese”. Questi erano i miei divertimenti, ed era anche un gioco sull’intenzione delle parole. Mia nonna mi diceva: “Vammi a prendere il currupizzu”, parola, questa, che non esiste in nessuna parte del dialetto. Quindi veniva in mente che un oggetto (col quale lei parlava, perché mia nonna era solita parlare con gli oggetti) potesse essere chiamato currupizzu. La sintonia perfetta era che io in quel momento capivo che cos’era il currupizzu e glielo andavo a prendere. Allora, sono stato educato a una certa creazione delle parole come per gioco.

S.F. : La creatività e l’innovazione linguistica sembrano affidate nei suoi romanzi soprattutto ai personaggi popolari, alle varietà basse. Di contro c’è il linguaggio formale e standardizzato dei registri ufficiali.

A.C. : Sì, è esatto. A me serve, non so che dire dal punto di vista di uno studioso, ma a me serve.

S.F. : Perché la scelta di affidare proprio alle varietà popolari questa caratteristica creatività linguistica?

A.C. : Perché sono effettivamente più creativi. Se lei prende la traduzione in dialetto siciliano che Pirandello fece de Il Ciclope di Euripide, vi trova un’operazione strepitosa, dalla quale io ho rubato tutto. Pirandello fa parlare il Ciclope in modo tale che tu, attraverso l’uso delle parole, ne hai l’immagine di un grasso, pesante contadino, proprietario di mànnare, di mandrie. Il Ciclope vede Ulisse e dice: “tu, gramusceddru…”. Ora, se lei dice oggi a un siciliano gramusceddru, quello le dice: “e che vuol dire?”. “Tu, gramusceddru tringuli minguli...”. Un siciliano di oggi direbbe: “Madonna!”. Ma io l’ho sentito dire quand’ero bambino dai contadini di mio nonno. Gramusceddru è il vitellino appena nato, tringuli minguli, che non si regge sulle gambe. E’ bellissimo perché è inventato, assolutamente inventato. Allora, hanno più inventiva. I buoni siciliani s’infuriano perché io mischio al linguaggio piccolo borghese il linguaggio contadino. Cataminàrsi è contadino, ma contadino greve, non è borghese. Questo provoca un salto nella comprensibilità, ma anche nel suono, nella parola. Come posso dire, se uno lo legge dice: “oddio, che vuol dire?”; ma ad un siciliano nel DNA gli deve risuonare questa parola. Tornando al Ciclope: “Vedi, gramusceddru, chiove. Io me ne futtu. Traso inna grotta mea, addrummu u focu, m’incucupu- m’incucupu è ‘tirarsi le coperte fin sopra la testa’- e tiro certi pirita all’urbigna - cioè ‘alla cieca’- ca li furmini di lu padri Giovi mi fanno arridere. Che me veni a cuntari tu de li to dei, io mangio li me crapetta…” il Ciclope è proprio greve. Questa è stata per me una lezione fondamentale, anche perché poi questo testo l’ho messo in scena quattro o cinque volte in teatro. Ulisse, invece, ‘ha fatto il militare a Cuneo’, ha girato il mondo, è ‘uomo di mondo’; quindi parla in dialetto, ma è un dialetto che tende all’eleganza della lingua: “Avissi vo’ per caso una tanticchia d’acqua per dissitare questi miei sordati…”. Quindi è un siciliano che è diventato un tentativo di proporsi come alterazione della lingua italiana, tende a qualcos’altro. Questo è un gioco che io faccio continuamente.

S.F. : Quindi continua è la commistione dei registri, delle varietà…

A.C. : Certo. Faccio un altro esempio. Io mi sono trovato a commuovermi come un imbecille due anni fa su una parola. Ma proprio mi stavano spuntando le lacrime. Mia nonna mi chiamava pizzipiturru, cioè ‘discolo, monello’. Io credevo fosse una parola inventata da mia nonna, perché mia madre non mi chiamò mai pizzipiturru, e neanche mio padre. Scrivendo la Biografia del figlio cambiato, mi capitò di leggere una lettera di Pirandello alla sorella Lina, che dice: “Cara sorella pizzipiturra…”. “Madonna!” pensai. Ciò vuol dire che era una parola dell’agrigentino che già ai tempi di mia nonna e di Pirandello stava scomparendo, cominciava con l’essere poco usata. Quindi non era un’invenzione, era adoperata, se Pirandello la usa nello stesso identico significato che mia nonna gli dava nei miei riguardi.

S.F. : Per un linguista la sua opera è molto interessante non solo perché propone un esperimento linguistico sui generis, ma anche per il fatto che questa soluzione sperimentale riesce a raggiungere un pubblico assai vasto, e quindi può in qualche modo avere influenze sul parlato degli italiani di oggi.

A.C. : Io questo l’ho già visto. Parecchi lettori miei mi scrivono dicendo: “Sa, mi capita spesso di rispondere al telefono dicendo che camurrìa! Io sono di Biella e mai mi sarei sognato che mi potesse accadere una cosa simile”.

S.F. : Il personaggio di Montalbano è stato addirittura imitato in televisione, tanto che la frase “Montalbano sono” è passata sulle bocche di molti italiani e capita ancora di sentirla pronunciare. L’esempio può sembrare banale, ma è, a mio avviso, significativo. Ho letto su «Liberal» il dibattito sull’editoria che si è svolto fra lei, Lidia Ravera e Giuseppe Pontiggia[3]. A un certo punto lei dice di credere ancora nella funzione dello scrittore come educatore e modello di lingua.

A.C. : Solo di quello, per il resto non fatevi illusioni!

S.F. : La soluzione che lei propone, dunque, può essere considerata una risposta all’appiattimento e all’omologazione linguistica?

A.C. : Sì. Prima di tutto, però, è una necessità mia di scrittura. E’ molto semplice. Quando scrivevo in perfetto italiano non riuscivo ad arrivare a più dell’elzeviro, cioè delle due colonnine da scrivere su un giornale parlando di quanto è bello il tramonto. Ma nel momento nel quale dovevo entrare dentro un vero fatto narrativo, non ce la facevo a reperire nella lingua italiana le parole per dirlo. Ma non era una mancanza dell’italiano, ma una colpa mia, una mancanza mia. Questo perché poi vado a leggere Palazzeschi e vedo come si scrive in italiano, come lo si può adoperare in maniera espressiva.

S.F. : E’ tipico dei parlanti dialettofoni avvertire l’italiano come una lingua appresa, una lingua seconda capace di minor espressività rispetto al proprio dialetto.

A.C. : Benchè io a scuola l’italiano me lo giocassi con dieci, quindi non è che avessi problemi a fare il tema in italiano, mi riusciva difficile dire quello che pensavo veramente, inventarmi un personaggio tutto intero in lingua italiana. Sa che oggi mi riuscirebbe molto meno difficile e non so perché?

S.F. : Oggi rispetto a quando ha cominciato a scrivere?

A.C. : Sì.

S.F. : E per quale motivo?

A.C. : Perché credo di avere ormai la mano alla scrittura, il che è un altro discorso, parallelo. Ma queste parole non erano le mie. Io posso avere, poniamo, un livello 0,5. Ma se non avessi trovato, studiato, adoperato questo sistema di comunicazione, io sarei rimasto a 0,2. Su questo non c’è il minimo dubbio.

S.F. : Però lei sostiene che questo sia un suo limite. Perché vede, oggi può apparire un po’ semplicistico riproporre la dicotomia fra italiano come lingua inespressiva e atona e dialetto come codice deputato all’espressività. Studiando le evoluzioni dell’italiano contemporaneo si nota, per esempio, come, in conseguenza del fatto che i dialetti tendono oggi a ricoprire un minor numero di ambiti d’uso, l’idioma nazionale tragga risorse espressive da altre varietà come, per esempio, quelle gergali, quelle giovanili.

A.C. : Certo. Ora, io però non vorrei che si pensasse che io sto proponendo un modello valido per la Lombardia, per la Venezia Giulia o per chi si vuole. Io dico che questo è il mio modo di esprimermi. Non pigliatelo ad esempio perché cadreste nel ridicolo. C’è anche questo rischio. Ma se devo spiegare perché scrivo in questo modo, io dico per una incapacità mia di usare la lingua italiana senza avvertirla come lingua indotta. I contadini, i pescatori, i carrettieri del mio paese dicevano: “lu talianu s’impara co lu culu”, ‘l’italiano s’impara col culo’. Il culo come oggetto di percosse. Cioè a forza di botte, di legnate si impara l’italiano. Quindi è una lingua imposta. Certo che è semplicistico (e l’ho adoperato anch’io per tentare di trovare una spiegazione e me ne faccio carico); è vero, ma solo fino a un certo punto, che il luogo dei sentimenti è nel dialetto e il luogo della ragione nell’italiano. Ma per uno come me che amerebbe raggiungere la lucidezza razionale di Sciascia e non ce la farà mai, dire una frase di questo tipo significa avere perso la battaglia.

S.F. : E la risposta così entusiasta del pubblico a questo tipo di lingua, pensa che possa essere letta come un bisogno di trovare soluzioni formali che si discostino da quelle omologate e standardizzate?

A.C. : Io credo che ci sia una certa stanchezza della lingua. Probabilmente ai lettori piace trovare un rafforzamento e un continuo paragonare la lingua del loro uso quotidiano con una lingua che è anche italiano, ma che è diversa. Non è accademico, ma è come andare a cercare le puttane per fare all’amore meglio con la moglie. Uscì tempo fa su «L’Indice dei libri del mese» una recensione molto bella che diceva proprio: “Ma forse che gli italiani, con questo successo di Camilleri, vogliono riaggrapparsi alle radici della lingua…?”

S.F. : …all’anima agreste, ancestrale, contadina dell’italiano; era un articolo di Giuseppe Nicotri[4]. Lei è d’accordo con questa ipotesi?

A.C. : Credo di sì. Perché poi lei deve calcolare una cosa fondamentale. Quando i tedeschi scrivono: “Camilleri ha raggiunto un milione di copie vendute”, bisogna considerare che questa cifra riguarda sette libri di Montalbano tradotti. Quindi lei deve dividere per sette. Se si dice, come è vero, che io in Italia ho venduto sei milioni di copie, lei deve però dividere per sedici. Quindi la quantità di lettori mia oscilla da 350 a 500 mila lettori, non va oltre.

S.F. : Questo perché lei dice che sono poi gli stessi che comprano i vari libri.

A.C. : E certo! Quindi il fenomeno va ridimensionato, non è poi tutta ’sta gran cosa. Degli italiani che leggono, i miei lettori non raggiungono un milione per un libro. Grasso che cola quando si raggiungono le 500 mila copie di Montalbano ne La gita a Tindari, o ne L’odore della notte. Gli altri romanzi rimangono a 350 mila copie. Voglio dire, quindi, che c’è una selezione nel pubblico che mi legge, non è che mi leggano tutti indiscriminatamente. Quelli che mi leggono sono in grado di compiere dentro di loro delle operazioni più o meno coscienti in rapporto al linguaggio mio.

S.F. : Lei ha più volte dichiarato di aver bisogno di far nascere un personaggio dalla lingua che quel personaggio parla.

A.C. : Addirittura scrivo prima dei dialoghi, come se fossi un commediografo.

S.F. : E perché dice: “io per il teatro penso di non saper scrivere”, quando molti dei suoi romanzi hanno caratteristiche spiccatamente teatrali?

A.C. : All’apparenza. Infatti ridurre per il teatro Il birraio di Preston è stata una fatica immane.

S.F. : E come è venuto?

A.C. : E’ venuto benissimo. Lo stesso problema si ripresenta con gli sceneggiati televisivi di Montalbano, che sembrerebbero così già scritti per la televisione, e non lo sono. Anche questo è un inganno che andrebbe studiato a lungo.

S.F. : Per ritornare al discorso di prima, lei ha detto che se deve, per esempio, narrare la storia di un contadino del Settecento, ha prima bisogno di capire come parla. O ancora, se deve far parlare un genovese dell’Ottocento, non si accontenta di prendere il testo e farlo tradurre ad una persona che sappia il genovese. La lingua, insomma, fa il personaggio. Posto questo, come ha fattivamente proceduto per la ricostruzione, per esempio, del dialetto genovese di Bovara ne La mossa del cavallo?

A.C. : Cominciamo col dire come procedo io con un dialetto o con una lingua che non conosco. Perché, per esempio, ne Il re di Girgenti c’è lo spagnolo.

S.F. : Sì, però a riguardo de Il re di Girgenti ho letto che ha iniziato a leggere Cervantes in lingua per acquisire la sonorità della lingua spagnola.

A.C. : Sì, e lo stesso ho fatto per gli altri romanzi.

S.F. : Anche per un dialetto ostico come il genovese?

A.C. : E chi glielo dice?! Lei si va a prendere le cassette di Gilberto Govi e se le vede. Lì recitano in genovese. E lei acquista anzitutto un suono. E’ come un gioco di bambini. Quando il bambino dice: “Ora, nonno, ti parlo in inglese” e imita il suono della lingua che dice di parlare. Si inventa delle parole inesistenti in lingua inglese, che però hanno il suono di quella lingua. Cioè è un fatto mimetico, di sonorità. Ed è fondamentale.

S.F. : Quindi il genovese di Bovara è in gran parte inventato?

A.C. : No. Allora, mi sono preso dei poeti. Naturalmente lei non può andarsi a prendere un poeta del Novecento per riprodurre la parlata di un uomo dell’Ottocento, perché sarebbe un errore gravissimo. Ogni dialetto o lingua ha una sua evoluzione. Ho trovato un’antologia di poeti genovesi dell’Ottocento. Tenga presente che avevo sentito Govi. Quindi, quando poi c’era la traduzione in lingua italiana del sonetto o di un qualsiasi altro tipo di componimento scritto in genovese, io ne potevo sentire il suono perché l’avevo sentito. Sulla carta sarebbe rimasto inerte, invece mi viveva. Tenga presente anche i miei trent’anni di teatro, cioè la capacità di riuscire a capire il perché di un’intonazione. Quando, dizionario alla mano, ho cominciato a tradurre brutalmente quello che volevo, ho capito alla fine che questo non bastava. Una cosa è tradurre, un’altra cosa è il parlato, la disposizione di una frase. C’erano errori di costruzione, di struttura e di organizzazione del discorso. Questo può dirti un genovese, e qui è intervenuto il supporto di Silvio Riolfo Marengo. “Silvio, ma un genovese che si trova in una situazione disperata, come pensa? Allo stesso modo così corretto, come si articola il pensiero in una traduzione che rispetti la grammatica, oppure gli zompa qualcosa? Una frase del genere la può dire, è verosimile che gli esca fuori?”. Questo è stato il lavoro di alterazione della traduzione corretta per dare vividezza. Quando sono andato a Genova, mi sono trovato di fronte lettori genovesi che mi hanno detto: “Eh, no! Ma di dov’è questo dialetto?”. Io ho risposto: “E’ un genovese dell’Ottocento, figli miei, che vi siete un po’ persi come tutti si sono persi il proprio dialetto antico”. Ho letto a lungo Porta, per esempio, per scrivere ne Il birraio di Preston quelle due o tre battute del questore con la moglie.

S.F. : E per il fiorentino di Bortuzzi sempre ne Il birraio di Preston?

A.C. : Il fiorentino di Bortuzzi è un problema di un altro tipo. Non ho avuto rimostranze dai milanesi per il milanese adoperato dal questore.

S.F. : Anche perché forse il dialetto milanese tende più degli altri a scomparire. Milanesi purosangue che parlano milanese sono quasi mosche bianche.

A.C. : Una volta dovevo andare in un paese in provincia di Milano, Corsico. Mia moglie ci andava in bicicletta quando era giovane. Lei è di educazione milanese, ci andò a tre mesi e se ne tornò a 22 anni. Dovevo andare, dicevo, nella biblioteca comunale di Corsico che rimane aperta anche la notte, cosa che mi piacque moltissimo. Pigliammo un taxi, era tutto chiuso, erano le nove di sera. Il tassista si fermò a chiedere ad un vecchietto dov’era la biblioteca comunale. Il vecchietto rispose in dialetto milanese. Il tassinaro disse: “Non ho capito niente, ma come parla questo!”. E, mia moglie mi è testimone, io gli dissi: “Guardi le ha detto di andare alla prima a destra etc..”. L’ho ritrovato, l’ho risentito, l’avevo letto quel milanese. Il tassinaro se l’era completamente perso. Per quanto riguarda invece il fiorentino, sono nate polemiche fra i fiorentini perché ho messo l’aspirazione anche là dove non ci voleva.

S.F. : Anche dove in fiorentino si ha il raddoppiamento fonosintattico.

A.C. : Sì, ma quello è come lo sento io, non come prescrive la grammatica.

S.F. : Certo. Nunzio La Fauci[5] dice, a tal proposito, che è sempre la voce narrante a parlare, anche quando finge di scomparire e di dare voce ai personaggi senza interporre filtri di alcun tipo.

A.C. : Infatti io ho visto fare benissimo in teatro Bortuzzi da un attore siciliano bravissimo, che lo faceva parlare esattamente come io l’avevo scritto. Era esilarante. Con quegli errori che avrebbero fatto bestemmiare un fiorentino a sentirlo parlare.

S.F. : E per la riproduzione del fiorentino, quali sono stati gli strumenti di cui si è valso?

A.C. : C’è uno scrittore dialettale dell’Ottocento di cui ora non ricordo il nome, quello di ‘gallina vecchia fa buon brodo’, che addirittura io, quando lavoravo a Firenze, ero andato due o tre volte a vedere. Mi sono poi trovato i copioni e mi sono messo a studiarli. Sempre parto da un referente più o meno letterario, di livello o di scarso livello, ma sempre già scritto e già sentito, perché questo per me è fondamentale. Per esempio tutto quello che è il romano ne Il birraio di Preston è Belli.

S.F. : Tornando a La mossa del cavallo. Solitamente il tema della doppia verità viene sviluppato in relazione a codici costanti. La verità ufficiale e falsificante prende usualmente la forma della lingua ufficiale, cioè dell’italiano.

A.C. : Infatti ne Il birraio di Preston tutta l’ultima parte è scritta in italiano ed è una falsità mostruosa, il cui autore è Gerd Hoffer.

S.F. : D’altra parte il dialetto è solito esprimere una seconda verità, quella che tutti sanno essere autentica, benchè spesso si finga che non sia tale. Ne La mossa del cavallo, però, la verità detta da Bovara in italiano viene stravolta e vilipesa. Bovara propone dunque in siciliano una seconda verità, palesemente menzognera, ma accettata come vera…

A.C. : Perché fa parte del linguaggio comune proprio dell’ambiente in cui Bovara sta lavorando. Dicendola in siciliano è accettata dalla società siciliana. Bovara adotta strumentalmente gli stessi codici, gli stessi sistemi linguistici, lo stesso sistema di pensiero della realtà in cui si trova ad operare. Questa è la sua forza. Non viene ammazzato come Settembrini de La spigolatrice di Sapri perché non capiva la lingua.

S.F. : Quando Bovara parla in italiano è, agli occhi degli isolani, l’autorità lontana…

A.C. : Certo, distaccata.

S.F. : Le note metalinguistiche presenti nei suoi romanzi rivelano, innanzitutto, un alto grado di consapevolezza linguistica, degna di nota in uno scrittore, cioè in una persona che non è per mestiere uno specialista. Mostra di avere competenze linguistiche di un certo livello.

A.C. : Ho delle curiosità, le avevo prima ancora di cominciare a scrivere. Mi diverte molto. C’è un commissario di pubblica sicurezza in un autore greco dei nostri giorni, il quale ha l’abitudine di leggere vocabolari. Ora io la lettura dei vocabolari me la sono fatta. La rivelazione era avvenuta in anni giovanili, leggendo un vocabolario numerico. Era un vocabolario siciliano-italiano che trasformava alcune parole in numeri da gioco del lotto.

S.F. : Come una smorfia.

A.C. : Sì, ma si vede che i primi proprietari della ricevitoria non erano siciliani e quindi avevano bisogno di capire in qualche modo a che numero smorfiare il sogno. Mi appassionò terribilmente.

S.F. : Dove lo trovò questo dizionario?

A.C. : Tra i libri di mio nonno. Da quel momento mi è capitato anche di leggermi, per esempio, un vocabolario genovese-italiano e di andare a vedere assonanze e dissonanze col siciliano. C’è una gran quantità di parole genovesi uguali al siciliano. E’ incredibile. Solo che di primo acchitto non si nota la parentela a causa della diversità di pronuncia. Ma quando te le vai a scrivere ti accorgi che sono quasi uguali. Questa curiosità per i dizionari ce l’ho sempre avuta.

S.F. : Nella compilazione del glossario di Un filo di fumo si è valso di qualche dizionario dialettale?

A.C. : Sì, ma poco perché quelle erano parole del mio dialetto. Comunque sia mi sono valso del celeberrimo Mortillaro, e poi del Traina, che è una sorta di Mortillaro leggermente aggiornato. Poi ce ne sono altri che a volte consulto. Vede, questo è per esempio quello della mafia. Quindi ho una curiosità di un certo tipo. E poi c’è un’altra cosa da tener presente, e cioè che io per tanti anni ho insegnato all’Accademia D’Arte Drammatica, i cui alunni provengono da tutte le parti d’Italia. Io insegnavo regia, ma insegnavo anche, qualche volta, recitazione. Avviene allora che se lei sta mettendo in scena Goldoni e a recitare è un attore siciliano, come fa quell’attore a interpretare Arlecchino e a farlo magari benissimo? Era questo tipo di meccanismo mentale che mi interessava. Nel momento in cui un attore fa Ruzzante e lo fa terribilmente bene, però viene da Ascoli Piceno, uno si chiede: “Come fa?”. Ecco, mi interessava vedere il procedimento mentale che gli attori seguivano per raggiungere certi risultati. Sono sempre stato curioso di queste cose. Poi io penso che, specialmente dopo l’unità d’Italia, negli anni immediatamente successivi, ognuno portasse il suo repertorio di dialetto nel campo comune di intesa ufficiale che era la lingua italiana; ciascuno traduceva rapidamente in simultanea dal proprio dialetto in italiano, dando così forma ad un italiano bastardo, che è l’italiano notarile, l’italiano…

S.F. : come lingua franca…

A.C. : Sì.

S.F. : Ma l’inserzione nei suoi romanzi delle numerosissime note metalinguistiche è avvenuta consapevolmente per aiutare il lettore ad entrare nel suo universo linguistico?

A.C. : Io non so quanto sia consapevole la presenza del lettore quando scrivo. Gli unici momenti nei quali ne tengo conto sono francamente quelli in cui scrivo Montalbano. Ma, anche qui, ne tengo sempre meno conto. Adriano Sofri l’ha notato a proposito de L’odore della notte. Ne tengo sempre meno conto perché non posso più avere queste restrizioni. Ci sono riduzioni di parti dialettali ma per necessità mia, non per venire incontro a certi problemi del lettore. Faccio un esempio. Io butto via tutto quello che scrivo, cioè a dire non esiste una carta che sia pre-pubblicazione. Ma in una prima e in una seconda stesura de La mossa del cavallo le parti in genovese erano assai di più. Poi mi sono reso conto che stavo commettendo un errore, perché il personaggio non aveva necessità di parlare in genovese in certe situazioni, poteva e doveva parlare solo in italiano. Allora alla zona incubi, alla zona pensieri ho lasciato il genovese. Ma ci sono arrivato dopo a questa soluzione di taglio. E non era perché pensassi alla difficoltà del lettore davanti al genovese, che oggettivamente c’è, ma perché commettevo un errore io, un errore di misura narrativa, era un altro discorso.

S.F. : Sta di fatto che i romanzi precedenti agli ultimi due sono pieni di osservazioni metalinguistiche che riguardano, per esempio, il significato di espressioni e modi di dire locali, o ancora le interazioni fra codici. Capita, per esempio, che si abbiano scambi dialogici fra personaggi con competenze linguistiche differenti. Ecco allora che l’introduzione di glosse esplicative è resa necessaria a livello strutturale e trova una motivazione anche internamente al romanzo.

A.C. : Sì.

S.F. : Nello stesso tempo aiuta il lettore ad orientarsi in un codice a lui sconosciuto e gli permette di capire parole che altrimenti non capirebbe. Ritorna dunque il processo di coinvolgimento di cui si parlava prima. Ma le riflessioni su lingue e dialetti che compaiono nei suoi romanzi fungono forse anche da messa in guardia dai poteri ambivalenti di ogni lingua. Come a dire: “Stia attento il lettore. Ogni lingua (e ogni dialetto) è uno strumento dalle potenzialità infinite. Può servire per comunicare informazioni veritiere, ma anche per falsificare la realtà. Attraverso l’uso della lingua ci si può salvare, ma si può allo stesso tempo essere fraintesi, incorrere in equivoci inestricabili. Si può giungere persino a perdersi, ad essere accusati di delitti che non si sono commessi. Chi mi legge acquisti  coscienza e consapevolezza di ciò”.

A.C. : Questo credo di dirlo sempre. In qualsiasi libro faccio questo discorso più o meno esplicito. Palese è ne La mossa del cavallo, più sotterraneo è, per esempio, ne La concessione del telefono. Ma rimane sempre il problema che se tutto questo è vero per l’Italia, non so fino a che punto valga per l’estero.

S.F. : Pur se non facendo esplicito riferimento al suo successo all’estero, c’è chi, come Gianni Canova[6], pone l’attenzione sul fatto che nei suoi romanzi si ha la congiunzione di un elemento ambientale fortemente localistico con un elemento contenutistico universale. I crimini e i misfatti di cui lei parla non sono specificamente siciliani, ma propri di tutta l’umanità. Lei non parla della mafia odierna, racconta di una Sicilia ‘demafiosizzata’. C’è per questo chi le rimprovera di ritrarre una Sicilia inesistente. Altri dicono che non esiste una sola Sicilia, ma bensì ci sono tante Sicilie quante gli occhi che le vedono. Comunque questo processo di delocalizzazione dell’elemento locale farebbe in modo che la sua provincia possa essere in grado di rappresentare qualsiasi provincia d’Italia e del mondo. Anche La Fauci[7] pone l’attenzione su questo aspetto, soprattutto, però, a livello linguistico. Dice che la sua lingua (lessicalmente siciliana e morfologicamente italiana) fornirebbe al lettore il piacere della diversità nell’identità.

A.C. : Può essere anche questo, può essere questa una spiegazione plausibile. Questo è sempre quel discorso russo: “Descrivi il tuo villaggio. Descrivilo bene e scopri che hai descritto il mondo”. Però non sono problemi che mi pongo in maniera assillante.

S.F. : Sull’ultimo numero di MicroMega, nel colloquio col magistrato svizzero Carla Del Ponte[8], lei a un certo punto dice che ha serie difficoltà a scrivere di Montalbano, perché il commissario dopo il G8 deve riflettere su quanto è accaduto, non sa più bene come comportarsi.

A.C. : Lì c’è una cosa divertente perché io sto parlando con una che c’ha di fronte Milošević, che è la signora Del Ponte, che se ne viene con questa domanda del tutto femminile: “Scusi, Montalbano si sposa?”. Mi ha un po’ sbarellato. Ma certo che Montalbano si deve porre il problema. Credo che Montalbano sia perfettamente inserito nella quotidianità. Cioè da quando c’è Montalbano si può fare, volendo, una cronologia della storia d’Italia degli ultimi anni. Il problema è reale, non è fasullo. I problemi nei quali si trova Montalbano sono due. Uno è quello della inadeguatezza ai tempi moderni. Lui è un signore di cinquant’anni abituato a certi codici, abituato al territorio. Quando io scrissi il primo romanzo, che non aveva niente a che fare con Montalbano ed era Il corso delle cose, nella nota intitolata Mani avanti dissi: “potrei scrivere di città a me sconosciute utilizzando delle dettagliate guide turistiche. Il problema sarebbe ritrarre quelli che ci vivono in queste città, come la pensano, come ragionano”. Montalbano crede di conoscere i codici dei vigatesi, e soprattutto il loro territorio. Quando si è detto: “Operazione Vespri Siciliani. Noi mandiamo gli alpini a presidiare il territorio siciliano”. Vabbè, lasciamo perdere. E’ un errore in sé mandare gli alpini in Sicilia. Mandate soldati di leva siciliani che conoscano la realtà in cui operare. Ma oggi, (e la prima crisi Montalbano ce l’ha ne La gita a Tindari con Internet) che territorio c’è? Dove sono i confini di un territorio? Che significa territorio? Oggi la nozione di territorio non ha più senso. Territorio è il mondo. Montalbano è totalmente inadeguato a una globalizzazione, è troppo vecchio. L’altro motivo di crisi è un certo bestiale comportamento della polizia esploso all’improvviso. Talmente esploso all’improvviso (ma già esistente chiaramente in alcuni strati) che una gran bella quantità di poliziotti, di questori e di vicequestori si sono sentiti in dovere di scrivermi, non giustificando per niente i loro colleghi. Allora se questi signori hanno avvertito una crisi di questo tipo, è ovvio che Montalbano la deve avvertire. Ma non è la crisi di un poliziotto giovane, è la crisi di un poliziotto al termine della sua carriera. Quindi, se ne va? Rimane? Questi sono i termini brutali del discorso che io devo prima o poi affrontare. Posso scrivere dei raccontini atemporali, che non si sa quando siano capitati. Lì mi guardo bene dal parlare di Berlusconi o di un ministro dell’interno, per non datare la vicenda. Ma a un certo punto bisogna che ci arrivi. E’ come la storia di Montalbano con Livia per cui la signora Del Ponte reclama una svolta: “ci risolviamo, bimbo mio?!”.

S.F. : Tornando alla lingua, come si spiega il fatto che la sua soluzione formale fosse considerata eccentrica negli anni ’70 e ’80, per poi improvvisamente incontrare il favore del pubblico negli anni ’90?

A.C. : Negli anni ’70 e ’80 era eccentrica per alcuni e per altri no. Quando io cominciai a scrivere, per dieci anni venni rifiutato da tutti gli editori, che dicevano: “Come scrive questo?!”. Quando con Leonardo Sciascia capitò la storia de La strage dimenticata, Leonardo disse: “Però adoperi troppo siciliano”, giudizio che mantenne anche quando io scrissi Un filo di fumo. Gli piacque, ne scrisse su «L’Ora»di Palermo; disse che andavo tenuto d’occhio, l’ho saputo solo giorni fa. In un articolo su «Il sole 24 Ore»Antonio Calabrò parla di questo articolo di Leonardo su «L’Ora». Garzanti mi chiese il glossario. Capitò, però, una cosa curiosa. Mentre in Sicilia vennero fuori frasi del tipo: “Come minchia scrive chistu!?”, io venni capito e analizzato molto bene nell’arco alpino. La prima rivista seria che si occupò di me fu una rivista letteraria in lingua italiana di Pola. Poi venne «Il Piccolo» di Trieste. Poi venne il quotidiano di Bolzano, e poi quello della Valle D’Aosta. Questi sono stati i primi a capire i libri, a scrivere bene di come scrivevo. Allora la cosa mi terrorizzò. Dissi a mia moglie atterrito: “Ma allora sono uno scrittore mitteleuropeo e non lo sapevo!”. Mi sono fatto poi, anni dopo, un’idea. Quando Pirandello dice: “Noi, signora mia, nel cervello abbiamo tre corde: la corda civile, la corda pazza…” etc. Io ho ipotizzato che nel cervello di questi signori ci fosse un’automatica abitudine al bilinguismo.

S.F. : E’ vero.

A.C. : Avevano un cervello allenato. Non c’era la fatica del signore di Torino. C’era quasi la necessità del capire, essendo abituati in questo modo. Perché altrimenti non te lo spieghi come mai dove c’era il bilinguismo io sono stato immediatamente capito.

S.F. : Certo, perché il rifiuto del lettore siciliano si capisce, aspettandosi egli di ritrovare il suo dialetto locale e rimanendo poi deluso. L’abitudine al bilinguismo potrebbe effettivamente essere una spiegazione plausibile. In tutta l’Italia postunitaria, però, si è sempre fatto i conti la diglossia lingua-dialetto.

A.C. : Io non so che dirle. Lì capitò che la prima analisi linguistica venne fatta nell’arco alpino, a firma di un signore dal nome altoatesino puro.

S.F. : Forse all’interno della situazione italiana di diglossia, i parlanti non avevano uguale competenza della lingua nazionale e del dialetto. Mentre nel caso del bilinguismo vero e proprio la competenza dei due codici era più equilibrata e quasi equipollente. Un’altra ipotesi circa la sua scelta linguistica è avanzata da Simona Demontis[9], la quale sostiene che lei recupererebbe il dialetto siciliano per compensare in qualche modo l’esilio involontario dalla sua terra. A me sembra un’idea semplicistica…

A.C. : No, non sono d’accordo con la Demontis, anche perché non mi sento in esilio.

S.F. : Bruno Porcelli[10] ha invece paragonato la sua scelta linguistica a quella di Vincenzo Consolo, citando parole di quest’ultimo per definire una presunta posizione comune. Consolo dice: “Io cerco di salvare le parole per salvare i sentimenti che le parole esprimono, per salvare una certa storia, una certa realtà che sta scomparendo”. A mio avviso, però, l’uso che Consolo fa del dialetto è cosa diversa rispetto all’uso che ne fa lei.

A.C. : Anche perché io non sono così nostalgicamente legato alle realtà che stanno scomparendo. Se le realtà scompaiono, c’è una ragione per la quale scompaiono: o per debolezza di quella stessa realtà o per forza maggiore di una realtà diversa. Non uso la lingua come remora o come colla per mantenere in piedi qualche cosa che sta scomparendo. Uso la lingua come ricerca progressiva, continuamente rinnovata, di necessità radicali mie di espressione.

S.F. : Dopo Gadda non ha più senso neppure la distinzione fra uso del dialetto con valore realistico e uso del dialetto con valore espressionistico, cioè come riproduzione fedele di una realtà o deformazione di quella realtà stessa. Gadda ha sintetizzato e fuso queste due modalità di adoperare il dialetto

A.C. : Certo. Poi c’è anche da dire che Consolo aspira a una lingua alta. Io aspiro a una lingua medio-bassa, bastarda, impura. Quindi la differenza è enorme, perché diverso è l’uso che noi facciamo di certe provenienze dialettali. Il mio tentativo è di orizzontalizzare questa provenienza all’interno di una realtà medio-bassa della lingua italiana. Vincenzo aspira, invece, a farsene gradino e scalino per una lingua alta, colta. Mi pare evidente dai suoi libri. Leonardo taglia la testa al toro, cerca di scordarsi il più possibile del dialetto siciliano e affila questo suo italiano come un bisturi, perché la sua ragione diventi, attraverso le parole, tagliente. Ma gli scopi miei non sono quelli di Sciascia. Io mi abbandono solo al gusto del raccontare.

S.F. : Lei ha un fare molto più divagatorio…

A.C. : Esatto. Se poi qualcuno ne tira fuori una morale, buon pro gli faccia. Non tiro io fuori la morale come fa Leonardo, e neanche ti faccio cadere dall’alto, attraverso la mia lingua, la mia verità. Me ne guardo bene. In questo senso posso anche essere dichiarato uno scrittore di intrattenimento. Ma non mi offendo. Io ho un altissimo concetto del mestiere di scrittore. Gli artisti dello scrivere sono pochissimi, si contano sulle dite delle due mani (non di una, una non basta, fortunatamente ce ne vogliono due, ma lì stiamo). D’altra parte la coscienza del limite tu ce l’hai quando fai il mestiere del regista. E quella te la impari a spese tue, se hai un minimo di intelligenza e molta poca presunzione. Tu dici: “io metto in scena l’Amleto”. Non è che sia un’impresa da poco. E’ un’impresa immane, per cui tu pigli un capolavoro assoluto e tenti di portarlo in scena. E’ come quando dirigi un concerto, tu dici: “quel direttore mica riesce a capire, a dare tutto di Bach”, poniamo, perché è di livello più basso, non è Bach; e io non sono Shakespeare. Allora, fino a che punto riesco a raggiungere quel livello cento di Shakespeare? Quando raggiungo quota settanta mi sento soddisfatto. Ma bisogna averlo questo senso del limite, altrimenti poi pensi di aver fatto una bella trovata di regia, che si rivela in realtà una fesseria.

S.F. : Cosa sta scrivendo in questo momento? Ha in mente qualche progetto?

A.C. : Ho delle idee. Ho scritto qualche cosa sul mio terreno più facile, che è Montalbano. Si tratta di racconti, scritti anche per tenermi in esercizio. Per quanto riguarda i romanzi, dopo Il re di Girgenti che mi è costato una vita…

S.F. : che io trovo stupendo…

A.C. : Ha letto l’articolo sulla lingua de Il re di Girgenti che è apparso su «L’Indice dei libri del mese»?

S.F. : No.

A.C. : E’ di un docente di storia della lingua italiana all’università di Genova. Si chiama Vittorio Coletti[11]. E’ uno studio molto serio.

S.F. : Coletti, sì lo conosco, ma non ho letto l’articolo. Nel complesso come è stato accolto dalla critica Il re di Girgenti?

A.C. : Male da alcuni; ho per esempio avuto una stroncatura di Pacchiano su «Il Sole 24 Ore». Belle recensioni da altri. Non ci sono state vie di mezzo, insomma. C’è stato o il rifiuto totale o l’accettazione piena.

S.F. : Cosa non è piaciuto?

A.C. : Le leggo una recensione: “…è la stessa virtù espressiva, pregio del romanzo di Camilleri, a risultare anche nel contempo il punto debole. Ogni volta si trasforma in virtuosismo, fastidioso nel suo compiacimento camuffato da spigliatezza; così come l’espandersi, ciò che accade ne Il re di Girgenti, del dialetto; più che pura necessità dello scrittore che ritrovi nella matrice dialettale la sua forma, l’unica adatta ad enunciare la materia rappresentata, il dialetto appare in Camilleri vernicetta, colore, gioco, tacito ammicco.” Ora, a questo punto nessun professore serio di università dovrebbe dare una tesi sul mio linguaggio se è una vernicetta.

S.F. : Spesso le critiche che derubricano il suo linguaggio a folklore o a rivestimento superficiale mostrano, a mio avviso, una scarsa perizia linguistica. Sono generiche ed hanno il difetto di non addentrarsi in rilievi linguistici puntuali.

A.C. : “Si fa un gran parlare della lingua di Camilleri. Ma che linguaggio usa? Siciliano, certo, ma inventato. Un siciliano infarcito a volte di termini napoletani (?!) e persino romaneschi. Tuttavia non si tratta di plurilinguismo, perché la lingua di Camilleri è siciliana solo a livello lessicale e non sintattico; non segue il dialetto nel dar forma alla frase, se non in alcuni punti. Per questo la può leggere anche chi siciliano non è. Si provi a tradurre una sua pagina in italiano; si troverà una sintassi semplice, al limite della paratassi. Niente a che fare con Gadda.”

S.F. : Il fatto che non si tratti di siciliano ‘vero’, ma che il dialetto venga sottoposto a manipolazioni inventive, non mi pare sia una critica. Lo scrittore non è un grammatico, né un dialettologo in procinto di scrivere un trattato scientifico. Il fatto che il dialetto sia presente più a livello lessicale che sintattico (fatto peraltro vero) è una constatazione neutra, senza connotazioni. Non è di per sé un difetto. Questa critica lascia allora intendere che uno scrittore che voglia utilizzare il dialetto, sia costretto a farlo in maniera totalizzante per risultare valido. A questo punto dovrebbero esistere solo autori dialettali da un lato, e autori italiani dall’altro. Inoltre si può qui avvertire l’emergere di un pregiudizio. Poiché nel Novecento il dialetto è stato soprattutto utilizzato in un tipo di poesia estremamente colta, elevandolo a usi forse inconsueti, pare che dopo questo esperimento ci si debba per forza allineare a una scelta alta perché la propria opera abbia dignità letteraria. Ma uno scrittore può anche usare il dialetto all’interno di una valorizzazione dei toni dell’oralità, della colloquialità, dei registri informali.

A.C. : Certo. Pazienza! Che ci vuoi fare? Succede. Tornando ai progetti, ho in mente di scrivere una cosa ma non ho ancora definito la struttura, e quindi per il momento sta lì. E’ una storia deliziosa. Nel ’42 io ero marinaretto. I giovani fascisti avevano una divisa grigio-verde, oppure erano vestiti da marinaretti. Io ero marinaretto. Noi di Porto Empedocle, nelle grandi adunate fasciste, facevamo macchia di colore, con questo azzurro scuro delle nostre divise. Comunque, nel ’42 si andò tutti a Caltanissetta per la commemorazione del ventennale della morte del martire fascista Gigino Gattuso, di cui io felicemente non avevo mai sentito parlare. Partimmo coi treni speciali dalle varie province della Sicilia per andare a commemorare questo unico martire fascista di cui la Sicilia si vantava, ucciso barbaramente da un comunista nel ’22 con una revolverata in faccia. Mio padre, che era fascista, mi disse: “Io devo venire a Caltanissetta per affari miei. Poi passo a prenderti”. La cerimonia si svolgeva in una piazza. Il federale di Caltanissetta diceva dell’eroico sacrificio su un palco, accanto al monumento al martire Gigino Gattuso, che era un enorme fascio littorio sul quale stranamente c’era la testa del martire. Una cosa assolutamente ridicola, ma di cui io allora non capivo la ridicolaggine. Mentre questo commemorava, io vedevo dentro il portone di una casa che chiudeva la piazza  un signore vestito di nero che piangeva, si pilava come si dice in Sicilia, cioè aveva il volto pieno di lacrime. Arrivò mio padre. “Papà- dissi- chi è quel signore che piange?”. Mio padre lo guardò e disse: “E’ l’assassino”. ‘Sta storia di “è l’assassino” mi è ritornata di colpo dopo una vita. Cioè a dire perché l’assassino era in libertà? Perché lo sporco comunista piangeva in quel modo? Non ne ho mai saputo più nulla. Fin quando, cinque o sei anni fa, non mi scrive un giornalista da Caltanissetta che mi manda un libro, nel quale c’è la vera storia de Il birraio di Preston, (la storia di quello che realmente capitò quella sera, cioè a dire l’intervento della cavalleria; l’incendio del teatro non ci fu, me lo sono inventato io; ma successero incidenti seri), e poi c’è anche la storia del martire fascista Gigino Gattuso. Il monumento è stato poi portato via, la piazza non è più intitolata a lui; gli hanno però intitolato una via dove c’è scritto Gigino Gattuso, martire; che tu non sai se è martire cristiano sbranato dai leoni oppure martire di chissà che cosa. Al comunista niente piazza. Nel libro mandatomi dal giornalista c’è un lungo capitolo in cui si spiega la vera storia di questo omicidio. Gattuso fu veramente ammazzato, ma non dal comunista, ma da un altro fascista. Allora, per mettere le cose a tacere, al comunista lo liberarono dopo sei anni di carcere. E questo piangeva se stesso nella piazza in cui lo vidi, piangeva per essere innocente. Io questo libro su un martire virtuale (il quale è vero che è morto, ma non ammazzato da un comunista, bensì, per errore, da un suo compagno di partito) lo voglio far svolgere non a Vigàta, ma in un paese del quale ha parlato Leonardo Sciascia. Quando nel ’28 Mussolini venne in Sicilia, lo portarono in provincia di Caltanissetta. Qui pose la prima pietra di una città costruenda che si sarebbe dovuta chiamata Mussolinia. Nel ’34 a Mussolini venne in mente di verificare che fine avesse fatto Mussolinia e scrisse al prefetto. Mussolinia era rimasta alla prima pietra, c’era cresciuta l’erba sulla pietra. Il prefetto pensò bene di fare un fotomontaggio e mandò al duce una foto di Mussolinia montata. A Mussolini piacque e la fece pubblicare sull’annuario del Touring club, dove si ha la foto di una città totalmente inesistente. La cosa si scoprì perché gli avversari del prefetto mandarono a Mussolini un altro fotomontaggio, dove, sotto Mussolinia c’era il mare. Caltanissetta è all’interno della Sicilia, non è dunque sul mare. Gli autori del secondo fotomontaggio scrissero: “Siamo riusciti a portare il mare a Mussolinia con la stessa tecnica adoperata per creare la città”. Vennero destituiti tutti, prefetto, federale. Allora in questa città che non è mai esistita voglio situare la storia di un martire che non è mai stato tale.

 

 

 



[1]﴿ Simona Demontis, Elogio dell’insularità. Intervista ad Andrea Camilleri, in «La grotta della vipera», a. XXV, n. 88, inverno 1999, pp. 47-49.

[2]﴿ Nunzio La Fauci, Prolegomeni ad una fenomenologia del tragediatore: saggio su Andrea Camilleri, in Lucia, Marcovaldo e altri soggetti pericolosi, Editore Meltemi, Roma, 2001, pp. 150-163.

[3]﴿ Gloria Piccioni (a cura di), Prigionieri del mercato ma senza borghesia. L’editoria. Forum con Andrea Camilleri, Giuseppe Pontiggia e Lidia Ravera, http://liberalfondazione.it/.

[4]﴿ In realtà l’esattop riferimento bibliografico è: Giuseppe Nicotri, Todos Camilleros, in «la Rivista dei libri» a. X, n. 5, maggio 2000, p. 22.

[5]﴿ Nunzio La Fauci, op.cit.

[6]﴿ Gianni Canova, Romanzo poliziesco: enigmi in serie, thriller, “corti”, in Tirature 2000, Il Saggiatore – Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 2000, pp. 90-94.

[7]﴿ Nunzio La Fauci, op.cit.

[8]﴿ Andrea Camilleri, Carla Del Ponte, La realtà oltre la fantasia, in «MicroMega», n. 1/2002, gennaio-marzo, pp. 97-122.

[9]﴿ Simona Demontis, I colori della letteratura. Un’indagine sul caso Camilleri, Rizzoli, Milano, 2001.

[10]﴿ Bruno Porcelli, Un filo di fumo. Romanzo siciliano di Andrea Camilleri, in «Italianistica», aprile 1998, pp. 99-103.

[11]﴿ Vittorio Coletti, Arrigalannu un sognu, in «L’indice dei libri del mese», a. XVIII, n. 12, dicembre 2001, p. 10.